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A lezione da Jöelle Léandre: diario di un enigma

A lezione da Jöelle Léandre: diario di un enigma

Courtesy Giampaolo Beccherini

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Classe 1951, prossima a festeggiare il mezzo secolo di carriera, la contrabbassista francese Joëlle Léandre è considerata una delle maggiori interpreti mondiali dell'improvvisazione libera, o non idiomatica, ambito nel quale opera fin dalla sua uscita dal conservatorio. Solita affiancare l'attività concertistica a quella didattica, ha volentieri accolto l'invito rivoltole da Toscana Produzione Musica e da Silvia Bolognesi —che la ritiene un modello sia artistico, sia umano —di svolgere un workshop seminariale di quattro giorni presso il P.A.R.C.—Performing Art Research Center di Firenze, lo scorso aprile.

Il workshop ha visto la partecipazione di tredici musicisti di assai diverse estrazione artistica, età ed esperienza, selezionati dalla stessa Léandre, e si è concluso con un concerto aperto al pubblico che li vedeva in scena divisi in piccoli gruppi, stabiliti sempre dalla Léandre e comunicati solo poche ore prima.

I lavori, molto intensi, si sono svolti per tre giorni e mezzo, suddivisi in sessioni di tre ore, al mattino dalle 10 alle 13 e al pomeriggio dalle 15 alle 18. A prendervi parte erano: Filippo Abrate, percussionista jazz; Monica Agosti, cantante jazz; Dagmar Bathmann, violoncellista e vocalist di area contemporanea; Omar Cecchi, vibrafonista di area contemporanea; Federico Giolito, contrabbassista jazz; Francesco Giomi, musicista elettroacustico e direttore di Tempo Reale; Marco Iacoboni, trombettista jazz; Andrea Mancini, sassofonista soprano di area improvvisativa/contemporanea; Susanna Ossola, cantante jazz; Tito Mangialajo Rantzer, contrabbassista jazz; Milena Punzi, violoncellista classica e contemporanea; Matteo Rossi, pianista jazz; infine il sottoscritto al sax soprano. Ovviamente le indicazioni per ciascuno dei partecipanti sono riduttive e di massima, trattandosi di musicisti curiosi, già con esperienze di ambito improvvisativo non idiomatico e con interessi in ogni settore musicale.

La presenza di tale varietà umana e artistica ha magari rallentato e reso circospetto l'inizio dei lavori —c'era qualche timidezza e un po' tutti, inclusi forse anche i più affermati e titolati dei partecipanti, cercavano di capire se non essere in qualche modo fuori contesto —ma si è rapidamente dimostrata una straordinaria ricchezza, a maggior ragione per il modo particolarissimo di lavorare della Léandre. L'artista francese, estremamente carismatica, ha infatti perso poco tempo in spiegazioni, chiarimenti o indicazioni tecniche, e ha rapidamente trasformato la presentazione di sé stessa in vero e proprio lavoro didattico: il racconto delle sue esperienze, la comunicazione, verbale ed emotiva, delle personali ragioni per le proprie scelte artistiche e delle sensazioni vissute sui palcoscenici, con gli artisti a lei più affini, nei viaggi e nelle avventure dei suoi cinquant'anni "sulla strada," hanno infatti fatto parte dell'"insegnamento" che la Léandre ha cercato di trasmettere ai partecipanti al seminario.

La modalità di lavoro prevedeva prove su prove: i partecipanti venivano selezionati e fatti improvvisare a gruppetti —prevalentemente trii e quartetti, qualche duo e alcuni sestetti e settetti —, inizialmente senza particolari indicazioni, né tecniche, né estetiche. Dopo un primo set la Léandre commentava, formalmente in inglese, di fatto in una lingua che pian piano tutti hanno imparato a comprendere e che alternava l'inglese al francese, con qualche citazione in italiano, ma comunque talmente mimica e ed emotivamente partecipata da risultare tangibilmente informativa.

I suoi commenti erano spesso —anzi molto spesso —critici, espressi con decisione e perfino parole forti o colorate: quanto eseguito veniva non solo giudicato inadeguato per i più diversi motivi, ma frequentemente definito con termini quali mort totale, mort absolue, perfino merde, e gli esecutori, accusati di non tener conto del corpo e del loro essere su un palcoscenico, denominati "statue" o "colonne romane." Il tutto con un tono di voce alto e un fare burbero, che tuttavia veniva ben presto travolto dall'ironia, quando non addirittura da bruschi cambiamenti di scena, dettati ora dalla seria e argomentata spiegazione di cotanto giudizio, ora dal ripristino dell'assunto estetico e valoriale principale, esposto fin dal primo momento e mai smesso, nei quattro giorni, di richiamare: che la musica improvvisata è essenzialmente libertà e che perciò chi è sul palco a darle vita si prende la responsabilità delle proprie scelte e ha il diritto di fare qualsiasi cosa.

Questo apparente paradosso, come sarà chiaro a chiunque la frequenta, è anche quello sul quale sta in equilibrio tutta la musica improvvisata e che studia chi —come il filosofo Alessandro Bertinetto e un po' anche il sottoscritto —cerca di sciogliere l'enigma di come si possa definire "riuscita" una performance che, essendo libera, non può avere un metro di misurazione predefinito.

Ma proprio su tale paradosso la concreta e vitalissima lezione data dalla Léandre a chi ha preso parte al suo workshop ha offerto, se non delle "risposte," quantomeno elementi per poter essere vissuto in modo virtuoso. La contrabbassista, infatti, ha per tutta la durata del suo lavoro didattico continuato a mostrare e provato a trasmettere ragioni e motivazioni atte a comprendere il senso che lei stessa dà all'improvvisazione: un senso che ha le sue fondamenta nell'approccio che il musicista ha rispetto a tutto ciò con cui interagisce nel momento in cui improvvisa —dallo strumento al pubblico, dal proprio corpo alla società in cui vive, dal palcoscenico ai suoi compagni —e che deve (e non può non) avere un corrispettivo sul suo modo di essere presente in quel luogo e di esercitare la propria attività artistica in quel momento. Un approccio, come abbiamo visto, essenzialmente libero, ma proprio per questo anche responsabile, perché una libertà che non tenga conto del rapporto —e quindi del legame —che le proprie azioni hanno con ciò che ci circonda non è libertà, ma dissennatezza. Un approccio che è perciò politico —come la Léandre non ha mai smesso di ripetere —non già per i contenuti musicali che veicola (se l'improvvisazione libera è non idiomatica e se, alla fin fine, tutta la musica è priva di semantica, come possono i suoi "contenuti" comunicare qualcosa di politico?), bensì per l'impegno e la cura che il performer mette nella creazione di qualcosa di responsabilmente appropriato alla situazione che sta vivendo, quindi di proprio—nella misura in cui è lui stesso a offrirlo, senza emulare qualcuno o prelevarlo da una qualche tradizione —e di vivo —nella misura in cui sorge spontaneamente in lui in quel momento di vita che è l'atto improvvisativo che sta facendo, su quel palco, in quel luogo, assieme a quei musicisti, di fronte a quel pubblico.

Quanto scritto —che, nella forma linguistica in cui è espresso è frutto di chi scrive, non della Léandre —potrà forse sembrare vago e ambiguo, e in parte certo lo è, né può non esserlo. Ma lo è, credo, meno di quanto possa apparire, come forse potrà spiegare una sua contestualizzazione nell'esperienza vissuta durante il seminario.

Dopo un set in quartetto che, a parere di chi scrive, era venuto piuttosto bene, l'artista francese si è presa una breve pausa di riflessione ed è poi esplosa in un fragoroso commento: «Ma cos'è questo? Come vi è venuto in mente di fare questa musica? Sembra Stockhausen! È cerebrale! Manca la vita! A che serve improvvisare, se poi ne vien fuori qualcosa che sembra scritto?!?».

Il giudizio critico, quindi, non era sul "bello" e sul "brutto" —che, come sappiamo, sono oltremodo soggettivi, né del resto il paragone con Stockhausen può essere considerato una valutazione negativa —, bensì sul senso contestuale della musica rispetto a quanto stava cercando di trasmetterci: quando s'improvvisa non si deve cercare di fare qualcosa di "bello" —il che implica un modello pensato in anticipo e poi applicato artatamente a quel contesto, cosa che si può fare, forse persino meglio, componendo un testo scritto —bensì provare a fare qualcosa che nasca e viva nel corso dell'atto creativo istantaneo —cosa invece possibile solo grazie all'improvvisazione. Questa differenza, spesso ritenuta teorica, fumosa e impalpabile, all'ascolto invece si sente, e infatti lei l'aveva ben percepita. La dimostrazione la si è avuta nel corso del dibattito che è seguito, quando dalle sue domande ai musicisti è emerso chiaramente che la performance era stata profondamente influenzata da un'idea musicale ben precisa che uno degli artisti coinvolti aveva pensato fin dall'inizio e tenuta costante per tutta la durata della musica. Il risultato non era stato "brutto," ma aveva prodotto qualcosa che mancava di quanto ne sarebbe dovuto scaturire se l'approccio fosse stato quello richiesto. Bello o brutto che fosse, il set aveva sprecato l'occasione improvvisativa, togliendo vitalità alla performance —almeno secondo il senso che la Léandre cercava di insegnarci a dare ad essa.

Analogo il senso di altre critiche mosse ai musicisti durante i giorni di lavoro: quando in un duetto di sassofoni uno (nella fattispecie il sottoscritto...) ha suonato sconsideratamente forte, soffocando il compagno, la Léandre ha tuonato: «Ooooh!!! Cos'è mai questo "PEEEE!?" Quanto inutile machismo muscolare! Non siamo su un ring!». Per poi però rivolgersi all'altro dicendo: «E tu? Bravo, certo, un gran controllo del suono. Ma che lo fai a fare, se accanto hai uno che urla in quel modo? Fossi stato presente alla situazione, non avresti mostrato le tue capacità tecniche, avresti cercato il modo di adeguarti!». E ancora, durante un set timido e fin troppo rispettoso dei suoni reciproci, ha bloccato tutti i musicisti con ironica malagrazia, accusandoli di essere lì solo con la testa e non con il corpo, li ha fatti scendere dal palco e uscire dalla porta della sala, facendoli poi rientrare mentre tutti gli altri applaudivano l'ingresso, per vedere «se il calore del pubblico riesce a risvegliarvi i sensi!». Risultato: tutt'altro set...

In mezzo a tutto questo —ovviamente riportiamo solo pochissimi esempi di un'esperienza davvero molto intensa —le indicazioni "tecniche" erano ridotte all'osso: cura della dinamica, ovvi richiami alla necessità di padroneggiare quanto meglio possibile strumenti e conoscenza della musica, attenzione da porre al contesto tonale nell'offrire contributi tematici —considerati una ricchezza da non trascurare, un po' a sorpresa per un'artista che comunque si muove nel contesto non idiomatico —e poco di più, perché l'essenziale, come detto, è—e resta sempre—la libertà, grazie alla quale si può essere opportuni, responsabili e vivi anche con poche capacità tecniche.

Il concerto finale, venerdì 25 aprile alle 19,00, si è articolato su otto set, la metà in trio, due in duo, un quartetto e un settetto, in modo da permettere a ogni partecipante di salire sul palco due volte con formazioni diverse. Chi scrive non può darne valutazione perché, essendone stato parte, è troppo coinvolto. Il pubblico è però sembrato apprezzare e la Léandre, sempre così critica, si è detta soddisfatta degli esiti. Se anche solo una minima parte di quanto aveva riversato sui partecipanti nelle tante ore trascorse assieme avesse trovato spazio in loro, il concerto avrebbe dovuto essere splendido.

Per concludere, quello di Jöelle Léandre è stato un seminario che potremmo definire di estetica pratica dell'improvvisazione, a forte intensità emotiva, condotto con una comunicativa analoga, anzi potremmo dire omologa, a quella che la contrabbassista mette nelle sue performance artistiche: potenza espressiva, entusiasmo, continui cambi di scena, autorevolezza giustificata dall'esperienza, apertura e rispetto anche nei momenti di critica e dissenso, grande amore per la musica, presenza sul palco come nel mondo. Un seminario pieno di vita, di libertà e di responsabilità come la musica che l'artista cercava di insegnare a suonare. Un'esperienza forte per tutti coloro che l'hanno condivisa e che, infatti, si sono alla fine lasciati come amici da una vita, confidando di ritrovarsi e continuare. Di alcuni di loro, in conclusione, vogliamo lasciare le impressioni.

Filippo Abrate Personalmente ho trovato questo laboratorio particolarmente istruttivo per la serietà e dedizione con la quale Joëlle si dedica all'insegnamento della prassi improvvisativa. Il suo metodo è fondato sulla pratica e pone la massima attenzione sulla funzionalità e la forza dell'intervento musicale. Joëlle ha dedicato massima attenzione e ascolto a tutti i musicisti, commentando le loro performances e dando importanti stimoli. La sua preziosa esperienza personale, fondata su una carriera che dura da cinquant'anni, ha permesso ai partecipanti di confrontarsi con ancora più profondità e coscienza sul significato dell'essere improvvisatore.

Monica "Nica" Agosti Quello che colpisce è la caratura della persona, lo spessore dell'artista, che non abdica alla difficoltà di trasmettere una prassi in itinere a chiunque ne sia interessato, anzi con occhi curiosi e fiammanti ci investe con tutto il suo portato storico: la Léandre. Un raro concentrato di libertà, dedizione, ruvidezza, esperienza ed energia al servizio di questa musica, di questo serissimo gioco che è l'arte di improvvisare, l'arte di essere un tutt'uno con il momento presente e con tutta la storia passata, nella sfida perpetua di sentire piena responsabilità di chi può anche cambiare la vita a qualcuno/a che ascolta. Spero di conservare sempre, e di riuscire a trasmettere a mia volta, la preziosità di questo spirito nel donare all'altro la bellezza che abbiamo ricevuto. Grazie Joëlle.

Francesco Giomi La forza delle scelte. Partecipare a un laboratorio di improvvisazione con Joëlle Léandre è stato entrare in una zona di verità sonora, dove ogni gesto è chiamato a farsi ascolto e ogni suono è relazione con l'altro. Léandre non trasmette nel senso tradizionale: con i suoi modi e le sue idee apre e spalanca. Spalanca visioni, consapevolezze, urgenze. Tra le parole che hanno attraversato quei giorni, tre mi restano particolarmente impresse: ripetizione, selezione, memoria. La ripetizione non come esercizio meccanico, ma come affermazione, come azione identitaria: ribadire un suono per renderlo necessario, trasformarlo in presenza. La selezione come gesto radicale di libertà totale: togliere, decidere, scegliere cosa lasciare nel tempo e nello spazio dell'improvvisazione, nel dialogo con gli altri. E la memoria, non come archivio, ma come strato vivo, pronto a risuonare nel presente; memoria del corpo, dell'ascolto, della musica già suonata e di quella che ancora non è. Con Léandre ogni errore diventa materiale, ogni esitazione può diventare forza. La sua energia trascina e interroga, senza compromessi. È un'esperienza che rimane, che continua a lavorare dentro, anche nel silenzio. Pur avendo un lungo trascorso come performer e come docente, questo laboratorio ha rappresentato per me un momento di confronto profondo e rigenerante, è stato anche una preziosa piattaforma di riflessione sulle mie pratiche pedagogiche, offrendo nuovi strumenti e prospettive per lavorare con i giovani performer che seguo al Conservatorio di Bologna.

Marco Iacoboni Il giorno in cui ho suonato in duo con Jöelle Leandre. Era l'ultimo giorno, quello prima del concerto. Arrivavo sempre molto stanco alle giornate di lavoro, un po' per il viaggio, un po' per il livello di attenzione e concentrazione durante il workshop, sempre molto alto. Jöelle non si risparmia mai, è sempre "sul pezzo," nota dopo nota. Il livello del gruppo è stato molto alto, per cui si lavorava sulle sfumature. I primi giorni sono stati soddisfacenti, anche con complimenti sulle mini-performance che ero stato chiamato a fare, come per tutti in modo estemporaneo e senza preavviso. Poi sono stato chiamato per un solo di tromba. non è andata molto bene, ero stanco e svuotato e Jöelle mi ha "demolito." L'ultimo giorno però, quando mi ha chiamato per l'ultima performance e mi ha chiesto "con chi vuoi suonare?," io ho risposto "con te." Mi ha guardato, è salita sul palco, ha imbracciato il contrabbasso e abbiamo iniziato. La tensione e l'imbarazzo per la richiesta che consideravo provocatoria si è sciolta immediatamente nella tensione dell'ascolto e nell'atto musicale. Ha cambiato tre volte impostazione, ha pizzicato le corde, poi ha usato l'archetto, e per tre volte l'ho seguita in quelle variazioni timbriche utilizzando le sordine, dal plunger alla mute. Ne è uscita fuori una mini-suite in tre movimenti. Chi era presente ha apprezzato. Al margine della performance mi ha confidato la sua difficoltà a suonare in acustico con un fiato senza l'ausilio di un pickup che potesse amplificare meglio le sfumature. Io ero riuscito finalmente a fare ciò che continuava a chiederci: "Play your shit!." L'ho fatto con intenzione, tirando fuori ciò che avevo dentro in relazione all'ambiente, al gesto e al momento musicale. Ed è stato bello tuffarsi nel vuoto. È stato come rinascere.

Andrea Mancini Ho letto varie interviste di Jöelle prima di partecipare al workshop, proprio per conoscerla meglio, oltre aver ascoltato tanta della sua musica poderosa. Una frase detta da lei durante un'intervista mi ha colpito molto "I'm a worker." Questa affermazione per me racchiude tutto il senso della sua instancabile ricerca di musica e libertà di espressione. Jöelle è palco, sudore, viaggi in treno, letti scomodi, ore e ore sull'amato contrabbasso, studiando, approfondendo, aprendo nuove strade per tutti, tutto questo seguendo un ideale musicale autentico, sincero, senza compromessi. Avendo l'opportunità di conoscerla emerge tutta la sua passione e il suo impegno quotidiano per la musica; è stato un enorme piacere ricevere la sua concretezza: appunto come lei dice, "sono una lavoratrice," non "sono un'artista," "un'intellettuale" o "una visionaria..." È incollata per terra credendo fermamente in quello che fa, proprio per questo l'abbiamo amata profondamente. Davvero un'esperienza ricca di contenuto e umanità, con un gruppo di lavoro straordinario: sono stati giorni proficui e per certi versi indimenticabili. Grazie di tutto Jöelle.

Susanna Ossola Dal suono che scaturisce da un qualsiasi strumento si può riconoscere personalità, stato d'animo, livello di competenza e conoscenza di chi ha permesso l'emissione di quel suono. Al mio secondo workshop con Joëlle Léandre ho avuto conferma che pochi come lei sanno riconoscere gli aspetti sopracitati e intervenire per risolvere problemi, spesso di natura psicologica più che tecnica. Inoltre Joëlle sa anche gratificare gli sforzi fatti per seguire i suoi consigli, il che aiuta e sprona a immergersi sempre più nel percorso di apprendimento. Il tutto condito con una sana ironia, che rende il lavoro decisamente più leggero e interessante! Un'esperienza davvero molto molto costruttiva, musicalmente ed umanamente parlando.

Milena Punzi Intensità è sicuramente la parola che userei per parlare di Jöelle. Lei sente con tutto il suo corpo, tutta la sua mente e il suo cuore: è presente, vitale ed esplosiva! Mi ha spinta a sentire diversamente la mia presenza nel mondo come individuo: più volte ci ha chiesto di manifestarci completi e con presenza, mentre la mente affollata può facilmente limitare la creazione e il flusso creativo; ma soprattutto ci ha chiesto accettazione, cioè di apprezzare tutto quello che esce attraverso l'improvvisazione, perché tutto fa parte di noi e questo è il modo per essere veramente presenti.

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