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Intervista a Omar Sosa - Ricordare "Kind of Blue" è un tributo agli antenati

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Omar Sosa è l'espressione più avanzata delle capacità di rinnovamento della musica latina. La sua arte abbraccia una prospettiva quanto mai ampia, che unisce le tradizionali forme caraibiche con le molteplici espressioni della diaspora africana nel Nuovo Mondo. In combinazioni ogni volta sorprendenti troviamo forme colte e popolari, folkloriche e metropolitane, appartenenti a tradizioni lontane o legate alla contemporaneità: il jazz passato e presente può convivere con l'hip-hop e il folklore ecuadoriano con la trance music dell'etnia Gnawa.

Il suo ultimo disco Eggun, rielabora un progetto presentato al Barcelona Jazz Festival 2009, per celebrare i cinquant'anni di Kind of Blue, che Omar Sosa presenterà - a capo del suo Afri-Lectric Experience - anche in Italia il 13, 14 e 15 maggio prossimo (rispettivamente a Roma, Pordenone e Casalmaggiore).

All About Jazz: Quattro anni fa, il direttore del festival di Barcellona, Joan Cararach, ti ha proposto di realizzare un tributo a Kind of Blue di Miles Davis, tributo che ora troviamo nel nuovo disco Eggun. Qual'è stata la tua prima reazione a quel suggerimento?

Omar Sosa: La mia prima reazione è stata No! Gli ho detto che era troppo chiedermi questo, non potevo assumermi una responsabilità così elevata e non volevo diventare il bersaglio di ogni critico esistente al mondo. Kind of Blue è perfetto così com'è e non sentivo affatto l'esigenza di rivisitarlo da una prospettiva latina. Però in un certo senso la cosa m'incuriosiva e ho risposto: "Dammi un po' di tempo per pensarci, ti ringrazio per l'invito ma non sono in grado di dire niente ora". Ci ho messo sei mesi a valutare quel progetto. Ho letto due volte il libro di Ashley Kahn dedicato a Kind of Blue, ho riascoltato il disco milioni di volte, ho analizzato Bitches Brew, Tutu, Amandla e le classiche incisioni di Miles, ho visto i video dei suoi concerti e letto molte sue interviste.

In una di queste Davis sottolineava l'importanza di essere se stessi e queste parole hanno dato la svolta. Mi sono detto - posso farcela, posso restare me stesso anche nel tributo a Miles Davis.

AAJ: Concretamente cosa hai risposto a Joan Cararach?

O.S.: Gli ho detto: Accetto la proposta ma non suonerò alcun brano del disco. Joan mi ha lasciato libero e mi ha chiesto solo di citare nel concerto le prime battute di "So What". Nel disco questo non c'è perchè ho preferito prendere quattro note da un assolo di Miles, quattro da uno di Adderley, di Coltrane o di Evans ed ho creato su quelle note, nuovi temi. Questo mi è costato un lavoro lunghissimo, che consisteva nel trascrivere i solo, scegliere le parti per me significative, anche estratti della linea di basso. Tutto finchè non trovavo la giusta ispirazione.

I brani sono collegati da interludios, dove il lavoro è stato più semplice. È consistito nel prendere gli interventi di Bill Evans in "Blue In Green" e trascriverli per i fiati nel rispetto del modo con cui il pianista ha scritto gli arrangiamenti del disco. Da questo punto di vista mi sono posto nella prospettiva occidentale, quella della musica classica da camera.

C'è però un'altra prospettiva, incarnata dai tamburi batà della tradizione afrocubana. Questi sono gli strumenti sacri della Santería e ogni singolo interludio ha un senso in questa prospettiva: ogni tamburo batà rappresenta un Orisha con cui simbolicamente entriamo in contatto.

AAJ: È questo il significato del titolo?

O.S.: La parola Eggun significa antenati, coloro che sono già vissuti. Antenati che noi invochiamo nell'ultimo brano "Calling Eggun". Nel significato del disco gli antenati sono Bill Evans, Miles Davis, John Coltrane, Cannonball Adderley ma anche Joe Zawinul, Jaco Pastorius, Don Cherry, Pancho Quinto, Andrew Hill, Monk eccetera. All'inizio del lavoro mi sono detto, io sono un santero, sono una persona religiosa, quindi la cosa migliore che posso fare è tributare omaggio alla mia tradizione. Il titolo si riferisce a tutti i grandi che ci hanno preceduto. Come vedi l'omaggio a Kind of Blue è particolare, ma chi conosce quel disco può sentire, in modo subliminale, il riferimento a quella musica in ogni traccia.

AAJ: Dal concerto dato a Bercellona all'incisione in studio, ci sono stati cambiamenti nel progetto?

O.S.: Un po' si. La musica dal vivo a Barcellona era più jazzistica mentre il disco è più legato alla tradizione africana. A Barcellona la presenza di Jerry Gonzalez è stata determinante ma nel disco ho preferito dare un taglio diverso, introducendo i tamburi batà, i ritmi abakuá dalla pulsazione più lenta, e chitarristi come Lionel Loueke e Marvin Sewell.

Lionel è uno dei massimi specialisti di chitarra africana al mondo e svolge una sua propria connessione col jazz. Marvin viene da Chicago ma è profondamente legato al blues di New Orleans.

AAJ: In che posizione ti collochi rispetto alla tradizione del piano jazz?

O.S.: Io non ho mai studiato seriamente il pianoforte e ho molti limiti tecnici perchè sono principalmente un percussionista. Questo mi ha costretto a trovare uno stile personale che è poi essenzialmente percussivo ed il mio modo di armonizzare è vicino alla scuola di McCoy Tyner. Ogni cosa che suono ha una base percussiva ed è questo il mio dono. Il lavoro su questo progetto mi ha fatto invece scoprire la grandezza complessiva di Bill Evans. Credo che ogni singolo pianista jazz dopo Bill Evans abbia preso qualcosa da lui. Bill Evans ha improntato il modo di suonare il piano nel jazz contemporaneo e per quanto riguarda Kind of Blue è stato il vero artefice. Miles era il leader della band ma il ruolo chiave del disco l'ha svolto Evans.

AAJ: E per quanto riguarda Monk?

O.S.: Monk resta sempre il mio eroe. Lo è stato dall'inizio, dal primo momento in cui l'ho ascoltato. Bill Evans è in qualche modo imitabile, perchè il suo è un approccio fondamentalmente classico ma Monk no, è unico. Lui è stato il Picasso della musica. Una cosa straordinaria in Monk, che mi ha sempre colpito, è il modo con cui approcciava il silenzio.

AAJ: Quando ti è nata l'idea di creare una musica basate sulle varie tradizioni nate dalla diaspora africana?

O.S.: Questa domanda mi fa ricordare il giorno in cui sono stato introdotto nel mio culto religioso, la Santeria. Ho partecipato alla cerimonia ed ero steso sul pavimento. Il mio padre spirituale, che mi iniziava alla religione, mi ha detto: Omar, oggi inizi una nuova vita. Hai il compito di conservare la nostra tradizione africana e tenerla viva in te fino alla morte.

Pochi mesi dopo ebbi modo di ascoltare in una cerimonia i tamburi batà, strumenti che consentono di comunicare con gli Orishas. Ho avuto una sensazione così profonda che mi ha segnato per tutta la vita.

AAJ: Quanti anni avevi?

O.S.: Circa 17 anni e quei momenti non li ho più dimenticati. Prima di allora conoscevo un po' la tradizione africana, perchè è presente nella cultura cubana, ma non avevo modo di andare a fondo. Ma ora se ascolti qualunque mio disco, anche quelli in solo, tu puoi sentire la mia connessione con l'Africa. È una connessione spirituale e non c'è niente che possa fare, accade.

AAJ: Tu hai suonato varie volte in Africa. Che risposta c'è alla tua musica?

O.S.: Il modo con cui reagiscono alla musica è più immediato rispetto a quanto fa il pubblico occidentale. Il pubblico africano reagisce maggiormente al ritmo, al groove.

Gli africani sentono il ritmo, sentono l'energia della musica e questo è anche un modo per comunicare con gli antenati. Tu dai agli altri in base alle indicazioni degli antenati ed è ciò che faccio in ogni secondo della mia vita, specialmente quando suono.

Nei concerti arrivo vicino alla trance e mi accade di non sentire dolore quando suono il pianoforte in modo percussivo. Questo perchè nella trance tu non percepisci molto del corpo fisico e se ti fai male te ne accorgi solo dopo. Mi è successo proprio ieri, quando ho visto che c'era del sangue sulla tastiera e avevo un dito che sanguinava. Guarda... (avvicina il dito alla webcam)

AAJ: Tu hai inciso più di venti dischi in 15 anni. Quali sono i tuoi preferiti?

O.S.: Mi piace molto Sentir, il primo esperimento che ho condotto unendo l'hip-hop con elementi della musica Gnawa del Marocco, di quella afro-cubana e afro-venezuelana.

Mi piace Prietos, dove sono presenti ancora questi aspetti ma è realmente un disco da ballare. Talvolta lo riascolto e mi chiedo come ho fatto a mettere insieme tutti quegli elementi... Trovo ancora interessante Free Roots, il mio secondo disco e la prima opportunità di registrare con un ensemble in uno studio di registrazione. E apprezzo molto anche Eggun.

AAJ: Vedo che la collaborazione con Paolo Fresu continua con successo. Dopo Alma, possiamo attenderci un nuovo disco?

O.S.: Si, ne abbiamo parlato ed è molto probabile. Pensiamo di coinvolgere maggiormente Jacques Morelenbaum, che in quel disco è presente solo in tre brani. Abbiamo appena terminato un piccolo tour negli Stati Uniti, con tappe a Washington, Boston e a New York, dove il Blue Note era al completo tutte le sere. È stato un grande successo sia di critica che di pubblico, con quest'ultimo che appariva sorpreso. Talvolta gli americani pensano di essere l'unico Paese esistente sulla terra, una sorta di ombelico del mondo: il pubblico non si aspettava che un duo potesse esprimersi con una conversazione musicale interattiva, capace di legare la dimensione contemplativa con l'elettronica.

Rispetto al disco il nostro dialogo è più libero mentre forse si aspettavano una serie di assoli in sequenza.

AAJ: Il tuo nuovo gruppo, Afri-Lectric Band, è una formazione quanto mai multietnica. È una scelta precisa?

O.S.: Si, assolutamente. Leandro Saint-Hill è cubano, Joo Kraus viene dalla Germania, Peter Apfelbaum dagli Stati Uniti, Lionel Loueke è nato nel Benin, Childo Tomas nel Mozambico, Marvin Sewell è afroamericano eccetera. Per me è importante mettere assieme musicisti da ogni parte del mondo perchè è fondamentale condividere concezioni diverse: il lavoro collettivo è più intenso e, con approcci culturali così diversi, tutti impariamo cose nuove in continuazione.

Foto di Danilo Codazzi (la prima e la quarta), Luca D'Agostino (la seconda) e Paolo Soriani (l'ultima).

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