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A dialogo con Mariasole De Pascali

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Ormai da qualche anno al centro di progetti interessantissimi e assai singolari—Bestiario di Francesco Massaro, Lamiee di Nicholas Remondino, l'Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti di Paolo Damiani—e collaborazioni con musicisti quali Marco Colonna o Admir Shkurtaj, la flautista pugliese Mariasole De Pascali è giunta alla realizzazione del suo primo lavoro a proprio nome, Fera, uscito per Parco della Musica, la cui perfino sorprendente riuscita le è valsa il riconoscimento di miglior nuovo talento italiano nell'annuale referendum di Musica Jazz (a pari merito con il trombettista Alessandro Presti). Dopo averla seguita con interesse in questo suo percorso, ci è parso il momento per conoscerla meglio e parlare con lei delle sue esperienze e del disco, che ne rappresenta l'attuale coronamento.

All About Jazz Italia: Per cominciare, visto che sei giovane e forse per qualcuno poco conosciuta, puoi raccontarci qualcosa di te?

Mariasole De Pascale: Sono nata in Puglia, ho iniziato a suonare alle medie per poi intraprendere quasi subito la formazione accademica come musicista classica presso il Conservatorio di Lecce prima e al Cherubini di Firenze poi. Nel mezzo tante cose e un po' di "girotondo," sempre inquieta, bulimica e in cerca di cose diverse. Non appena diplomata, ho lavorato per breve tempo in orchestra: mi piaceva molto, ma allo stesso tempo non ero a mio agio con la routine del professionista iper-performante e competitivo, come occorre essere se si vuole vincere delle audizioni e fare questo lavoro stabilmente.

D'altra parte, latente, l'aspetto creativo della musica mi è sempre interessato e in qualche modo è emerso fino a diventare il centro della mia attività. Per breve tempo ho fatto tappa al Conservatorio di Monopoli dove ho frequentato il vecchio ordinamento di jazz, allora totalmente in mano a Gianni Lenoci, artista e persona colta, di grandissimo fascino, ma soprattutto, per chi come me stava facendo un percorso di formazione, didatta straordinario: conoscerlo significò cambiare modo di guardare al mondo dell'arte, ben oltre la musica, portare con me dei semi che sono maturati pian piano —suggerimenti di ascolti, riflessioni sulle infinite possibilità della musica, campi di ricerca da esplorare, artisti da conoscere. Molto tempo dopo l'ho ritrovato all'interno di Bestiario, ed è stato come tornare a casa. Ricordo affettuosamente che incontrandolo a distanza di anni mi disse: che lungo giro hai fatto per tornare qui!

AAJ: Avendolo conosciuto, penso che sarebbe molto contento del lavoro che hai fatto.

MDP: Grazie. Piace pensarlo anche a me, ne sarei onorata.

AAJ: Ti seguo da tempo e ti ho incontrata in molte situazioni interessanti, come quelle con Francesco Massaro, Marco Colonna, Nicholas Remondino. Per questo aspettavo con interesse l'uscita di Fera, il primo disco a tuo nome. Ma—lo dico senza alcuna piaggeria—all'ascolto quel lavoro è andato oltre ogni aspettativa. Come ci sei arrivata e come vi hai fatto confluire le tue esperienze precedenti?

MDP: Fera arriva "a conclusione" di un percorso fatto di esperienze diverse tra loro, ognuna con la sua rilevanza. Bestiario in primis, progetto col quale sono cresciuta e che è stato importante per me. Grazie a quel lavoro con Francesco, Gianni, Michele e Adolfo, durante il quale discutevamo di processi e strategie e del rapporto tra scrittura e improvvisazione, ho potuto mettere a fuoco alcune delle possibilità del flauto e imparare a improvvisare in uno spazio condiviso. Ho poi conosciuto Marco proprio grazie a Bestiario ed è stato un incontro anch'esso fortunato, per la portata del musicista, ma anche per la dedizione —a tratti devozione—con cui veste la propria missione artistica e sociale. Oltre all'amicizia, ho potuto dedicarmi per un po' al duo con lui e conoscere personalità notevoli della scena romana come Eugenio Colombo, Fabrizio Spera, Giancarlo Schiaffini, Luca Venitucci e altri. La collaborazione con Nicholas è nata più casualmente, perché entrambi eravamo interessati ai rispettivi lavori; dopo un po' mi ha coinvolta nel bellissimo progetto di Lamie. Cose dunque tutte piuttosto diverse, accomunate forse dal non essere riconducibili a un genere univoco o a un contenitore fisso, piuttosto ibride e aperte.

AAJ: Del resto generi e contenitori rischiano di imprigionare sia la creatività, sia l'ascolto, sebbene abbiano una loro utilità per orientare nel mare delle differenze e per farle convivere in modo coerente. Ma questo in Fera accade comunque: ci sono dentro molte cose, dalla contemporanea al jazz, dall'astrattezza al lirismo, dal lavoro sui timbri all'improvvisazione, sempre però con grande equilibrio. E allora la domanda è: come sei riuscita a ottenerlo?

MDP: A dire il vero non lo so! Sono una persona analitica, un po' cerebrale, tanto che le scelte riguardanti il lavoro, dai materiali finanche ai titoli, sono il frutto di una ricerca rigorosa. Ma, in definitiva, per me la musica non può prescindere da una sua "godibilità." Ciò non vuol dire che quello che è godibile per me lo sia anche per un altro, ovviamente, ma volevo comunque che il lavoro non sfuggisse a un aspetto più materico, erotico del far musica, che vi coesisterssero più aspetti (timbrico, ritmico, armonico) e un certo grado di lirismo e di vividezza dei materiali. Per esempio, il suono e le declinazioni timbriche, sicuramente centrali nella mia ricerca e in quella dei compagni che ho scelto, non doveva ridursi a "effettismo": ci tenevo fosse "utile" a delle forme, non fine a sé stesso.

AAJ: Nella sua semplicità, quanto hai detto è estremamente esplicativo, lo dico da ascoltatore che privilegia le musiche astratte e cerebrali, ma che tuttavia si stufa quando lo diventano troppo... E certo l'attenzione alla fruibilità e alla godibilità può essere un forte stimolo per tenere in equilibrio i contrasti tra le diversità presenti nel lavoro. Riguardo a quello tra scrittura e improvvisazione, qual è il peso di ciascuna delle due e come le hai coordinate?

MDP: Ho immaginato le parti scritte come delle vere e proprie "scene," per cui la loro distinzione da quelle improvvisate è, volutamente, piuttosto netta: si passa da parti all'interno della stessa composizione come "La cerimonia del taglio" o "Cold Grey, Cadmium Yellow," riconoscibili come scritte, ad altre di improvvisazione totale. Nel lavoro fatto finora, questa distinzione netta è stata intenzionale. Ma anche nel lavorare sull'improvvisazione ho scelto alcuni materiali o condotte precise: intervalli, comportamenti ritmici, oggetti sonori e formule entro cui muoversi. Per esempio, in "Questo corpo," che è quasi tutto scritto, la parte improvvisata si distingue meno proprio perché è fatta su materiali timbrici scelti e utilizzati nella scrittura. L'equilibrio tra le due componenti, perciò, è in parte definito proprio dal loro contrasto, in parte dalla "recinzione" dell'improvvisazione entro dei limiti scelti e delle condotte che ritornano nell'arco di tutto il lavoro.

AAJ: A proposito della ricerca sullo strumento, il brano che intitola l'album è per l'appunto un tuo solo: quanto del disco viene dal tuo lavoro sui flauti?

MDP: Tanto! E questo perché il mio lavoro di studio, pratica e ricerca sulla musica comincia dal rapporto, non sempre facile, col mio strumento. Proprio per questo, forse per me sarebbe stato naturale esordire con un disco in solo; poi non è andata così, perché per fortuna ho avuto l'opportunità di lavorare assieme ad altri splendidi musicisti, grazie allo sprone di Parco della Musica Records che mi ha dato la possibilità di farlo. Il solo ha però conservato un ruolo centrale e per questo è venuto da sé che "Fera," la quinta traccia, fosse anche la title track. In fondo la pratica del solo, per la mia esperienza, è tra gli esercizi più "feroci" possibili sopra un palco, perché ti costringe al rischio di essere nudo di fronte al pubblico, essendo privo di compromessi, come mi insegnano i maestri che hanno approfondito questa disciplina—penso a Evan Parker, Peter Evans, Massimo De Mattia, solo per citarne alcuni. "Fera" è il confronto tra sé e sé, una sfida estrema in cui simultaneamente utilizzo la respirazione circolare e il canto. Una sfida ancora tutta aperta.

AAJ: Tornando al gruppo: quanto del lavoro è invece dovuto ai tuoi compagni e come li hai scelti?

MDP: La scelta è stata dettata dalle esperienze comuni che abbiamo fatto e dal rapporto che condivido con loro. Una scelta elettiva, affettiva in senso sia personale che artistico. La loro sensibilità e le attitudini artistiche, stilistiche, sono state fondamentali per la realizzazione del mio lavoro. Con Adolfo La Volpe ho una collaborazione, oltre che un'amicizia, di lunga data: condividiamo molti ascolti e la passione per l'arte visiva, ci accomuna una certa estetica ed è stato perciò molto naturale ospitare due sue composizioni in Fera ("Cold Grey, Cadmium Yellow" e "Un giorno bianco"). Anche con Giorgio Distante e Lucio Miele ho condiviso diverse esperienze ed entrambi hanno dato un importante contributo: Giorgio con il suo alternarsi alla tromba e alla tuba ha un peso importante nell'equilibrio timbrico del disco, oltre ad avere un'attitudine ed esperienze diverse dalle mie, che arricchiscono il lavoro; Lucio, con la sua peculiare capacità di costruire e dare forma alla materia, in alcuni brani ha letteralmente virato le scelte musicali. Infine Daniele Roccato, con cui ho avuto la fortuna di suonare in seno a diversi progetti negli ultimi anni, mi ha onorato del suo contrabbasso ne "La Cerimonia del taglio (a KKD)."

AAJ: Tornando al tuo rapporto con lo strumento, quanto improvvisi al flauto?

MDP: Nella pratica, sempre: è una continua ricerca di materiali e strategie per dare una forma all'improvvisazione. Così, quando studio, improvviso e prendo appunti o mi registro, ascolto, imito, in modo da poter replicare quel che mi è piaciuto. Anche se poi, inevitabilmente, ciò da cui parto prende strade diverse, si trasforma in altro e diventa una nuova risorsa. Ma è anche vero che sul palco, in fondo, nulla si inventa e quello che appare nell'improvvisazione è spesso frutto di un "incontro" precedente. Tutto quanto proviene dallo studio è qualcosa cui torno a dar forma in concerto.

AAJ: Quanto conta il fatto che tu suoni più strumenti, della stessa famiglia ma dai timbri e dai colori così diversi?

MDP: Ti ringrazio per questa domanda, perché effettivamente la scelta dello strumento tra soprano, alto o ottavino influenza la costruzione delle idee da concretizzare, e viceversa. E ciò non solo per il timbro, ma perché nella pratica sperimento possibilità musicali e strategie dell'improvvisazione differenti a seconda del tipo di flauto. In questo disco, per esempio, l'ottavino compare molto spesso a seguito delle necessità musicali: in "Dogville" insieme alla chitarra elettrica alla stessa altezza crea un impasto che non sarebbe stato possibile con gli altri due, non solo per una questione di registro. L'alto, invece, è circoscritto al solo, per ragioni affettive, e a pochi altri brani, le songs "Identica" e "Un giorno bianco."

AAJ: So che hai lavorato col compositore Admir Shkurtaj, un musicista singolare e molto interessante, ma che si muove in ambiti un po' diversi dai tuoi. Che influenza hanno avuto esperienze di questo genere?

MDP: Ho suonato qualche anno con Admir, un musicista intenso e un compositore molto cerebrale da un lato, eppure con le mani continuamente dentro la materia sonora dall'altro. Durante il lavoro, ero coinvolta nel processo creativo, scriveva su di me o su gli altri musicisti, con quelle che in quel momento erano le risorse di ognuno di noi. Condividere il lavoro con lui mi è servito molto, ha cambiato la mia percezione dell'ascolto e alcune riflessioni sulle composizioni di Fera nascono proprio da quell'esperienza.

AAJ: Facciamo un salto indietro: alle spalle di tutte queste esperienze cosa c'era? Come ti sei avvicinata allo strumento?

MDP: Ho cominciato a suonare alle scuole medie a indirizzo musicale, pensavo avrei studiato la chitarra, e poi invece mi sono ritrovata con questo strumento che non sapevo nemmeno come fosse fatto. Inizialmente è stata forse una questione di riconoscimento: mi sentivo brava in qualcosa e perciò mi impegnavo. Crescendo, ho iniziato a conoscerlo, in alcuni momenti ho cercato di "superarlo," spesso ispirandomi ad altri strumenti, cercando a tutti i costi una voce diversa dalla sua. Ci ho fatto pace nel tempo, scoprendo i mille mo(n)di in cui il flauto si esprime e tanta incredibile musica, da Hermeto Pascoal al bansuri di Rakesh Chaurasia, da Barthold Kuijken a Claire Chase.

AAJ: E adesso? Intanto sarebbe bello che il quartetto di Fera suonasse dal vivo...

MDP: Certamente, anche se non so bene come si faccia perché avvenga. Abbiamo qualche data estiva tra Puglia, Lazio e Sicilia. Ma mi piacerebbe molto portare il progetto anche fuori dall'Italia. Poi, oltre a Fera, sto portando avanti il mio progetto in solo e ho qualche collaborazione in ballo. Tra le altre, un nuovo trio con le bravissime Silvia Bolognesi e Maria Merlino, progetto nato grazie allo sprone dell'associazione palermitana Curva Minore.

AAJ: Conosco Silvia molto bene e stimo Maria da quel che ho ascoltato di lei. Bello anche che tu sia coinvolta in un gruppo tutto al femminile.

MDP: Sono molto entusiasta anche io di questo trio. La connotazione tutta al femminile non è casuale probabilmente e va bene nella misura in cui i progetti musicali siano il pretesto per qualcosa di interessante, come in questo caso, continuando a indagare la questione delle dinamiche del potere criticamente, al di là della compilazione di un bando. Prossimamente, infine, registrerò con il sassofonista Simone Alessandrini, che sono felice mi abbia coinvolta nel secondo capitolo del suo Storytellers. E poi vediamo, ho già delle idee per un prossimo disco e mi auguro un anno ricco di concerti dal vivo.

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