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Dafnis Prieto: una miscela di culture

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Dafnis Prieto è uno dei massimi batteristi e compositori della sua generazione. 44 anni, nato a Cuba, Prieto è emigrato nel 1999 a New York dove ha iniziato a collaborare con i massimi leader latini (Eddie Palmieri, Michel Camilo, Carlos Barbosa-Lima, Arturo O'Farrill) e con esponenti d'avanguardia come Henry Threadgill e Steve Coleman. Dotato di una tecnica formidabile, Prieto ha sviluppato nuove soluzioni nel trasporre gli elementi ritmici afro-cubani in una contemporanea dimensione jazzistica. Nel 2005 ha pubblicato il suo primo album da leader, in un quintetto comprendente Brian Lynch e Peter Apfelbaum (About the Monks).
Dopo sei dischi a suo nome, Prieto è prossimo a pubblicare il suo primo album orchestrale (Back to the Sunset) e il disco d'esordio (Transition) del nuovo organico Kairos Sextet.

All About Jazz Italia: Il tuo primo album orchestrale, Back to the Sunset, sarà pubblicato tra breve. Da dove è partita la tua esigenza di scrivere musica per una big band?

Dafnis Prieto: Ho sempre amato il suono della big band. Quando avevo circa 11 anni ebbi modo di ascoltare un'orchestra a Santa Clara, Cuba, la città dove sono nato. Restai impressionato e sopraffatto da quel suono. Un anno fa conversavo con Eric Oberstein sulle prossime cose da fare e concordammo di realizzare un album orchestrale con mia musica e miei arrangiamenti. Io avevo già scritto musica per orchestre ma in quel momento è nata l'esigenza di andare più a fondo e preparare un intero album. I miei dischi passati privilegiano quartetti, quintetti o sestetti. Questa s'è rivelata per me un'eccitante opportunità per sviluppare la mia musica in un'impostazione orchestrale.

AAJ: Ho avuto il privilegio di ascoltare l'anteprima dell'album che uscirà in aprile e lo considero un lavoro magistrale, una splendida sintesi di musica cubana e di jazz contemporaneo visti da una prospettiva classica. Non è il consueto latin jazz orchestrale. Qual'è il pubblico ideale per questa musica?

DP: Grazie per gli apprezzamenti. Sono felice che ti piaccia l'ampia gamma di stili presenti nell'album. Credo che chiunque sia dotato di sensibilità musicale possa essere coinvolto da questa musica. Non indirizzo la mia musica verso un pubblico specifico e la si può eseguire in un jazz club, in teatro o in una sala da concerto. Quest'album contiene molti aspetti emotivamente rilevanti: un minuto puoi metterti a danzare e il minuto dopo a piangere o cantare una melodia contagiosa. Per me il genere musicale non è così importante quanto le persone che stanno dietro, i musicisti che la creano.

AAJ: Per quest'album hai composto e arrangiato nove brani, dedicandoli ai musicisti che più ammiri e ai tuoi mentori. Ci puoi illustrare i motivi delle varie scelte?

DP: Volevo offrire un tributo a quelle poche figure che mi hanno profondamente ispirato. Con alcuni di loro ho avuto l'opportunità di lavorare, ad esempio Eddie Palmieri, Brian Lynch, Steve Coleman, Michel Camilo ed Henry Threadgill. Ma con altri non è successo come Mario Bauza, Tito Puente, Hermeto Pascoal, Buddy Rich o altri. In un modo o nell'altro, direttamente o indirettamente, tutti mi hanno infuso grande forza ispiratrice.

AAJ: Con questo progetto ti collochi nel filone dei batteristi leader di big band. Che approccio usi per guidare l'orchestra?

DP: Ho guidato varie orchestre da oltre 15 anni e la nuova big band è un potenziamento di questa lunga esperienza. La guida di questa orchestra è stata un'esperienza edificante ed unica. Mi sono divertito un sacco nel dirigere questa musica serrata, poderosa e versatile per quanto riguarda dinamiche e tessiture.

AAJ: La prima mondiale dell'orchestra è stata nei giorni dal 25 al 27 agosto 2017 al club Jazz Standard di New York. Nei giorni seguenti avete registrato con la presenza di tre grandi ospiti: Henry Threadgill, Steve Coleman e Brian Lynch. Come hai strutturato i pezzi affidati a loro?

DP: Ho voluto invitare alcuni dei musicisti che più ammiro, che mi hanno indicato in un modo o nell'altro come andare avanti. «Una Vez Más» è un pezzo che ho dedicato originariamente a Brian Lynch ed Eddie Palmieri, all'epoca in cui suonavo con loro in quartetto. Pertanto ha dei caratteri specifici in riferimento ai loro stili. Quindi l'ho nuovamente orchestrato e ho invitato Brian a suonare nel brano. Per quanto riguarda «Back to the Sunset» l'ho scritto da subito pensando a Henry Threadgill. Henry è un musicista unico con un suono personalissimo e questo brano è per lui in particolare: è una ballad che credo si adatti bene al suo stile. «Song for Chico» l'ho scritto un decennio fa per l'Afro Latin Jazz Orchestra e Steve Coleman è un artista sempre molto avventuroso nel fondere differenti idiomi e culture. Ho pensato di avere il sound di Steve in questo pezzo perchè mi ha ricordato una versione aggiornata della collaborazione tra Machito e Charlie Parker. Mi pare sia risultato un mix perfetto.

AAJ: Quali sono state le esperienze musicali più significative che hai avuto con Lynch, Coleman e Threadgill e quanto ti hanno influenzato?

DP: Una delle cose più significative che ho appreso da loro è che la musica può essere personalizzata ed essere significativamente differente da persona a persona. E questa è una delle caratteristiche più belle e potenti della musica, in quanto ti permette di valutare la persona che c'è dietro e quali sono i suoi effettivi intenti musicali. Tutti loro mi hanno impartito grandi lezioni musicali su come guidare una band e sulla comprensione e accettazione delle differenze entro gli stili musicali. Molte volte questi insegnamenti erano dati in forme molto sottili o dall'esperienza stessa. Niente a che vedere con la consueta relazione in classe tra insegnante e studente.

AAJ: Qual'è stato il ruolo di Eric Oberstein nella produzione del disco?

DP: Eric ha svolto un ruolo molto importante dietro il lavoro di questa band e nella registrazione del disco. Si è preso cura di tutti gli aspetti logistici legati alla preparazione dell'album. Inoltre è stato molto assorbito nella fase d'incisione, aiutandomi a tenere d'occhio e organizzare le molte cose necessarie in studio.

AAJ: Tu hai in uscita anche un altro album, Transition, inciso col Kairos Sextet. Parlaci del progetto e dei partner coinvolti.

DP: Questo è il primo album del Kairos Sextet. L'ensemble esiste dal 2015, quando iniziai a insegnare alla Frost School of Music in Florida. Ne fanno parte Sean Johnson al sax tenore, Sam Neufeld alla tromba, Tom Kelley al sax contralto, Nick Lamb al pianoforte, Jon Dadurka al contrabbasso e Johnathan Hulett alla batteria. Sono musicisti che hanno deciso di unirsi in una band dopo essersi laureati; giovani talenti animati da passione per quello che fanno. Il disco contiene composizioni originali scritte da ognuno di loro, più un mio tema, «Triangles and Circles», incluso in un mio album in sestetto. Il gruppo ha vinto la Next Generation Competition e s'è esibito al Monterey Jazz Festival nel 2016.

AAJ: Il settetto ha una forte carica espressiva. Quanto tempo avete lavorato assieme?

DP: Abbiamo lavorato per l'intero anno scolastico prima della loro laurea. Ci siamo molto impegnati per trovare un suono e un'identità che ci distinguesse come collettivo.

AAJ: Torniamo a te. Quando hai iniziato a comporre musica?

DP: Ho iniziato ad approfondire il lavoro di composizione quando sono giunto negli Stati Uniti, nel 1999. Volevo sviluppare la mia musica accanto al ruolo che avevo come batterista, creare un mio ambito per swingare. Io avevo una formazione musicale classica ma amavo differenti tipi di composizioni, legati a differenti generi. Così ho iniziato a scrivere e sviluppare le mie idee, nelle forme più rappresentative per la mia sensibilità.

AAJ: La tua tecnica strumentale è straordinaria. Quanti sforzi ti è costata?

DP: Beh, ho praticato con grande passione negli anni di scuola e oltre. La mia buona pratica era cercare di suonare ogni idea che avevo in mente. Così ho formulato diversi tipi di esercizi tecnici per facilitare il processo. Mi piace sentirmi tecnicamente pronto quando suono per poter focalizzarmi al 100 per cento sulla musica.

AAJ: Quali sono state le principali influenze percussive?

DP: Le mie prime influenze iniziano dai batteristi cubani. Musicisti come "El Peje" Changuito, Tatá Güines, Miguel "Angá" Díaz e altri. Poi arrivato negli USA ed entrato nell'ombrello del jazz, vorrei menzionare tra gli altri Max Roach, Elvin Jones, Jack DeJohnette, Jeff Tain Watts e Tony Williams.

AAJ: In generale quali sono le cose più importanti dai maestri con cui hai collaborato?

DP: Eterogeneità, dedizione, passione e duro lavoro.

AAJ: Cosa ti ha spinto a pubblicare il tuo metodo per batteria A World of Rhythmic Possibilities ?

DP: Molte cose, inclusa l'esperienza di insegnante per tanti giovani batteristi in tutto il mondo. Ho voluto condividere alcune possibilità ritmiche che trovavo affascinanti ma anche molti esercizi che ho praticato per sviluppare indipendenza ritmica, vocabolario ritmico e molto altro. Sono tutti esposti sia dal punto di vista analitico che tecnico per far sì che il lettore possa capire come fare e, cosa più importante, come potrebbe essere fatto.

Foto: Henry Lopez

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