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La logica agogica di Cuong Vu

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Intevista di Ian Patterson

Sebbene New York sia la culla della migliore produzione jazzistica Statunitense, giungono vivaci segnali di nuove esperienze anche da altre città. David Binney, sassofonista e Newyorchese di lunga data, ha di recente espresso il desiderio di passare più tempo a Los Angeles, della quale dice: "sta succedendo qualcosa laggiù." Anche più a Nord, a Seattle, sta succedendo qualcosa: la scena si sta animando grazie ad un gruppo di giovani musicisti che guardano alla tradizione jazzistica non con spirito di emulazione, bensì con un occhio all'innovazione e al progresso.

Questa fioritura di talentuosi musicisti, animati da un comune intento innovativo, deve molto all'influenza e alla guida del trombettista Cuong Vu. Alla fine del 2006, dopo una dozzina d'anni passati a New York che ne hanno sancito la fama di innovatore e modernista senza compromessi - grazie al suo timbro assolutamente originale - Vu ha deciso di tornare alla sua città natale, Seattle, alla ricerca di una migliore qualità della vita: il che lo ha portato inevitabilmente ad affrontare nuove sfide.

Questo cambiamento ha dato nuovo vigore non solo a lui, ma anche al panorama jazzistico e creativo della città. Nel suo ruolo di professore associato di Jazz alla University of Washington, ruolo che ricopre da circa quattro anni, Vu ha stravolto il vecchio approccio tradizionale incoraggiando i giovani studenti ad esplorare appieno le loro possibilità creative, sia di composizione sia di improvvisazione. Vu suona insieme al quartetto Speak - composto da ex studenti del corso di Jazz - nell'omonimo disco d'esordio: questo quartetto è un ottimo esempio dei numerosi gruppi nati e cresciuti in questo ambito. Agogic è un altro incisivo quartetto con il quale Vu collabora. Luke Bergman (al basso elettrico) suona in entrambe le band ed ha suonato con il collaudato trio di Vu nel travolgente album dal vivo Leaps of Faith (Origin Records, 2011). Bergman è una delle figure più significative nell'odierno panorama jazzistico di Seattle, che è comunque ricca di molti altri musicisti di talento destinati ad acquisire una sempre crescente visibilità.

Vu è al centro di questo nuovo movimento, al quale ha dato notevole impulso grazie alla creazione di una etichetta discografica, Table and Chairs Music, e di uno spazio per le esibizioni, il Café Racer, dove pubblico e musicisti possono confrontarsi liberamente. "Non si può paragonare a New York," dice Vu, "ma in proporzione c'è la stessa creatività e intensità." È un momento magico per il Jazz a Seattle, città che diede i natali al grande chitarrista Jimi Hendrix, che ospita attualmente un altro grande innovatore, il chitarrista Bill Frisell, così come Cuong Vu, che qui sperimenta nuove strade in maniera altrettanto affascinante.

All About Jazz: Perché hai deciso di lasciare New York, dove ormai ti eri fatto un nome, dopo avervi abitato per più di un decennio?

Cuong Vu: Diventare famoso non è tutto: sulla East Coast non mi sono mai sentito completamente a mio agio. Ho studiato a Boston e poi mi sono trasferito a New York, ma non ho mai trovato la stessa qualità di vita che c'è qui. Tornavo e vedevo come vivevano i miei amici e i miei familiari e capivo come a New York questo non sia possibile, a meno di non essere molto ricchi. Non solo, ma ogni volta che tornavo a Seattle sentivo il profumo dell'aria. Siamo circondati dai monti e dall'acqua, bastano 20 minuti di macchina per trovarsi immersi nella natura. Tutto era infinitamente più pulito e più profumato.

Una volta, dopo una serata passata con Bill Frisell sull'Isola di Bainbridge, ero sul traghetto che mi riportava a Seattle e mi sono detto, "Ma perché diavolo ero andato via?" La risposta era ovvia: la musica, le esperienze eccitanti, tutto ciò che ho imparato grazie alle molte cose che New York può offrire. Ma dopo un po' mi ero stufato di tutto. E anche se dalla città scaturiva un'energia incredibile, che dava vita a tutte quelle cose, soffrivo per la confusione e mi stancavo di quella stessa energia. Ogni cosa era una sfida. Anche uscire dalla città per andare in campagna era un'impresa. Passata la trentina ho cominciato a chiedermi cosa avrei fatto quando fossi invecchiato: capivo che non sarebbe stato possibile reggere quel ritmo.

Quando andai in tour con Pat Metheny la mia carriera era sulla rampa di lancio e le opportunità fioccavano, e sembrava che non dovessi scendere a compromessi né dal punto di vista musicale né da quello artistico. Le cose poi non andarono esattamente così: dopo il primo tour insieme, alcuni dei fan del Pat Metheny Group vennero ai miei concerti ed era evidente la perplessità dipinta sui loro volti. Non solo, alcuni di loro mi dissero in faccia che non gli piaceva il mio modo di suonare né lì né con il Pat Metheny Group. Abbastanza imbarazzante, no? Io non sono il tipo che scende a compromessi: suono quel che mi sento di suonare e non mi lascio influenzare dal business. Di certo non ho sfruttato per fini commerciali l'esposizione che mi aveva procurato il fatto di suonare con Metheny.

Era una lotta continua. So bene che bisogna lavorare duro per avere successo, ma dopo un po' capii che non era la direzione giusta. Non mi faceva diventare ricco, non mi garantiva una pensione e una vecchiaia tranquilla e non mi permetteva di vivere una vita agiata, quantomeno non a New York. E questa consapevolezza si fece strada proprio quando mia madre stava vivendo un momento nel quale desiderava avere di nuovo la famiglia intorno a se. Insomma, una serie di eventi che si incastrarono alla perfezione, convincendomi che trasferirsi fosse la scelta più giusta.

AAJ: Parliamo della tua attività di professore associato di Jazz alla University of Washington, a Seattle. Come era strutturato il corso quando sei arrivato e come è cambiato in questi quattro o cinque anni?

C.V.: È un corso piccolo, flessibile e agile, frequentato da trenta, massimo quaranta studenti ogni anno, tenuto da due docenti a tempo pieno supportati da assistenti. Quando sono arrivato, ho trovato un corso molto tradizionale. Certo ci sono eccezioni, ma in generale penso che chi si occupa di musica al di fuori delle grandi città non cerchi, come obiettivo primario, di fare cose nuove. In pochi percorrono vie innovative azzardandosi ad esplorare forme musicali meno accessibili. E a Seattle trovai questo atteggiamento abbastanza diffuso. A scuola si dedicavano principalmente al mainstream e allo straight-ahead.

Da quando tengo il corso, i ragazzi apprezzano il mio contributo, il tipo di musica che propongo loro. Hanno accolto appieno il mio sprone a provare a fare la loro musica, usando il loro linguaggio basato sul tipo di musica che, crescendo, li ha ispirati, anche se tecnicamente il loro corso di studi è improntato al Jazz o alla musica classica. La loro energia e il loro entusiasmo sono semplicemente esplosi, portando alla nascita di una comunità di giovani jazzisti che propongono ottimi lavori sviluppando una scena Jazz davvero interessante. Non è paragonabile a ciò che si può trovare a New York, ma con le dovute proporzioni offre la medesima creatività e il medesimo spessore.

Di recente è cambiato il direttore della Scuola di Musica, Richard Karpen, che è un eccezionale compositore elettro-acustico e un fantastico improvvisatore. Supporta il mio corso di Jazz al cento per cento. Vuole che ci espandiamo, quindi fa di tutto per far crescere l'importanza del corso. Condividiamo un progetto che combina certi aspetti della Divisione di Composizione, del Centro per le Arti Digitali e i Media Sperimentali della University of Washington - uno dei centri di eccellenza mondiali in questo settore - e la Divisione di Jazz, al fine di creare un nuovo modo di intendere l'educazione musicale. Vogliamo far crescere una nuova generazione di musicisti abili sia nella composizione sia nell'improvvisazione e nell'esecuzione, a differenza di quel che accade oggi. Non è certo un'idea originale, ma fino ad oggi non esiste un corso che possa portare a questi risultati. Karpen ed io siamo convinti di poterlo organizzare alla University of Washington.

AAJ: Sembra una cosa molto eccitante. Quale sarebbe il tuo ruolo? Ti occuperesti di trasmettere agli studenti la tecnica o piuttosto cureresti l'aspetto legato alla loro attitudine e al loro approccio alla musica?

C.V.: Entrambe le cose. Voglio che abbiano solide basi, che siano preparati e capaci, che conoscano la storia del Jazz e che sappiano collocarlo nel giusto contesto. E se anche dovessero scoprire che la ricerca dell'innovazione non rientra tra i loro interessi, credo che sia fondamentale che in questa fase della loro vita studino gli innovatori del passato e quelli del presente e capiscano l'importanza di coltivare la musica, di accompagnarla nel suo continuo progresso evolutivo piuttosto che riposare sugli allori altrui. Allori che spesso non sono neanche così meritati. Ad esempio, penso sia importante che conoscano sia la musica contemporanea sia la musica di altre culture. E la musica popolare, la musica del nostro tempo, per farla propria e utilizzarla come base per la loro produzione originale. Insomma, una sfida a loro e al loro senso estetico. Senza tralasciare una quantità notevole di tecnica di base; come lavorare sul tempo e sull'ascolto, sviscerando il tipo di musica che si vuole comporre per capire cosa serve per diventare un grande musicista e un grande artista.

AAJ: Quanto è difficile, per un musicista sperimentale e improvvisatore di New York, trasformarsi in un docente di Seattle che insegna teoria e disciplina?

C.V.: Non molto. Marc Seales, il responsabile per la cattedra di Jazz alla University of Washington, mi ha supportato al cento per cento e mi ha dato carta bianca. Mi ci sono buttato a testa bassa, fidandomi del mio intuito e della mia esperienza, a tutto gas. È stato un grande esperimento. Il programma di musica, come è tipico dei corsi vecchio stile, era incentrato su musiche per bande e per orchestre, e il Jazz veniva trattato marginalmente. Nessuno però mi ha ostacolato e mi hanno lasciato fare. Il successo è stato determinato dal fatto che gli studenti hanno risposto alla grande. Nei primi anni la crescita è stata prodigiosa: la quantità di cose che hanno imparato, la loro apertura e la voglia di esplorare nuove idee, i loro progressi, tutte cose che hanno avuto un impatto positivo sul programma stesso. Ora è diventata un'esperienza che si autoalimenta. Certo devo comunque dare una guida e una direzione, ma si è creato un ambiente in cui tutti si supportano seppur in uno spirito di dura ma sana competizione.

AAJ: Immagino sarai fiero di questi risultati.

C.V.: Certamente. Sono particolarmente soddisfatto del clima che si è creato, diverso da quello che si respirava tra gli studenti del New England Conservatory e della Berklee, così come a New York, quell'attitudine al "Non sei abbastanza bravo per suonare con me," o "prima io," e simili bassezze. Insisto sul fatto che non puoi farcela da solo, specialmente di questi tempi nei quali l'arte e la musica sono spesso trattati con disinteresse. Sono tempi bui per l'arte. E questi ragazzi possono fare cose speciali insieme, certo molte più di quelle che riuscirebbero a fare da soli.

AAJ: Parliamo di qualcuno di questi ragazzi, come li chiami tu, partendo dal tuo disco più recente, Agogic, che è un grande album; perché questo titolo?

C.V.: Cominciai a chiamarli "ragazzi" per scherzo, e l'etichetta gli è rimasta addosso. Agogic... il nome l'ha tirato fuori il sassofonista Andrew D'Angelo. Credo che si riferisca all'accento musicale che deriva da un rallentamento repentino del tempo. Ed è anche l'accento creato dall'attacco ritardato di una nota.

AAJ: Come è nata questa band?

C.V.: Il primo anno di insegnamento alla University of Washington seguivo il piccolo gruppo che in seguito sarebbe diventato gli Speak, guidato dal bassista Luke Bergman. Divenni un fan di Luke e della sua musica, e capii subito che era il bassista con il quale avrei voluto lavorare. Sempre nel primo anno alla University of Washington, organizzai insieme a Earshot Jazz un concerto di beneficienza a Seattle per Andrew D'Angelo, al quale era stato diagnosticato un tumore al cervello, e suonai insieme a quella band. E a quel concerto successe qualcosa. La band maturò su quel palco. Si sprigionò una scintilla. E dopo quell'evento gli altri studenti si galvanizzarono vedendo che se lavoravano sodo suonando davvero bene il loro professore avrebbe suonato con loro [ride], aiutandoli e aprendogli nuove opportunità. E da lì cominciò tutto. E quando Andrew ci venne a trovare e incontrò gli studenti, ciò fu fonte di ispirazione reciproca. Veniva a trovarci, suonava con gli studenti e si intratteneva con loro, c'era proprio una vibrazione positiva. Portava una grande energia e molta saggezza che influivano positivamente sugli studenti.

E già allora, in quel primo anno e mezzo, capii che a questi ragazzi così desiderosi di sperimentare serviva un posto, sul modello del Knitting Factory o del Tonic: non qualcosa dove musicisti e pubblico fossero divisi, ma piuttosto uno spazio di esibizione comune dove si potessero riunire e imparare uno dall'altro, confrontandosi allo stesso tempo. Fu così che i ragazzi diedero vita alle Racer Sessions al Café Racer, che è un locale molto frequentato nel quartiere universitario. Le Racer Sessions sono un appuntamento domenicale fisso: ogni settimana un ospite diverso che propone il suo lavoro, la sua idea, preparata specificamente per quella sessione. C'è anche un blog nel quale l'ospite di turno anticipa i contenuti del suo intervento, così da preparare il pubblico all'evento. E la Domenica presenta il suo lavoro dal vivo. La seconda parte della serata è una jam session aperta, che l'ospite indirizza seguendo i contenuti della sua idea. È una cosa davvero forte, che sprigiona l'incredibile energia del movimento che si è formato qui, che sforna splendida musica e fantastiche band.

Poco tempo dopo mi trovai a discutere con alcuni dei principali protagonisti di questa scena e li incoraggiai a fondare una loro etichetta, per pubblicare la loro musica in maniera indipendente. Gli spiegai come questo fosse assolutamente necessario per mantenere vivo il movimento e gli suggerii di trovare il giusto modello economico, dato che l'avvento di Internet aveva stravolto i canoni classici dell'industria discografica. Loro diedero vita a questa splendida etichetta, la Table and Chairs Music e io ed Andrew pensammo che se avessimo unito le nostre forze insieme ad un paio di quei musicisti straordinari avremmo potuto dare un bell'aiuto iniziale all'etichetta. Per noi fu molto stimolante, lavorare con questi giovani musicisti e godere della loro energia, dei loro punti di vista unici e innovativi e della loro ispirazione. E per loro le nostre conoscenze ed esperienze furono utili per gettare solide basi alle loro carriere.

Anche questa intervista sarà d'aiuto per loro e per la casa discografica. Insomma, questo fu uno dei motivi che ci spinsero a costituire la band. Ma il motivo principale fu il desiderio di far musica con Luke e con Evan Woodle, il batterista, che è tuttora studente alla University of Washington. Era una matricola, che mi sconvolse con una saggezza e una musicalità che solitamente si acquisiscono dopo anni e anni di esperienza. E che è capace di abbandonarsi senza timore all'ignoto, mantenendo comunque una raffinatezza inusitata, rara, che finora ho trovato soltanto nel giovane batterista Ted Poor.

AAJ: Parliamo di Luke Bergman; il suo modo di suonare, il suo tono, mi ricorda quello di Stomu Takeishi, tuo bassista storico: cosa ne pensi, sei d'accordo?

C.V.: A me non ricorda affatto Stomu, ha un suo sound molto personale. Luke suona molto bene anche il basso acustico. Ha studiato Jazz al college ma è cresciuto più con la musica rock, specialmente underground. E non tralascia la musica classica contemporanea e anche altri generi. È uno di quei musicisti che hanno le mani in pasta in qualunque genere musicale. È un vero bassista, nel senso che con il basso elettrico genera un groove come si deve, secondo la tradizione. Stomu è diverso: è una meravigliosa anomalia, un bassista atipico. Suona come nessun altro. È unico. Predilige i medi e gli alti, occupando molto spazio sonoro. Quando suoniamo insieme diventa un duetto. In qualunque contesto ci troviamo, condividiamo le scelte e le decisioni sul momento. Anche Luke ne sarebbe capace, ma di solito si comporta più come un bassista tradizionale, di supporto. La dote di Luke è la capacità di accompagnarti in qualunque contesto musicale, al momento, seguendo con naturalezza la strada che il gruppo percorre.

AAJ: Conosci D'Angelo da molti anni. Quando è stata l'ultima volta che avete suonato insieme, prima di Agogic?

C.V.: Ah, è passato un sacco di tempo. Non suonavamo più insieme dal '98 o dal '99. Avevamo preso strade diverse, tutto qua. Anche se l'ambito era simile, siamo andati ognuno per la propria strada. Io ero concentrato sulle mie idee e in generale non suonavo molto con altri. Il suo tumore al cervello ci ha fatto riavvicinare. L'amicizia forma un legame che non si dissolve, neanche se si sta lontani per molto tempo.

AAJ: Direi che il suo recupero è stato notevole, a giudicare da come suona in Agogic e dall'energia che porta al disco. I suoi brani, come "En Se Ne" e "Too Well," sono brani incredibilmente funky e ricchi di groove, in stridente contrasto con la meravigliosa e lenta "Felicia"; come gruppo, avete volutamente cercato questo tipo di contrapposizioni?

C.V.: Né io né Andrew abbiamo un approccio così ragionato alla musica. Semplicemente componiamo a seconda di quel che sentiamo. Quindi il disco è il risultato di quel che sentivamo quando lo abbiamo composto. Non è che, con cognizione di causa, abbiamo deciso: "Mettiamo questo pezzo così diverso e facciamo in modo che funzioni." Piuttosto abbiamo cercato di scegliere dei brani che, messi insieme nel disco, potessero andare d'accordo. In realtà, quei brani non si combinavano così bene e abbiamo dovuto lavorare parecchio per ottenere una sequenza che restituisse una narrazione musicale coerente.

AAJ: Il tuo pezzo "Acid Kiss," come spesso accade nei tuoi brani, sembra partire in piena libertà e prendere forma mano a mano; è un approccio alla composizione e all'improvvisazione opposto a quello classico del Jazz; con il passare degli anni questo processo di composizione si è semplificato, o hai ancora bisogno di essere colpito dall'ispirazione?

C.V.: Non è facile, non lo è mai stato. Forse dipende dal mio carattere. Sono iper-critico, specialmente con me stesso, perciò quando ho un'idea mi deve convincere completamente, devo pensare "Sì, mi piace, ci posso lavorare," altrimenti la lascio perdere e aspetto la prossima. O forse il problema è che non sono un vero compositore perché non ho mai dedicato all'affinamento delle mie capacità compositive il tempo che quelli che considero veri compositori hanno dedicato. I veri compositori lavorano alle loro idee, le analizzano e le sviluppano. È come una scienza. Io non lavoro così, quindi il mio approccio è sicuramente meno profondo del loro. Io aspetto che arrivi qualcosa che mi piace davvero e a quel punto ci lavoro per trasformarlo in un pezzo adatto ai miei bisogni. Loro sono cantastorie e musicisti scientifici, io no. Per diventare un compositore migliore, dovrei dedicare almeno tre ore al giorno a comporre e a riarrangiare per ottenere qualcosa che funzioni a dovere: ma dato che non lo faccio, comporre per me non è mai una cosa semplice [ride]. Comunque vorrei diventare un grande musicista e forse è per questo che dedico più tempo a suonare ad alto livello rispetto al comporre. E forse è per questo che sono un improvvisatore, il che comunque mi permette di lavorare con molti degli elementi propri della composizione.

AAJ: "Old Heap," del batterista Evan Woodle, ha il tuo DNA nel suo evidente minimalismo; c'è il tuo zampino, vero?

C.V.: Può essere, credo dipenda dal modo con cui ho affrontato la sua melodia. Non so se il suo stile compositivo sia stato influenzato dal mio modo di fare, anche se devo dire che è proprio durante i miei corsi che si è cimentato con la composizione, e io li aiuto in questo. Ma non posso dire che sia merito mio. Certo, dato che sono io a suonare la melodia principale, è ovvio che il risultato finale ne è pesantemente condizionato. È così che facciamo quando improvvisiamo. Luke e Evan hanno studiato libera improvvisazione con me, quindi potremmo dire che il mio approccio scorre in loro.

AAJ: Come band, vi esibite a Seattle e dintorni?

C.V.: Ho sempre pensato, sia quando ero a New York sia qui a Seattle, che non sia il caso di esagerare: non puoi esibirti ogni sera e sperare che ogni volta ci sia il tutto esaurito. Preferisco limitare le esibizioni, diciamo una ogni tre, sei mesi, per ognuno dei miei gruppi. Non voglio una band in tour permanente. Sapevo già che una volta uscito il disco non avrei potuto andarmene in tour per via degli impegni a casa, del bambino, eccetera.

Per un po' non potrò permettermi tour prolungati. Quindi mi dedicherò ai dischi senza preoccuparmi granché di andare in tournée, a meno che non capitino delle opportunità davvero interessanti. Non voglio pensare all'incubo di passare i controlli di sicurezza all'eroporto, viaggiare stipato per ore su un aereo o in un pulmino e alloggiare in un motel da due soldi. Questo mi viene in mente quando penso ad un tour. Mi è passata la voglia, e ci vorrà qualcosa di speciale per farmela tornare. Di molto speciale, per convincermi a ricominciare ad andare in giro. Probabilmente la volta con il Pat Metheny Group mi ha abituato troppo bene [ride]. Seriamente, non pretendo che sia una cosa così comoda, ma almeno che sia qualcosa per cui valga la pena andare.

AAJ: La tua situazione è tutto sommato invidiabile, avendo un posto di docente universitario in un corso di Jazz, ma cosa dici ai tuoi studenti, tenendo conto di quanto sia difficile riuscire ad esibirsi stabilmente come musicista Jazz?

C.V.: Credo che i giovani debbano capire quanto sia difficile guadagnarsi da vivere facendo quel che ci piace. Spesso neanche studiare moltissimo è garanzia di successo. Devono prepararsi a fare anche cose che non gli piacciono. Io sono un caso estremo: ci sono musicisti come Stomu o Ted che si esibiscono ben più di me, divertendosi o facendone una grande esperienza didattica, e sono felici di farlo. Al loro posto io mi romperei le scatole [ride] e nessuno mi vorrebbe più nel gruppo. I giovani possono seguire quell'esempio e racimolare un po' di soldi. Molti si dedicano all'insegnamento o ad altri mestieri per sbarcare il lunario, qualcuno dovrà forse fare il barista per un po.'

Fino a pochi mesi prima che Metheny mi chiedesse di unirmi alla sua band mi esibivo molto spesso. Conosco molti musicisti che devono esibirsi ogni giorno per andare avanti. Devono accettarlo. Ma per poter vivere della propria musica, senza compromessi, bisogna buttarsi a testa bassa e lavorare duramente. Per me non è accettabile dormire per terra o sorbirsi una giornata in treno cambiando sei coincidenze solo per esibirsi di fronte a trenta persone. Non riesco più a farlo. Ma loro sono giovani e non dovrebbero perdere alcuna occasione di esibirsi. Anche se vuol dire dormire per terra, saltare su un pulmino e viverci dentro... alla loro età possono permettersi di farlo e dovrebbero farlo.

Pat Metheny crede ancora che se lavori bene e fai dell'ottima musica tu debba saltare sul pulmino e farti milleduecento miglia per suonare per quattro gatti in un locale, poi farti le milleduecento miglia di ritorno e partire di nuovo per esibirti davanti ad altri quattro gatti: prima o poi avrai successo. Sto esagerando, ma solo per sottolineare quanto sia difficile, quanta passione, disciplina e sacrificio ci vogliano. Ma da giovani tutti questi sacrifici sembrano minuscoli e insignificanti. Questo voglio far capire ai miei studenti, voglio che capiscano a cosa vanno incontro. Se ci tengono davvero, possono riuscirci, a patto di impegnarsi al massimo. Chi sceglie di suonare, lo fa perché ha bisogno della musica come dell'aria che respira. Non lo fa per guadagnarsi da vivere. Questo deve essere assolutamente chiaro.

AAJ: E questo non vale solo per la musica; in qualunque campo non arrivi da nessuna parte se non ci metti l'anima, e a chiunque capita di dover fare cose che non piacciono.

C.V.: Esatto. Uno studente mi ha chiesto un colloquio per studiare insieme il suo percorso di studi e di carriera. Gli dissi, "Adesso pensa solo a migliorare come musicista. Al resto ci penserai dopo." E gli chiesi, "Quanto tempo ti eserciti ogni giorno?" e mi rispose un'ora [ride]. Lo guardavo e pensavo, "non hai speranze." Ancora oggi io mi esercito per quattro ore al giorno e tu, con una sola ora al giorno, speri di arrivare da qualche parte? Non esiste. Come potrai affrontare seriamente qualcosa se non riesci neanche a dedicare del tempo in qualcosa che si presume ti piaccia?

AAJ: Tornando alla tua musica; quest'anno hai pubblicato Leaps of Faith, probabilmente uno dei tuoi dischi migliori, nel quale fai qualcosa di abbastanza insolito per te, vale a dire inserisci quattro classici del Jazz - anche se reinterpretati a modo tuo - ma comunque classici; come mai hai deciso di cimentarti con dei classici, dopo quindici anni di produzione originale?

C.V.: In passato non volevo suonare i classici perché mi sembrava una cosa assolutamente posticcia. Mi sembrava di ripetere cose già fatte in un modo già sentito. Non c'era improvvisazione, a meno che non consideri improvvisazione l'unire i puntini. Si trattava semplicemente di mettere insieme cose imparate a memoria, cose che sapevo avrebbero funzionato, e quella presunta idea di onorare la "tradizione" mi sembrava in realtà avere poco a che fare con la tradizione, piuttosto si trattava di copiare e plagiare quel che altri avevano fatto. E per me suonava assolutamente falso. Preferivo trovare qualcosa di originale da offrire. Non completamente originale, perché nessuno può essere totalmente originale, ma almeno provare a trovare qualcosa che sarebbe stato diverso se suonato da un altro. Però dopo tutto questo tempo mi resi conto che l'approccio musicale al quale avevo lavorato così a lungo con la mia band aveva raggiunto un livello di maturità talmente solida e unica che potevamo permetterci di applicarlo ai classici mettendoci la nostra firma. E un'altra ragione per suonare i classici è legata all'aver ottenuto questo posto di docente, per cui mi sono detto, "Ehi, devo suonarli per essere sicuro di conoscerli e quindi poterli insegnare" [ride].

Quando ho suonato con Pat, per dargli il tempo e l'armonia che voleva lui ho dovuto basarmi pesantemente sulla tradizione. Ho usato dei classici del Jazz come modelli di lavoro perché sono un ottimo esempio di armonia, di melodia e di forma, e anche una buona base per lavorare sull'approccio e su dettagli specifici. E l'abilità necessaria per destreggiarsi in quelle cose ad alto livello richiede un processo davvero disciplinato. Quindi ho cominciato a riesaminarli e a mano a mano mi trovavo più a mio agio; a quel punto il mio modo di fare e la mia esperienza si sono fatti strada. Così decisi di provare con la band, per vedere come li avrebbero affrontati.

AAJ: Una delle cose che colpiscono di più della tua musica è l'idea di utilizzare i due bassisti, con Luke Bergman insieme a Stomu Takeishi; era un'idea che maturavi da tempo, o ti è venuta così all'improvviso e hai deciso che sarebbe stato interessante provare?

C.V.: L'idea di avere due bassi mi venne nel 1999 o nel 2000, poco dopo che Stomu cominciò a far parte dei miei gruppi, per via del suo modo di suonare. Lui copre un intervallo davvero ampio e volevo un altro bassista che lo supportasse dal basso per dargli modo di spaziare verso l'alto, in quel panorama sonoro che stavamo scoprendo insieme. Volevamo farlo da tempo, ma non riuscivamo a trovare nessuno in grado di inserirsi e suonare alla nostra maniera. Il fatto è che c'era chi avrebbe potuto farlo, ma i musicisti professionisti di solito non sopportano che gli si dica cosa fare e come farlo. Io e Stomu non siamo così, noi vogliamo imparare. Vogliamo che gli altri ci dicano come affrontare la loro musica in modo da sentirci liberi di fare altrettanto con loro e con la loro musica. Dato che Luke era uno dei miei studenti, ha accettato volentieri il mio modo di fare e ha cominciato a lavorare sul mio approccio concettuale. Così quando ho iniziato a suonare con lui e ho visto che eravamo in sintonia, ho voluto provare a farlo suonare anche con Stomu, ed è stato perfetto, perché capisce esattamente dove vogliamo parare.

AAJ: Si è inserito facilmente?

C.V.: C'è voluto un po' più di quel che pensassi. All'inizio Luke stava troppo attento a tentare di adattarsi piuttosto che suonare del suo, come avrei voluto. Quindi c'è voluto un po.' Anche per Stomu, dato che erano dieci anni che lavorava su quel tipo di approccio occupandosi di tutti gli aspetti da solo, lavorando sui ruoli di supporto propri del basso fornendo allo stesso tempo sia le trame sonore sia il contrappunto. Abbandonare all'improvviso una parte di quanto aveva ormai sviluppato in un tutt'uno omogeneo e integrato non è stato afatto semplice per lui. Aveva anche bisogno di tempo per metabolizzare il fatto che non stavo aggiungendo un elemento per coprire aspetti che lui non riusciva a gestire. Piuttosto gli stavo affiancando un supporto per dargli modo di esplorare quei territori che gli erano preclusi a causa dei molteplici compiti che aveva in carico. Quando lo capì e quando vide il modo di lavorare di Luke, tutto andò a posto e la cosa decollò.

AAJ: Il titolo dell'album, Leaps of Faith [Salto nel buio, N.d.T.] si riferisce chiaramente alla sfida che lanci agli ascoltatori, proponendo la tua reinterpretazione dei classici; ma allude anche alla sfida che affrontano Takeishi e forse anche Bergman nell'entrare a far parte di un sodalizio così consolidato, per di più guidato dal proprio insegnante, il che non deve essere affatto facile. Anche per te è stato un atto di fede, per certi versi?

C.V.: Assolutamente sì. Il titolo fa riferimento a diversi aspetti. Prima di tutto, al fatto che non sapevo a priori se un approccio del genere avrebbe funzionato o meno. Non sapevo se sarei stato capace di riproporre dei classici in un modo che i fan di quegli stessi classici avrebbero apprezzato. Quando ti cimenti con un classico, una parte del pubblico comincia a storcere il naso pensando alla tradizione: ho dovuto scrollarmi di dosso quella paura, credere in me stesso e andare avanti, perché se fossi stato coerente con me stesso ne sarebbe comunque valsa la pena, non sarebbe stata una bufala. Un altro problema era che non ero sicuro di riuscire a coniugare il suonare free con lo specifico contenuto armonico e le forme di quei classici, rischiando di rimanere invischiato in un modo di suonare canonico, regolamentato, che seguisse pedissequamente la tradizione. Non avevo certezze. Quindi ho dovuto ricorrere alla fede.

AAJ: Ti ha accarezzato l'idea di introdurre una chitarra al posto del secondo basso? Il risultato che hai ottenuto con Bill Frisell nel tuo It's Mostly Residual (Auand, 2006) è stato eccellente. Sei stato tentato di seguire nuovamente quella strada?

C.V.: In realtà no. Sono cresciuto con la musica rock, quindi la chitarra è un elemento familiare. Mi piace molto quel disco fatto con Frisell, anzi posso dire che sia il mio disco preferito. Bill è uno dei miei idoli e inserire quell'elemento con il quale sono cresciuto ha dato all'album un contributo incredibile. Ma penso che l'apporto di Stomu sia già sufficiente e la chitarra andrebbe in sovrapposizione con quello che fa lui. Adoro il contributo di Stomu, un chitarrista occuperebbe il suo spazio. La volta che Stomu non facesse parte della band, allora potrei fare un disco includendo un chitarrista.

AAJ: I critici citano spesso Miles Davis come fonte di ispirazione per il tuo sound, ma mi sembra che forse sia Frisell il tuo modello più importante, no?

C.V.: Sì, penso che Bill abbia influenzato il mio modo di suonare più di Miles. È strano perché se studi e suoni il Jazz non puoi sottrarti all'influenza di Miles. Ma credo che la gente dimostri pigrizia e scarsa immaginazione quando parla dell'influenza di Miles su di me. Chi non è stato influenzato da Miles? E collegarmi in modo più stretto a Miles solo perché anche io suono la tromba è assurdo: è come dire "guarda, questo cestista bianco gioca come Larry Bird." Comincio a suonare e qualcuno comincia "Ah, mi ricorda Miles Davis, Bitches Brew". L'ho ascoltata un paio di volte ma non mi prendeva. Il Miles Davis degli anni Sessanta? Va bene, ma non Bitches Brew. Il trombettista Clifford Brown mi ha influenzato molto di più, ma nessuno sembra essersene accorto. Insomma, è questione di pigrizia mentale, di guardare solo in superficie senza cogliere le relazioni profonde. La musica di Frisell ho cominciato ad ascoltarla al college. Era un sound così diverso, così prepotentemente nuovo. Mi colpì davvero. E consideravo i suoi lavori al pari delle grandi sinfonie di Beethoven o Stravinsky. La musica di Frisell è di quelle che di fa gridare "Oh mio Dio!" È una di quelle che ti vien voglia di ascoltare tutto il giorno, tutti i giorni. Insomma, un grande. Prima di lui, il mio idolo era Pat. Ascoltavo la sua musica continuamente.

AAJ: In Leaps of Faith possiamo riascoltare due tra i tuoi brani più vecchi, "I Shall Never Come Back" e "Child-Like (for Vina)"; era rimasto qualcosa in sospeso con questi due pezzi o semplicemente si sposavano bene con i concetti e il sound di Leaps of Faith?

C.V.: Volevo mostrare come quel materiale fosse cambiato ora che Ted [Poor] era nella band. Originariamente il batterista di quei pezzi era John Hollenbeck. Volevo che il pubblico cogliesse le grandi differenze e apprezzasse il modo di affrontarle di Ted. Quei brani fanno parte del primo disco in trio nel quale mi resi conto di entrare in territori che erano allo stesso tempo davvero nuovi per me ma anche fatti apposta per me. Uno spazio in cui stavo formando la mia personalità. E mi è sembrato giusto che quei brani facessero da contrappunto in un disco nel quale suonavo dei classici ma reinventati grazie a quello stesso approccio personale maturato nel tempo.

AAJ: Tornando a Speak, hai parlato di Luke: ci fai una carrellata degli altri membri della band?

C.V.: Innanzi tutto voglio che sia chiaro che ormai è tre anni che non sono più miei studenti. Sono musicisti formati, ognuno con una propria personalità. E sono dei grandi musicisti, che considero miei pari, anche se più giovani di me, ma non certo miei studenti. E quando abbiamo registrato il brano avevano terminato gli studi da due anni. Sono musicisti molto in gamba con i quali mi piace moltissimo suonare. Meritano di essere annoverati tra quelli che contribuiscono a mantenere vivo ed esplosivo il Jazz, lavorando sodo. Sono delle mosche bianche in questo e spero che abbiano il successo che meritano. Vorrei aver avuto la loro bravura quando avevo la loro età. Penso che se vivessero a New York lavorerebbero molto di più e farebbero parlare molto di sé.

AAJ: Sono stati fortunati ad avere un maestro come te, così come tu sei stato fortunato ad avere come insegnante Joe Maneri, grande sassofonista e clarinettista.

C.V.: Sicuramente.

AAJ: Speak è un album formidabile. Se uno ne ascoltasse un frammento a caso, potrebbe pensare che si tratti di un moderno piano trio, o una band di rock progressivo moderna, una band di rock alternativo, di Metal... insomma, l'album include un sacco di stili.

C.V.: Sì, questo è ciò che mi piace del disco, così come sono contento che i ragazzi siano riusciti a metterlo a fuoco e renderlo un insieme coerente.

AAJ: In effetti, queste composizioni hanno una forma e una struttura proprie e l'album nel suo insieme ha una sua coerenza nonostante la musica dei singoli brani sia così diversa. I brani sono stati tutti composti dai ragazzi. Che effetto ti fa l'essere, nei riguardi della composizione, un semplice spettatore?

C.V.: Innanzi tutto, si tratta della loro band. Non è la mia band. Ho sempre detto che sarei stato un ospite nel loro dischi e che non faccio parte della band, ma mi sa che parlando con i giornalisti hanno fatto un po' di confusione [ride]. Il mio compito è quello di far loro da guida, di "riportarli sulla retta via" quando necessario. Se sentissi che qualcosa non va come dovrebbe, li aiuterei a capire il problema e a risolverlo. Quindi nel disco ci sono momenti in cui effettivamente suono da leader, ma ho tentato di farlo il meno possibile per lasciarli liberi di fare la loro musica. Il disco è loro, io mi limito ad accompagnarli lungo il percorso.

AAJ: A proposito della Table and Chairs Music, l'etichetta che ha pubblicato Speak e che è punto di riferimento per molte altre band emergenti di Seattle. Ha una strategia di marketing piuttosto bizzarra, poiché permette di scaricare i brani a fronte di un'offerta libera. Credo che i Radiohead siano stati i primi a sperimentare questo approccio qualche anno fa, ma mi chiedo: funziona davvero?

C.V.: Beh, per ora è solo un esperimento, e le cose cambiano così velocemente. Non so dire se questo modello funzioni davvero o meno, ma so che chi non paga non avrebbe comunque pagato anche nel caso di un modello tradizionale. Chi paga un dollaro non lo avrebbe speso in condizioni normali e avrebbe probabilmente scaricato il brano illegalmente o lo avrebbe copiato da un amico. Ci sono poi le persone che pagano il giusto perché si rendono conto che così permettono agli artisti di finanziarsi e di proporre la loro arte. Magari prima o poi la gente capirà e questo modello decollerà. Ma per ora è tutto in divenire, molto incerto. È una nuova frontiera. Il vecchio modello non funziona più, sta crollando, e ci vuole una ventata di aria nuova. Di certo l'approccio tradizionale ha funzionato con It's Mostly Residual e Vu-Tet (ArtistShare, 2007). Ma in occasione di quest'ultimo disco ho notato un calo notevole nelle vendite del CD perché ormai la gente non è più abituata a comprare i dischi. E It's Mostly Residual risale a pochi anni fa, quindi questo calo repentino è allarmante. In soli cinque-sei anni, la gente si è abituata a scaricare la musica quando vuole e solo quella che vuole, gratis. Non stanno a sentire tutto il disco, magari ascoltano trenta secondi o solo dieci secondi di un pezzo, e se non gli piace saltano al brano successivo sul loro lettore MP3. Regna l'impazienza, si vuole arrivare al dunque senza gustare lo svolgersi del brano. Brani ridotti a suonerie, a frammenti d'informazione.

Insomma, è un periodo di grandi mutamenti e sono curioso di vedere come andrà a finire, come cambieranno gli artisti, ma a questo punto mi sembra che per noi si stia mettendo male. Non la vedo bene per noi artisti. Non so come ne usciremo, ma spero che tutto si risolva per il meglio. Credo che la gente vorrà ascoltare più musica dal vivo.

AAJ: Penso che tu abbia centrato il punto. Primo, non trascurare il lavoro quotidiano, come hai detto prima, e secondo, cercare di esibirsi sempre più dal vivo, incoraggiando il pubblico ad assistere a quello che, dopo tutto, è il miglior modo di ascoltare la musica.

C.V.: Esatto. Forse in passato i dischi hanno quasi ucciso la musica dal vivo, ma ora che la musica registrata è praticamente gratis è possibile che la musica dal vivo torni in auge, e potremo guadagnarci da vivere. E se fare dischi non sarà più economicamente conveniente perché tanto la gente non li comprerebbe, perché continuare a farli? Smettiamola di fare dischi ed esibiamoci soltanto dal vivo. Così la gente sarebbe obbligata a pagare per poter sentire cosa c'è di nuovo. E i musicisti dovrebbero essere davvero in gamba, perché non ci sarebbero più le magie della post-produzione per farli sembrare meglio di quel che sono in realtà. Sarebbe molto meglio. Preferirei esibirmi dal vivo piuttosto che rinchiudermi in uno studio a registrare. O meglio, mi piacerebbe riuscire a fare entrambe le cose guadagnandomi da vivere grazie ad entrambe.

Il fatto di registrare mi fa sentire come se fossi in un laboratorio nel quale si deve analizzare al microscopio qualsiasi cosa e dove il risultato dipende da una serie di scelte attentamente ponderate. È un'istantanea dell'intero processo musicale di una vita, ma è anche l'inizio di un processo nel quale raffinare il concetto su cui si lavora. Il passo successivo nello sviluppo sia della musica sia di me stesso come musicista - e che è infinitamente più divertente e appagante - è rappresentato dall'esibizione dal vivo, nell'ambito di un tour che ti porta a suonare giorno dopo giorno. I concerti dal vivo sono come una droga. Sono il nutrimento musicale dell'artista. E qualunque sacrificio comportino, ne vale la pena. Sono la risposta al perché io mi ostini a suonare dato che, apparentemente, ne ricavo così poco. Sai, se mi mettessi d'impegno e mi dedicassi a qualcosa di più commerciale, potrei diventare vergognosamente ricco. Ma l'esibizione deve essere il momento nel quale il duro lavoro, l'autocritica, le interminabili ore passate ad esercitarsi e a sperimentare si sublimano nella rappresentazione agli altri della tua visione della vita attraverso la musica, che è unica e irripetibile. E la loro reazione, che otterrai solo coinvolgendoli, è la testimonianza della tua esistenza come essere umano. La prova che è possibile entrare profondamente in sintonia con gli altri in un modo che ti dimostra che gli altri - magari dei perfetti sconosciuti - ti capiscono. Una cosa così semplice ma così grande!

Discografia Selezionata

Agogic, Agogic (Table and Chairs Music, 2011)

Cuong Vu 4-Tet, Leaps of Faith (Origin Records, 2011)

Speak, Speak (Speaking Volumes, 2010)

Myra Melford's Be Bread, The Whole Tree Gone (Firehouse 12 Records, 2010)

Wasabi, Closer (Via Veneto Jazz, 2010)

Mickey Finn + Cuong Vu, Gagarin (El Gallo Rojo, 2009)

Cuong Vu, Vu-Tet (ArtistShare, 2008)

Coung Vu, It's Mostly Residual (Auand, 2006)

Pat Metheny Group, The Way Up (Nonesuch Records, 2005)

Chris Speed's Yeah NO, Swell Henry (Squealer, 2004)

Pat Metheny Group, Speaking of Now (Warner Bros, 2002)

Laurie Anderson, Life on a String (Nonesuch Records, 2001)

Cuong Vu, Come Play With Me (Knitting Factory, 2001)

Cuong Vu, Bound (Omnitone, 2000)

Cuong Vu, Pure (Knitting Factory, 2000)

Chris Speed, Emit (Songlines recordings, 2000)

Assif Tsahar & The Brass Reeds Ensemble, The Hollow World (Hopskotch, 1999)

Dave Douglas, Sanctuary (Avant, 1997)

Saft/Vu, Ragged Jack (Avant, 1996)

Orange Then Blue, While You Were Out (GM recordings, 1993)

Per le foto di Cuong Vu: Claudio Casanova. Altre foto: Daniel Sheehan (Speak), Andy Oakley (Cafe Racer).

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