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Gianni Mimmo, un "monaco" al sax soprano

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Quando suono io non voglio “stare bene”, non mi interessa; voglio andare più a fondo, e questa ricerca coincide con una sorta di “scomodità”...
Gianni Mimmo è stata un po’ la sorpresa dello scorso anno, quando alcuni suoi CD, pubblicati dalla propria etichetta indipendente Amirani Records, lo hanno rivelato agli appassionati, colpiti dal suono penetrante ed espressivo del suo sax soprano, palesemente memore della lezione di Steve Lacy. Incuriositi dall’estrema maturità messa in luce in quei lavori e dall’incapacità di reperire alcun tipo di informazione sul loro autore, siamo andati a cercarlo e abbiamo fatto altre sorprendenti scoperte, che hanno svelato una personalità artistica e umana molto interessante e originale.

Abbiamo raggiunto Gianni Mimmo a Pavia, la sua città, nel laboratorio di riparazione di strumenti a fiato, il “lavoro” che gli permette da anni di dedicarsi, poi, alla musica, senza l’assillo del mercato. Attiguo al laboratorio ha un piccolo studio, dal quale passano realtà musicali in cerca di realizzazione e lui stesso si occupa della produzione della sua etichetta che, oltre ai tre CD nei quali egli stesso è all’opera, ha pubblicato anche un lavoro di canzoni tradizionali svedesi affrontati dall’obliquo quartetto contemporaneo Samsingen, con la cantante Anna-Kajsa Holmberg.

All About Jazz: È la solita, difficile situazione: non si vive di sola musica…

Gianni Mimmo: Sì, però va anche detto che in un posto come questo non mancano le connessioni tra ambiti musicali diversi, spesso anche molto lontani, e questo è il vero guadagno del praticare musiche “trasversali”: l’incontro con realtà diverse e molto stimolanti - come la contemporanea, il post-rock - tutte però con le “antenne dritte” verso un certo sentire e sempre con molto rispetto verso le altre diversità. Cosa che, anche alla mia veneranda età, è molto importante.

AAJ: Veneranda età… Quanti anni hai? E qual è la tua formazione musicale?

G.M.: Sono del ’57, quindi ormai arrivato ai cinquanta. Sono completamente autodidatta, anche se ho iniziato a dedicarmi al sassofono fin dall’età di quattordici anni, ma devo dire che l’ho fatto sempre con uno spirito di curiosità e con la “testa dura”, con la convinzione, cioè, di non voler fare le cose così come “devono” essere fatte.

La cosa che mi ha sempre colpito di più e alla quale mi sono maggiormente dedicato è il suono. Il primo disco di jazz che ho ascoltato fu l’unico di Rhythm & Blues che abbia mai fatto Archie Shepp (si chiamava Kwanza). Mi comprai un tenore, con risultati terrificanti… Poi ho cominciato a studiare da solo, più che altro seguendo le forme del free. Credo di aver visto un numero impressionante di concerti dell’Art Ensemble of Chicago, quando ancora la formazione non era neppure propriamente quella (ad esempio, ricordo un concerto a Parigi del Roscoe Mitchell Sextet). Ho sentito prima il free del bop, sempre attratto dal suono. Recentemente, durante un trasloco, ho ritrovato una cassetta del 1969 - ero piccolissimo! - dove avevo registrato i rumori della ferrovia vicino a casa, che poi avevo rimontato con i suoni della radio! Mi è sempre piaciuto “smontare e rimontare” i suoni.

Dopo il tenore, ho avuto una lunga passione per l’alto e il baritono, ma al primo concerto di Lacy a cui ho assistito sono andato letteralmente per terra. Fu a Pavia e Lacy era assieme a un poeta bolognese oggi scomparso, Adriano Spatola, che lavorava molto sulle cellule fonetiche e si sposava bene con il linguaggio lacyano. Da lì ho iniziato a scrivere a Lacy e pian piano ho attinto da lui un atteggiamento verso la musica che non riguarda tanto l’“essere sassofonista”, quanto l’“essere monaco”! Gli insegnamenti che dava Lacy, o almeno quelli che io da lui ho ricevuto, erano relativi a come trovare una propria via per “picchiarci dentro duro”… Una strada faticosa, ma è quella che io ho sentito e praticato di più.

Certo, poi ho avuto molte collaborazioni e varie “cotte”, in ambito sia jazz che classico. Questo perché sono sempre stato alla ricerca di un linguaggio non strettamente “musicale”, ma più in generale “artistico”, multiforme. Nel jazz c’è spesso una certa uniformità idiomatica; ad esempio, si ascoltano un sacco di musicisti dalle grandi qualità tecniche, che fanno cose fantastiche, e tuttavia impersonali, appiattite, prive di una suggestione che porti aldilà dell’ambito idiomatico ristretto. Direi anzi che oggi siamo in un momento particolare, pieno di promesse e ciononostante non pienamente felice.

AAJ: Dicevi però poco fa che trovi maggiori riscontri oggi che non nel passato. Come spieghi questo contrasto?

G.M.: Semplicemente perché questi riscontri li trovo più fuori del jazz che non al suo interno. Non che anche in esso manchino persone attente o artisti meravigliosi; però i contatti più stimolanti mi vengono dal suo esterno. Quel che mi interessa è ciò che è “vero”, a prescindere dalla connotazione che può avere. Non solo: direi che quando suono io non voglio “stare bene”, non mi interessa; voglio andare più a fondo, e questa ricerca coincide con una sorta di “scomodità”, in primo luogo per me, poi anche per chi ascolta.

Oggi si parla spesso di “contaminazioni”, parola un po’ inquietante, dato che si è spostata con troppa facilità dall’ambito medico a quello musicale… Io preferirei parlare di “accostamenti”. E accostare non significa necessariamente comunicare… Tenendo anche presente che quello che conta negli accostamenti non è tanto il realizzarli, ma cosa hanno da dirsi tra loro le cose che vengono accostate…

AAJ: … e cosa hanno da dire a chi le osserva/ascolta, aggiungerei! Capisco e condivido quel che dici, dato che io - che professionalmente faccio il filosofo - nei miei seminari faccio ascoltare selezioni musicali molto diverse tra loro, e anche ciascuna ricca di “accostamenti” al proprio interno (un esempio per tutti, il duo di Sainkho Namchylak e Ned Rothemberg), proprio per far scoprire a chi ascolta cosa questi accostamenti si dicono e dicono loro. Si tratta per me di ampliare la comprensione degli individui. Mi sembra di capire che lo sia anche per te, iniziando dall’ampliamento del tuo stesso habitat musicale. Mi sbaglio?

G.M.: No, sono d’accordo. Recentemente ho fatto un esperimento tra musica e video, con musicisti che ruotavano nelle varie serate. Una cosa in parte interessante, in parte meno. Ma la cosa che mi ha veramente fatto imbestialire è che si avvertiva nettamente come spesso l’improvvisazione diventi un luogo estremamente “comodo”, un posto tranquillo nel quale non rischiare nulla. Forse aveva ragione Cage a dire che l’improvvisazione vera non esiste! Invece, una cosa che mi ha insegnato Lacy è che un musicista deve assumere su di sé almeno una parte di responsabilità, e che questo vuol dire non ridursi ad un lavoro “tranquillo”, tutto basato su pattern rodati.

Personalmente mi esprimerei con le parole di un filosofo, Ugo di S. Vittore, il quale diceva che l’uomo affezionato al luogo natale è un tenero principiante, quello che si sente a casa dovunque è già più maturo, ma perfetto è colui che si sente sempre straniero in ogni luogo.

AAJ: Molto bello e molto significativo! Come tutte le citazioni, ben aldilà di quanto può apparire ad una prima lettura. Ma dato che siamo sul tema dell’estraneità, come si spiega che di te non si sapesse nulla fino all’anno scorso?

G.M.: Beh, come dicevo prima, perché ho fatto troppo il monaco! Ho fatto montagne di esperienze e anche di demo, cercando di trarre fuori dalle esperienze il meglio, ma fino all’anno scorso non avevo mai pubblicato niente. Ho suonato con Lacy, ma sempre in ambiti didattici, con musicisti dell’area dell’Italian Instabile Orchestra, ho fatto cose… ma non ho mai fatto niente per “comparire”. Per caso mi sono incrociato di recente con dei magnifici trentenni dell’ambito rock, che si sono messi a produrre dischi (la Wallace Record). Alcuni di loro un bel giorno mi hanno detto: “ma non si spiega perché ancora tu non abbia fatto un’antologia di tutto quello che hai fatto girare in modo clandestino!” Mi hanno stimolato e così, pian piano, mi sono deciso a pubblicare qualcosa.

Poi c’è un’altra ragione, ed è il fatto che ho lavorato molto più in ambito teatrale, legando musica e testo, che non sul piano strettamente jazzistico.

AAJ: In effetti, ho avuto notizia recentemente - e da tutt’altro canale - dei tuoi spettacoli con la poetessa Livia Candiani.

G.M.: Sì, è uno degli spettacoli che anche adesso sto portando in giro, quando capita l’occasione, ad esempio l’estate scorsa al festival di Colle Val D’Elsa e a settembre al festival Gezziamoci di Matera. È un lavoro che dobbiamo registrare, molto bello, anche perché Livia è una persona “magica”.

AAJ: Anche lavori di questo genere ti avvicinano alla personalità di Lacy.

G.M.: Sì, è vero, verissimo. In effetti una della cose che mi ha maggiormente colpito di Lacy, molti anni orsono, fu il suo lavoro sulle poesie russe. Io sono molto affezionato ad alcuni poeti russi e quando vidi che Lacy aveva fatto quel lavoro me ne interessai subito e rimasi molto impressionato da quel trio, in particolare da un pianista assolutamente contemporaneo come Frederic Rzewski. Perché il rapporto che Lacy riusciva a stabilire in quelle che chiamava “art songs” tra l’incedere sillabico della musica e l’incedere sillabico della parola era quello che sentivo a me più vicino. Così, anch’io iniziai a indagare questo campo, lavorandoci molto, sia su testi miei che di altri. Ne venne fuori un lavoro che s’intitolava Empty Cups and Pieces, una scelta di aforismi e frasi che andavano da Cage a Rama-Krishna. Certo, questa è una cosa che Lacy mi ha trasmesso. Ne abbiamo anche parlato assieme: a suo parere si tratterebbe di una cosa un po’ ebraica, che deriva dalla cantillazione ebraica. Ho fatto alcune ricerche e ho scoperto che i primi lavori di quella che viene denominata “speech melody”, e che è stata sviluppata soprattutto da Steve Reich, vengono da Schoemberg, che per primo ha cominciato a indagare quella forma di melodia che si produce quando si parla.

Steve Reich ha pubblicato un CD - di quelli che per me sono da “cinque stelle assolute” - The Cave, che è tutto basato sulla “musica delle interviste”, ovvero sulla trascrizione della melodia del parlato. Lui poi ci lavora sopra in un modo molto “da Steve Reich”, ma che ha un valore concettuale molto forte, perché parte indagando un concetto, quello della caverna, e tu che sei un filosofo sai che se lo leggiamo in un modo andiamo da qualche parte - verso Platone - se lo interpretiamo in un altro modo andiamo da tutt’altra parte - verso Abramo - e che se poi ci spingiamo oltre abbiamo conseguenze ancora diverse - per esempio, negli States se dici “Abramo” tutti pensano ad Abramo Lincoln… C’è questa bellissima migranza dei concetti sulla quale Reich raccoglie il materiale delle interviste attraverso un lavoro sui timbri, tirandone fuori cose stupende! Ecco, tutto questo mi affascina molto, ma certo l’origine del mio interesse parte da Lacy.

AAJ: Veniamo ai dischi che hai pubblicato recentemente. Anch’essi hanno ispirazione decisamente lacyana, anzi, direi che è stato per me stupefacente ascoltarli e trovarvi dentro la più nitida voce lacyana che mi fosse mai capitato di udire. E questo senza che i tuoi lavori siano solo un’operazione calligrafica - comunque sempre difficile, perché la voce e il timbro di Lacy sono incomparabili. Tu a mio parere hai fatto un lavoro molto rispettoso, però anche tuo proprio, quasi tu fossi un epigono “degno”.

G.M.: Ti ringrazio, perché davvero quel che dici tocca delle corde che stavano dentro l’intenzione della mia operazione. Il primo dei CD che ho fatto uscire lo scorso anno, One Way Ticket, per solo soprano, è in realtà un’operazione sui padri. Sulla copertina c’è la foto di mio padre, ritratto a Sidney più o meno all’età che ho io adesso. Partì per l’Australia per starci quindici giorni, tornò invece tre mesi dopo, con mia madre in fibrillazione perché non capiva cosa stesse facendoci. La realtà è che mio babbo - con il quale quand’era in vita ho avuto soprattutto scontri i quali, adesso che non c’è più, appaiono meravigliosi - in quella foto ha la faccia di un protagonista di un film di John Cassavetes; è forse la foto più ottimista che ho di lui. Io ero in sala d’incisione nei giorni in cui lui stava andandosene e, nel mio sentire, le improvvisazioni mi sono apparse impregnate da quest’idea del “transito”, del biglietto ad una sola corsa - come recita il titolo - senza che si capisse bene se si trattasse di una partenza o di un ritorno...

Al tempo stesso, mi affascinava l’idea delle cose che si ricordano nei momenti “forti”, com’era quello in cui registrai e com’era stato il viaggio di mio padre a Sidney. Nella mia immaginazione, le cose che si ricordano sono quelle “minori” (come la moquette dell’albergo, o un corridoio, per intendersi), che però sono il “colore di fondo” di una situazione.

Ma in questo disco compaiono anche altri “padri”: naturalmente Steve Lacy, ma anche Thelonious Monk e Charles Mingus. E questo riferimento ai padri è anche un capriccio, che contiene al tempo stesso un rispetto e un ‘affanculo: il rispetto sta nelle cose che ho detto, nell’omaggio che faccio a queste figure; l‘affanculo invece sta nel fatto che in questo disco, secondo me, rispetto a tutte le altre cose che ho fatto in passato c’è molto più Gianni Mimmo. E questo perché riesco a mettere dentro, adiacenti ma nello stesso ambito, Webern e Monk, una poesia di Eliot e una di Scialoja. Queste cose viaggiano insieme e sono fatte “di testa mia”: sono convinto che Lacy mi sgriderebbe almeno in tre o quattro passaggi, mi direbbe “ma sei sicuro che è proprio la tua voce?”, mentre Webern mi prenderebbe proprio a calci per come ho fatto il “Die Sonne”! Ma sicuramente è come lo volevo fare io…

Con lo straordinario senso di autostima che ho non potevo fare altro! Forse, c’è solo un pezzo di troppo, ecco tutto.

AAJ: Perché? Spiegati meglio.

G.M.: Ci sono due brani piuttosto vicini, “Highway Tale” e “Unsaid e.”, due brani pressoché equivalenti e che non aggiungono molto l’uno all’altro. Come si dice, qui sono “andato un po’ lungo”, mi sono fatto prendere un po’ la mano.

AAJ: E il secondo CD, Two’s Days / Tuesdays? Anche questo è molto lacyano, con un duo tra soprano e trombone.

G.M.: Certo. Tra l’altro è registrato prima del solo, anche se è uscito un po’ più tardi. Questo è un lavoro “di specchio” con Angelo Contini, con il quale mi trovo molto bene, perché è una persona semplice, con il cuore gentile, molto per bene, ma che ha anche un suono molto “animale”. Ci siamo trovati subito bene e lavoriamo ancora insieme, anzi abbiamo un progetto con elettronica e immagini, sul tema del Kursk, il sottomarino nucleare russo che finì in tragedia.

Una storia che ha una morale epica straordinaria, perché tutta la soluzione della vicenda sta in un biglietto ritrovato nelle mani di un tenente che si era chiuso all’interno dell’ultimo compartimento stagno e solo attraverso il quale si è venuti a sapere la verità su quel che era accaduto - che è veramente una cosa omerica! Ci abbiamo lavorato sopra, e ne sta venendo fuori qualcosa di molto diverso. Sarà un DVD con immagini di una fotografa straordinaria e nascosta come Elda Papa, parti filmate ed editing curate da mio figlio Agua Mimmo; con la musica mia, di Angelo Contini e di quel mago del suono che è Xabier Iriondo. Si tratta di un’immaginazione e non di cronaca.

I tempi di Omero sono andati. Lui assommava nel poema fatti ed archetipi. La fruizione era benedetta, secondo me. Oggi la cronaca dettagliata, analitica, indagatoria, sviscera tutto ciò che avviene. Pensa a CNN o BBC. Qui ho preferito lavorare sull’immaginazione delle varie fasi di quel fatto. Ma avremo modo di parlarne ancora, vedrai.

Così come diverso è il terzo CD uscito, Bespoken, dove l’indagine è sulla narrazione dei suoni quotidiani. È un lavoro elettro-acustico che, grazie alla collaborazione con Lorenzo Dal Ri e alla sua perizia nel live electronics, nei campionamenti e nel field recording, ha dato un risultato speciale. È una specie di soundscape e anche una bella avventura per un sassofonista.

AAJ: Dicevi di essere stato attratto fin dall’inizio dal suono. L’approdo al soprano e anche dalle ispirazioni lacyane deriva principalmente da questo, immagino?

G.M.: Si, deriva da questo. Il soprano è uno strumento ingrato, molto ingrato: è il più imperfetto dei sassofoni. Devi odiarlo di continuo, è impossibile, non funziona, ha molte parti imprecise. Ho fatto anche delle ricerche fisiche in proposito: ogni strumento ha una zona morta, i fiati in particolare e i sassofoni, per la forma conica, ancor di più. Però è chiaro che nel soprano queste imperfezioni sono decuplicate! Inoltre ha un timbro che a seconda dei registri trova, come dire, un modo solo per venir fuori, e bisogna studiare forse un po’ troppo per ottenerne dei risultati, così che si finisce per assumere una forma un po’ maniacale di elaborazione del suono che ha più a che fare con la scultura che non con la musica.

In questo senso credo che per chi affronti il soprano solo sia molto difficile non venire da Lacy. Al mondo ci sono pochissimi sopranisti: ci sono moltissimi sassofonisti che suonano anche il soprano, ma di sopranisti ce ne sono pochissimi.

AAJ: Vuoi dire puri sopranisti.

G.M.: Esatto. Lo stesso Evan Parker, che è un musicista che adoro perché ha sviluppato un linguaggio assolutamente personale, conosce il soprano come le proprie tasche e ha un controllo della respirazione come nessun altro sul pianeta, viene però dal tenore. Ci sono tre vie per il soprano moderno - perché se andiamo più in là troviamo Bechet, che però ci arrivava dal clarinetto e da un suono comunque del tutto particolare - e cioè la via di Steve Lacy, quella di Evan Parker e quella di Lol Coxhill. Non ce ne sono altre. Forse Bruce Ackley, il sopranista del Rova Saxophone Quartet, che è stupendo e ha un timbro meraviglioso, ma personalmente non l’ho mai sentito da solo. In questo caso suona “anche” il tenore…

Io sono per i tagli estremi, così recentemente ho registrato con il sassofono basso - e qui viene fuori un po’ l’anima di Roscoe Mitchell. In realtà, per ragioni di lavoro, io suono tutti i giorni ogni tipo di sassofono; però è ormai tanto e tanto tempo, circa quindici anni, che sul palco non porto che il soprano. Ma resta il fatto che è un sassofono difficile. Anche Lacy diceva che non puoi dominarlo: puoi farlo per un po’, ma poi riprende il sopravvento, perché devi lavorare più degli altri sassofoni sull’imboccatura, e proprio per questo ti offre grandi potenzialità sulle tecniche alternative, sui multiphonics, però i particolari sui quali devi concentrarti sono molto minuti e ti costringono a un lavoro estremamente impegnativo sugli armonici.

AAJ: Da dilettante dello strumento, sono molto colpito dalla tua immagine che paragona il lavoro sul suono a quello dello scultore. Pur senza essere un professionista, ricordo che nei momenti in cui mi sono impegnato di più avevo anch’io una vera fissazione sul suono: cambiavo bocchini, ance, tipo di imboccatura…

G.M.: Certo! Io ho passato periodi in cui mi veniva da piangere! C’è stato un periodo in cui studiavo solo gli armonici. Avevo uno stage con Lacy a Bologna e volevo fare un figurone. Prima di andarci, per tre mesi tutti i giorni andavo dalle 18,00 alle 20,00 in un bosco e facevo due ore di studio degli armonici, costruendoli sulla fondamentale…

Gli uccelli rispondevano e io vedevo cose… Era un santo rimbambimento, ma pur sempre rimbambimento, avevo spostato tutta la mia attenzione solo sugli armonici! E quando tornavo a casa mi veniva davvero da piangere. Mi chiedevo: ma come hai fatto a ridurti così? Che accidenti ti è preso? Poi andai a Bologna e Lacy fece un pezzo con gli armonici e mi chiamò per un solo. Durante l’intervallo gli dissi: “guarda Steve che io so fare gli armonici benissimo. Finita la storia che li sai fare solo tu!” E glieli feci sentire. Lui mi fece i complimenti, me ne fece sentire altri, con altre posizioni - anche perché lui era veramente speciale: se lo sollecitavi tirava fuori sempre nuove cose e sempre più magiche, più belle, più nuove, di un mondo che non conoscevi! E che forse non conosceva neppure lui, ma esplorava sul momento con te... E quindi ridemmo di questa mia fissazione, perché continuavo a chiedergli cosa potessi fare, ora, per il suono...

Ricordo che mi fece una lezione sui sovracuti, che si basava sull’idea che i sovracuti sono in un corridoio, nel quale devi trovare le porte, cercandole là dove non si vedono. Poi ricordo che mi disse: gli armonici li sai fare piuttosto bene, i sovracuti devi cercarli, per entrambi usava la parola “fishing”, pescare. Poi mi ha lasciato con una frase che non dimentico: “now you can learn from the duck” - adesso puoi imparare dall’anatra. Io non avevo mica capito! Finché, quando lui se ne stava andando, mi resi conto che parlavamo dell’attacco della nota e che Lacy, nell’attacco delle note, spesso emetteva un respiro prima di fare la nota, che è esattamente quello che fa l’anatra! Ne ho parlato con uno specialista e mi ha spiegato che l’anatra appena prima di emettere il suono manda fuori un po’ d’aria dalle narici (hai presente Paperino?), fa uno spostamento in avanti che favorisce l’emissione. Però la frase di Lacy, “imparare dall’anatra”, senz’altra indicazione, ti dà la dimensione della follia che sta nella ricerca ossessiva del suono al soprano!

AAJ: Tra i sassofonisti italiani chi apprezzi di più?

G.M.: È difficile dire, anche perché non sono molti quelli che sento vicini al mio modo di suonare. Recentemente ho avuto modo di sentire dei lavori di Luciano Caruso, che ho apprezzato per il lavoro sul timbro. Poi c’è uno straniero che vive a Bologna, Tim Trevor Briscoe, che è straordinario sull’alto e sul clarinetto. Nessuno suona così. Ha qualcosa di sgusciante, come era Julius Hemphill. Roberto Ottaviano è un superbo sopranista specie qualche anno fa. Ma apprezzo sinceramente anche musicisti che sono molto lontani da me, come Claudio Fasoli, che ha un suono scuro e maschile, o Tino Tracanna, che usa molto la testa. Mi piace il Lost Cloud Quartet che lavora con Sciarrino e rende il contemporaneo fresco e flessibile. Il musicista-strumentista italiano che preferisco però è un contrabbassista: Stefano Scodanibbio. Beh, lui ha una gran classe e ha il potere di abitare completamente ciò che fa.

Anche perché, in fondo, ho capito che le cose che mi piacciono non sono necessariamente quelle che si avvicinano al mio modo di interpretare la musica, ma quelle che contengono qualcosa di vero. Espresso in parole può sembrare un po’ insoddisfacente, ma di fatto quando sento che c’è del “vero”, allora funziona - almeno per me.

Foto, nell'ordine, di Stefano Galvani, Agua Mimmo, Manuela Vallaro, Elda Papa.

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