Home » Articoli » Interview » Bunky Green: avanti tutta, nella continuità
Bunky Green: avanti tutta, nella continuità
BySi possono suonare così tante cose. Si può suonare qualunque cosa passi per la testa, ma bisogna dare una continuità per far sì che tutto abbia una coerenza
Al sassofonista Bunky Green l'idea di suonare secondo le regole non va proprio a genio. In più di una occasione il musicista, originario di Milwaukee, è stato a un passo dall'entrare nel gotha dei jazzisti famosi, ma ogni volta i suoi principi lo hanno portato altrove. Ecco perché pur così influente è rimasto praticamente sconosciuto e lontano dai riflettori per anni, dedicandosi completamente all'insegnamento del Jazz. Negli ultimi due decenni, Green è stato Direttore dei corsi di Jazz alla University of North Florida di Jacksonville.
All'inizio della sua carriera, nel 1960, Green ebbe l'opportunità sostituire Jackie McLean nella band di Charles Mingus. L'animo artistico di Green è stato molto influenzato dallo spirito avventuroso e dalla volontà di andare oltre del leggendario contrabbassista, pronto a sacrificare il successo commerciale alla voglia di esplorare. Nel 1961 Green si trasferì a Chicago, dove registrò e si esibì con personaggi del calibro di Sonny Stitt, Yusef Lateef e Andrew Hill, oltre a perseguire la sua carriera da solista con album quali Testifyin' Time (Argos, 1965) e Playin' for Keeps (Cadet, 1966).
Deluso dal trattamento riservatogli dalle case discografiche e dall'industria musicale in generale, Green concentrò le sue attenzioni alla didattica nei primi anni Settanta. Insegnò alla Chicago State University dal 1972 al 1989 e nella seconda metà degli anni Settanta pubblicò tre album per la Vanguard: Transformations (1977) e Visions (1978), più commerciali, e Places We've Never Been (1979), decisamente più profondo e con musicisti di prima grandezza quali Randy Brecker, Eddie Gomez e Freddie Waits.
Nei trent'anni successivi all'uscita di Places We've Never Been, Grant ha registrato pochi altri album, alcuni dei quali sono però eccezionali. Healing the Pain (Delos, 1989), nel quale esplora il complesso intreccio di emozioni suscitate dalla morte dei suoi genitori, è un disco ricco di soul, lento e riflessivo, una pietra miliare nella sua carriera. Another Place (Label Bleu, 2006)prodotto da Steve Coleman, uno dei sassofonisti più influenzati da Greenriprende il discorso iniziato con Places We've Never Been. L'album contiene brani di ampio respiro, sia originali sia classici, ricchi di momenti, fieri, dinamici e spigolosi più consoni ad un giovane musicista ventenne piuttosto che ad un settantenne, quale era Green al momento di registrare l'album.
Il disco più recente di Green, Apex (Pi Recordings, 2010), rappresenta un altro sforzo ambizioso. È un lavoro trans-generazionale frutto della collaborazione con Rudresh Mahanthappa, un sassofonista capace di miscelare efficacemente il Jazz d'avanguardia con elementi orientali. Il disco ha riscosso un notevole successo di critica e ha rinnovato l'interesse per la carriera di Green. Green e Mahanthappa hanno contribuito con cinque ottimi brani ciascuno, capaci di esaltare le caratteristiche di entrambi così come quelle degli altri musicisti, tutti di prim'ordine: Jason Moran, Francois Moutin, Damion Reid e Jack DeJohnette. È un album intenso che entra a pieno titolo nel novero dei migliori dischi di Jazz degli ultimi anni. Green e Mahanthappa ora stanno pensando al prossimo capitolo della loro fattiva collaborazione.
All About Jazz: Il tuo primo contatto con Rudresh Mahanthappa è rappresentato da un nastro che questi ti inviò nei primi anni Novanta. Ricordi quale fu la tua reazione all'ascolto?
Bunky Green: Eravamo entrambi alla conferenza della International Association of Jazz Educators (IAJE) e lui mi portò quel nastro. Suonava in una band al college, a Chicago, e voleva che io l'ascoltassi. Lo feci, e tornai da lui. Tutto qui. E gli dissi, "Sai, è bellissimo. Benvenuto nel club. Sei uno di noi." Gli dissi così perché ci sono persone che suonano in maniera differente, che non seguono la vecchia scuola come fanno gli altri ma che trovano la loro via nell'armonia. Parlo di musicisti quali Steve Coleman e Greg Osbyentrambi miei cari amici. Ho riconosciuto lo stesso spirito in Rudresh, così mi complimentai con lui dicendogli quanto mi piacesse quel che faceva. Sentivo che stava seguendo la mia stessa strada. Negli anni siamo rimasti amici e ha continuato a mandarmi le sue composizioni affinché le ascoltassi. È stato capace di sviscerare le sue radici musicali e culturali e di applicarle al Jazz, piuttosto che essere la brutta copia di qualcun altro.
AAJ: Raccontaci l'origine del tuo interesse per la musica indiana.
B.G.: Molti anni fa, Donald Garrett mi parlò di Ravi Shankar. Donald era con John Coltrane quando sperimentava l'uso di due contrabbassi nella stessa band. Era sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e di diverso. Stavo seduto ore ad ascoltare Shankar, così lo andai a vedere dal vivo. Tempo prima, direi nel 1965, ero ad Algeri e ascoltai un suonatore di cornamusa Orientale - una piccola cornamusa, diversa da quella in uso in Occidente. Un'esperienza davvero interessante. Mi prese davvero e gli dissi, "Wow, è esattamente quello che sento dentro di me. Invece di tanta armonia, vedo che gestisci l'armonia stessa giocando sul centro tonale." La sola cosa essenziale per la sua musica era il drone. Mi colpì molto, e lo potete sentire in diversi dei miei album. Non potevo esagerare, perché non piaceva molto alle case discografiche, perciò dovevo infilarcelo non appena capitava l'occasione. [Ride]
AAJ: Raccontaci qualcosa di più sulla collaborazione con Rudresh Mahanthappa per Apex.
B.G.: La storia di Apex iniziò a Chicago nel 2009, quando suonammo insieme al Millennium Park. Rudresh voleva che suonassi con lui e mi chiamò per chiedermelo. All'inizio gli dissi, "Mah, non so."
Ma insistette dicendomi, "Dai, solo un'esibizione, noi due, che ti costa?"
Così accettai e suonammo insieme. Mi accorsi che quando sei sul palco con Rudresh sei quasi costretto a suonare, non puoi farne a meno. Perché è un'esperienza molto intensa, dall'inizio alla fine.
Ascoltando la registrazione ci siamo detti, "Wow, dobbiamo farne un disco." E così fu. Dal punto di vista del materiale c'era l'imbarazzo della scelta: avevo a disposizione brani che, da un punto di vista stilistico, andavano indietro fino agli anni Settanta, quando registravo per la Vanguard, basato sulle scale Orientali. Avevo pubblicato alcuni album per la Vanguard con Elvin Jones e altri, tra i quali Summit Meeting (1977) e Time Capsule (1977). Tra i miei pezzi da solista per la Vanguard ce n'è uno intitolato "East & West" che ricalcava quelle stesse atmosfere. Era contenuto in un album intitolato Places We've Never Been del 1979. Avevo anche composto tre brani per Time Capsule di Elvin Jones, e lo stile era sempre quello. Insomma, uno spirito che ho sempre avuto. E se lo riascolti senti che in effetti suonavo già così. Non troverai mai qualcuno che suoni fuori dagli schemi che non sia anche coerente ed esperto. Perché per farlo devi avere una naturalezza che può scaturire solo da una lunga esperienza.
La gente si chiede, "Come fa uno dell'età di Bunky a suonare come un giovane?" Sento questo ritornello ormai da anni. È come se mi avessero riscoperto. E ogni volta gli dico, "Ma perché non provate ad ascoltare qualche mio vecchio brano? Io ho sempre suonato così. E vi accorgerete anche che qualcun altro ha deciso di seguire la mia stessa strada."
Così quando cominciai a collaborare con Rudresh tutto andò bene sin dall'inizio, per via di quella continuità tra quello che facevamo insieme e i miei trascorsi. Tendo ad essere più orientato verso l'armonia di quanto lo sia Rudresh, perché ho alle spalle un'esperienza molto lunga che passa per Charlie Parker, John Coltrane e Sonny Rollins.
Ci sediamo e ci diciamo, "Okay, componiamo questo, costruiamone la struttura e facciamo in modo che funzioni, perché gli elementi ci sono già tutti. Dobbiamo solo provarlo con la gente giusta e via." Jason Moran è stato meraviglioso, per quella sua capacità di adattarsi e di capire dove vuoi andare a parare. Non solo, ma è anche in grado di condurti ad esplorare nuove strade. Jack DeJohnette è sempre stato fedele a se stesso. Incarna la storia del Jazz ma è capace di costruirne il futuro. Insomma, Apex aveva le carte in regola per essere un successo. E direi che lo è stato davvero.
AAJ: Che difficoltà avete dovuto affrontare tu e Mahanthappa durante la preparazione dell'album?
B.G.:Si è trattato di un'esperienza unica, nella quale l'unica vera sfida era costituita dalla necessità di arrivare tutti insieme ad una architettura coerente. Ci dicevamo, "Abbiamo tutti gli elementi. Come facciamo a metterli insieme nel miglior modo possibile?" Ma non ci sono stati problemi di alcun tipo, tutto si è incastrato alla perfezione. Io ci ho messo la musica, e la sezione ritmica l'ha fatta propria immediatamente. Un paio di prove, e tutto si sistemava. E la terza volta, suonavamo il brano a dovere. Una cosa molto naturale. Molte volte io e Rudresh suonavamo così in sintonia da sembrare una cosa sola, talvolta indistinguibili. [Ride] E questa è la prova di quanto fossimo tutti in sintonia. La nostra collaborazione continua, e vedremo dove ci porterà.
AAJ: Places We've Never Been è considerato un classico del Jazz underground e Mahanthappa lo considera una grande fonte di ispirazione. Cosa rappresenta per te?
B.G.: Credo che sia un disco apocalittico, davvero, per via degli echi Orientali che lo pervadono. E che sono evidenti anche nei miei pezzi con Elvin Jones. In quelle sessioni, suonavo semplicemente ciò che volevo. Nessuno mi stava sul collo. La casa discografica non mi diceva, "Vogliamo questo tipo di prodotto." Potevo ottenere il risultato che volevo. Places We've Never Been aveva una portata più ampia dal punto di vista stilistico, per via del mio modo di suonare. E fu questo ad intrigare Rudresh. Affrontavo il tessuto armonico in maniera allusiva, invece che limitarmi a suonare l'armonia per quello che era. Alternavo livelli più o meno alti di tensione andando contro i canoni dell'armonia per poi recuperarli senza soluzione di continuità. Questo è il punto. Si possono suonare così tante cose. Si può suonare qualunque cosa passi per la testa, ma bisogna dare una continuità per far sì che tutto abbia una sua coerenza.
AAJ: Quando incidevi per la Vanguard, avevi un accordo per cui ti hanno permesso di fare Places We've Never Been a modo tuo a patto di realizzare altri dischi secondo le loro indicazioni?
B.G.: [Ride] Esatto. E non a tutti permettevano di fare un disco secondo le proprie idee. Nel mio caso è stato merito di Ed Bland, il produttore della Vanguard che mi seguiva, perché conosceva la mia storia e le mie idee. Un altro forse non mi avrebbe permesso di realizzare quell'album. Ma io sapevo di doverlo fare, e lui me ne diede l'opportunità.
AAJ: Come giudichi gli altri album che hai pubblicato per la Vanguard?
B.G.: Molti sono commerciali. Però con Ed realizzai in seguito un altro disco, Healing the Pain, pubblicato dalla Delos nel 1989. E con quello ho potuto fare a modo mio. Fu un disco fatto per i miei genitori: morirono entrambi in un breve lasso di tempo per cui mi ritrovai, musicalmente parlando, in uno stato di trascendenza molto particolare. Nel brano "Seashells" mi cimento con una melodia molto particolare e complessa. Si tratta di suonare ottave molto vicine tra loro, per cui sembra che io stia suonando due note contemporaneamente. Una bella sfida, ma il risultato fu molto buono.
AAJ: Another Place, l'album del 2006 prodotto da Steve Coleman, ha qualche legame con Places We've Never Been?
B.G.: Hai indovinato. In effetti "Another Place" ["un altro posto" in inglese - N.d.R.] è un altro posto dove non siamo stati. [Ride] Sono legati, nel titolo. Sono soddisfatto di quell'album perché è pieno di spunti interessanti. Jason Moran al piano mi ha dato modo di vedere le cose diversamente. Mi concentravo ed ascoltavo il suo modo di suonare, e gli andavo dietro. Mi ha incoraggiato a fare le solite cose che faccio, ma in contesti differenti. Per quanto grande possa essere un pianista, se non sei in sintonia con lui non otterrai altro che qualcosa di rigido, forzato, ammesso di ottenere qualcosa. Ma con Jason e Nasheet Waits alla batteria, tutto è venuto da sé. Avevo suonato con il padre di Nasheet, Freddie Waits, in Places We've Never Been. Freddie era un batterista formidabile ma ci ha lasciati troppo presto, è morto troppo giovane.
AAJ: Qual'è stata l'influenza di Coleman sul disco, essendone il produttore?
B.G.: Steve è un ottimo musicista e non si è mai messo in mezzo. Mi diceva, "Fai ciò che vuoi." Steve mi ha praticamente costretto a fare quel disco. Siamo molto vicini. Mi diceva, "Devi fare questo disco."
Io gli dicevo, "Non voglio farlo adesso perché sono disgustato da come le case discografiche trattano gli artisti, specialmente dal punto di vista economico." Ero rimasto così scottato da alcune delle mie esperienze precedenti che gli dissi, "Non farò più dischi, basta." Non me ne importava più nulla. Non alle condizioni imposte dalle case discografiche.
Steve continuò ad insistere e mi disse, "Quelli della Label Bleu vogliono farlo. In Francia è un'etichetta molto conosciuta."
E alla fine gli dissi, "Va bene, Steve, lo farò. Ma solo perché mi fido di te." E così fu, e Steve aveva ragione. Penso che sia un grande album, tra i migliori. Prodotto molto bene e molto fresco, musicalmente parlando.
AAJ: Parliamo di quando lavoravi con Elvin Jones.
B.G.: È stata una bellissima esperienza. Musicalmente eravamo davvero un sintonia allora. Lui divenne famoso molto in fretta. Io scelsi di seguire un'altra strada, passando dalla via del successo a quella dell'insegnamento. Ero ad un passo dal successo e dalla celebrità. Lavorando con Elvin ebbi l'opportunità di suonare con un batterista che ammiravo, con il quale poter diffondere il mio messaggio. Davvero un batterista raffinato.
AAJ: Quali sono i concetti chiave che tenti di passare ai tuoi studenti, come insegnante di Jazz?
B.G.: Sembra assurdo, ma molti sono contrari all'insegnamento del Jazz. Lo vedono come un ostacolo sulla strada che porta a diventare un ottimo jazzista. Ma io non sono d'accordo. Credo che l'insegnamento del Jazz sia molto efficace per i giovani musicisti, se impartito da insegnanti capaci. E ci sono molti insegnanti capaci sia di suonare sia di trasmettere quegli elementi teorici utili alle nuove leve. Il rischio è quello di istituzionalizzare troppo l'insegnamento, ottenendo come conseguenza tanti musicisti che suonano tutti nello stesso modo. Se uno studente suona in maniera differente dalla massa, un buon insegnante deve pensare, "Solo perché non suona come Parker o come Coltrane, non vuol dire che non possa diventare un ottimo musicista. Chi lo sa che sotto sotto non sia un genio." Di certo Ornette Coleman la pensava così. Proprio non ce lo vedo inquadrato in uno schema rigido.
Sin dall'inizio voglio che i miei studenti si rendano conto che la strada è la vera scuolamolto semplice. Puoi metterti a suonare e diventare un musicista esperto, ma devi fare esperienza nei night club e nei locali dove si suona. Devi avventurarti in un ambiente nel quale non tutto va secondo i piani, dove devi saper improvvisare. Devi saper reagire su due piedi. Devi abituarti a stare in un ambiente dove le cose cambiano all'improvviso. Non puoi solo far pratica con un CD, perché altrimenti ti limiti a fare e pensare in modo da seguire pedissequamente il CD. Non puoi suonare liberamente e improvvisare come se fossi da solo se ti trovi in un ambiente dove il batterista, il contrabbassista o il pianista cambiano ogni sera. Devi saper ascoltare gli altri, capire come ragionano e reagire istantaneamente qualunque cosa succeda.
AAJ: Cosa dici ai tuoi studenti riguardo al modo di lavorare nell'attuale panorama discografico, e a proposito del fatto che negli Stati Uniti ci siano molte meno possibilità di esibirsi rispetto al passato nell'ambito del Jazz?
B.G.: Gli dico, "Non pensate di potervi arricchire. Pochissimi musicisti Jazz hanno fatto i soldi. Sono l'eccezione, non la regola. Se volete un lavoro ben remunerato, che vi porti a guadagnare 250.000 dollari all'anno, forse avete sbagliato mestiere." [Ride] Ma non è questo il punto. Gli domando, "Vi piace quel che fate? È proprio quello che più desiderate fare? Ardentemente? Sentite un fuoco dentro di voi che non riuscite a spegnere? Se così è, allora andate avanti e vada come vada. Con ogni probabilità riuscirete a sbarcare il lunario. Magari sarete uno di quelli che riescono anche ad arricchirsi, ma il segreto è quel fuoco che vi brucia dentro. La vita è una sola, e queste sono le prospettive se scegliete questa strada." Questo dico ai miei studenti. Gli dico le cose come stanno. Gli racconto dei musicisti meravigliosi con i quali suono e di tutto ciò che imparo dalle loro esperienza reali. Gli dico, "Nessuno vi proteggerà se sbaglierete o se non farete la cosa giusta. Quando andrete là fuori, sarete là fuori. E può fare molto freddo, là fuori. Fa tutto parte del gioco. Ma se impari, sarai ammirato."
AAJ: Parliamo di Through His Eyes, l'album-tributo del 2004 degli studenti della University of North Florida Jazz Ensemble (Sea Breeze Vista). Cosa ha significato per te?
B.G.: È stato splendido. Un omaggio dei miei studenti. Mi ha fatto sentire bene, mi ha fatto sentir apprezzato. E ho capito di aver fatto qualcosa di buono che ha influenzato la vita di quei giovani. Tutto merito di Keith Javors, un bravissimo pianista, che ha saputo realizzarlo insieme alla sua band, davvero un ottimo lavoro.
AAJ: Stai lavorando a molti progetti. Cosa uscirà a breve?
B.G.: Non vedo l'ora di preparare un album e da lì andare avanti. Inevitabilmente qualcuno salterà fuori e mi dirà, "Voglio registrare un tuo progetto." Ma non sono ansioso di pubblicare qualcosa a meno che la casa discografica mi vada a genio. Quando si presentano gli chiedo sempre, "È il mio show o è il tuo? Se è il tuo, avrai la tua idea su come deve essere. Ma se vuoi che io suoni per te, allora si fa a modo mio, quindi lascia fare a me." Mi sono concentrato su Apex, che è uno sforzo condiviso, in termini di esecuzione. Rudresh continua ad esibirsi da solo, e io continuo ad insegnare. Quindi non ho fretta di registrare, ma se capiterà l'occasione giusta, allora la prenderò al volo. Ho già registrato parecchio materiale e sto pensando al futuro.
AAJ: Una volta hai detto, "Se un musicista non riesce a mantenere la sua mente libera, allora anche il ribelle diventa un conservatore." Come fai ad evitare la trappola?
B.G.: Credo sia nel mio DNA. Se una persona con grandi idee si accompagna a chi cambia il sistema, prima o poi incontrerà qualcuno con un'idea ancora più sovversiva. E anche se quest'idea è giusta, quella persona può dire, "No, questo non voglio cambiarlo." Perché? Perché tutto sommato la persona sta bene come sta. Ed ecco che il ribelle è diventato un conservatore. Bisogna stare molto attenti a non fare la fine del conservatore.
Insomma, questo è Bunky Green. E questo è il mio modo di suonare. La gente mi chiede, "Bunky, continuerai a suonare così?"
Io rispondo, "Beh, se non sarò morto, spero di no. Voglio continuare a evolvermi."
Ma ciò non significa che voglio essere diverso solo per il gusto di esserlo. Non funziona così. Cambiare vuol dire trovare qualcosa che ti ispira a lavorare su qualcosa di nuovo. Per cui ti dici, "Voglio esplorare questa cosa, e vedere cosa salta fuori." Si tratta di avere la mente aperta. Sfortunatamente può capitare di fare un disco che diventa molto popolare, che piace all'ascoltatore medio, così che lo vendi bene. E quando ti esibisci devi suonare quel pezzose vuoi mantenere la tua popolarità. E se anche non ti andasse di suonarla, sei praticamente obbligato a farlo. Devi pensarci bene prima di fare un album, ti devi chiedere, "Avrò voglia di suonarla di nuovo?" [Ride] Nei miei 15 album ci sono pezzi che avrei difficoltà a suonare di nuovo, perché non ne ero soddisfatto quando li composi, mentre di altri sono contento e soddisfatto. Il fatto è che mi considero uno spirito libero che vuole semplicemente andare avanti e suonare ciò che si sente dentro. E non voglio trovarmi tra i piedi qualcuno che mi dica che quel che faccio non è abbastanza commerciale. Un artista dovrebbe fare quel che ritiene giusto e importante.
AAJ: Hai detto che la creatività è una questione di vita o di morte. Puoi spiegarti meglio?
B.G.: Far bene quel che si vuole fare è una questione di vita o di morte. Non hai scelta, lo devi fare, altrimenti è come se la tua vita non avesse senso. Se non lo fai, non riesci ad essere soddisfatto di te stesso, diventi apatico, improduttivo, come essere morto. Non intendo nel senso letterale, ma senti una necessità impellente di esprimerti. Dici a te stesso, "Devo farlo. È un'ossessione che non mi abbandonerà mai, mi accompagnerà sempre." Mi riferisco a quei musicisti che pensano giorno e notte alla musica. Che non dormono da quanto ci pensano. E che quando anche riescono ad addormentarsi, si risvegliano suonando uno strumento immaginario. Si esercitano mentalmente, diventa parte integrante del loro modo di vivere. Per questo ho usato la metafora della questione di vita o di morte.
AAJ: Nel tuo lavoro c'è anche un elemento spirituale?
B.G.: Sì, assolutamente sì. L'elemento spirituale è imprescindibile. Se riesco a fare certe cose è solo grazie a Dio che mi ha dato il talento, non certo per merito mio. Dio me l'ha dato ed è mio dovere portarlo al livello più alto possibile. È qualcosa che riuscirà a risplendere grazie a me solo se saprò essere in contatto con il Creatore. È la mia luce, e la farò risplendere. Non si tratta di ego. Anzi, l'ego va messo da parte. Nel mio caso, l'unica concessione all'ego è quel sentirsi bene dopo tutti questi anni. Mi riconoscono il fatto di aver creato uno stile. Ma ci sono migliaia di sassofonisti bravissimi dotati di una tecnica splendida, ma non si tratta di questo. Vorrei che qualcuno dicesse, "C'era una volta una persona, si chiamava Bunky Green, che ha lasciato agli altri sassofonisti qualcosa su cui lavorare dal punto di vista dello stile. Aveva una sua personalità. Era un creatore." In armonia con il Creatore con la 'C' maiuscola, tutto qui.
Discografia Selezionata
Rudresh Mahanthappa - Bunky Green, Apex (Pi Recordings, 2010)
Bunky Green, The Salzau Quartet Live at Jazz Baltica (Traumton Records, 2008)
Bunky Green, Another Place (Label Bleu, 2006)
Bunky Green, Healing the Pain (Delos, 1989)
Bunky Green, In Love Again (Mark, 1987)
Bunky Green, Places We've Never Been (Vanguard, 1979)
Bunky Green, Visions (Vanguard, 1978)
Bunky Green, Transformations (Vanguard, 1977)
Bunky Green, The Latinization of Bunky Green (Cadet, 1967)
Bunky Green, Playin' for Keeps (Cadet, 1966)
Bunky Green, Testifyin' Time (Argo, 1965)
Bunky Green, Step High (Exodus, 1960)
Traduzione di Stefano Commodaro
Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA
Foto di John Broughton (la prima), Govert Diessen (l'ultima).
Tags
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
