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A dialogo con Claudio Cojaniz
ByOggi sono più interessato a dire qualcosa, magari con altri, che a dire a tutti i costi qualcosa di nuovo: temo che chi dice qualcosa di nuovo l'abbia letto o sentito da altre parti
AAJ: Nell'ultimo periodo la tua attività creativa sembra aver subito una sorta di accelerazione: nella precedente intervista ci parlasti dell'Orchestra N.I.O.N (con il CD Howl), del duo con Bearzatti che ha pubblicato l'album Beat Spirit, del solo piano con immagini Non son tornati, del progetto per organo a canne e del nuovo trio con i "giovani" Alessandro Turchet e Luca Colussi, cose su cui lavoravi in quel periodo. A due anni di distanza il solo per organo e il trio sono usciti per la Caligola, ma sono anche usciti Carmen the Land of Dance dell'"orchestra popolare" Red Devils Band e il Dreiländer Trio, interamente improvvisato con i tuoi antichi collaboratori Giovanni Maier e Zlatko Kaucic, e anche l'A.P. Trio con cui hai registrato il CD The Heart of the Universe. E non solo, hai anche portato in giro il nuovo progetto Blue Africa, in duo con Franco Feruglio al contrabbasso, dedicato all'Africa... Il cd uscirà in autunno per la Caligola. Dov'è che trovi tutti questi stimoli e tutte queste idee?
Claudio Cojaniz: Innanzitutto non ho legami con i cosiddetti "Grandi Centri": vivo ai margini, in campagna, dove c'è ancora tempo, il mio tempo.... Un vero elogio alla lentezza, immerso nella cultura del vino e delle osterie, autentiche università del sapere umano, biblioteche orali sapienti e ironiche: salvifiche! Dopo il primo incubo atomico e il '68 (diciamo verso gli anni '80) la mia generazione ha attraversato un vero e proprio spaesamento: si trattava quindi di trovare un percorso di accettazione, per poter continuare a vivere o lasciarsi morire, autodistruggendosi... È standomene lontano dai clamori della città che ho potuto con coraggio mettere in discussione l'intera mia vita, così come si era svolta fino allora e ripartire, con il cuore rinnovato e pienamente sereno. Uno dei testi chiave che leggiamo nei concerti della Red Devils Orchestra, "mi sha mon dai ka," tratto dal libro tibetano dei morti, dice: per vivere devi essere leggero, se sei troppo pesante vai a fondo. Ma se non sei mai andato a fondo non potrai mai capire nulla...
In secondo luogo, ho attenzione e curiosità per i giovani. Il decadimento della cultura umanistica ho cominciato ad avvertirlo molti anni fa e ho capito che tutto il sistema di valori storici, politici, artistici e culturali in generale, nei quali sono cresciuto e per i quali ancora insisto a impegnarmi, stavano finendo nei cassonetti, fagocitati dai media e riciclati come tanti wurstel dal sapore unico, indistinto. Oggi i ragazzi non si voltano indietro, prende loro la tristezza, alle spalle vedono un cimitero di elefanti. La vita è adesso, qui e ora, quello che è stato è stato, tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso: arte, pensiero e letteratura sono impedimento o ruminamento... Stagione del desiderio, dell'onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno piú veloci del pensiero; è la stagione del disprezzo verso ogni forma di armonia e di articolazione. Oramai la cesura è netta, un taglio secco; del passato non c'è quasi nulla da recuperare e la cultura umanista finirà nei musei di Firenze o di Roma: ci sarà la fila per ammirarne il cadavere mummificato. I ragazzi stanno altrove. Non tutti, per mia e loro fortuna: nella Red Devils Orchestra (venti musicisti, con nove fiati, chitarra rock, blues harp, due fisarmoniche, due bassi, percussioni e batteria, un rapper e un angelo balcanico alla voce femminile, ora anche il poeta Raf BB Lazzara) a parte un paio di vecchi tromboni e io, sono tutti giovani pieni di curiosità e affatto banali, né consumisti; loro mi costringono a stare sveglio.
Inoltre, sono inattuale: un improvvisatore è un compositore istantaneo, che non parla molto, ma, come per un gangster... un colpo essenziale e tutto si compie. Questo nutre l'eros, la fame di conoscenza, la voglia di vivere. Quando lascio scorrere le dita sulla tastiera accadono cose più interessanti di quelle che escono da una qualsivoglia volontà. Al massimo predispongo una piccola idea, come un basso o un particolare accordo che mi aiutino a entrare in una certa atmosfera; tutto qua. Poi lascio che determinati incroci si verifichino, sempre pronto a deviare se il momento lo richiede. A volte capita di partire con un'idea, ma per strada succedono delle cose strane: il vero musicista ne sa riconoscerne subito la potenza e segue la nuova strada. È anche vero, però, che nella tradizione degli standard l'ambiguità di certi temi dà la possibilità all'improvvisatore di fare propria l'opera. Non tutto deve essere rivelato, quindi, men che meno all'autore. Temi brevi e semplici, ma arrangiamenti complessi, che intrecciano contrappunto e fuga barocca, ma anche la tradizione di Ellington e Mingus, il blues sempre presente, ma anche ritmi balcanici e mediterranei, richiami alla tradizione africana ma anche a quella asiatica, citazioni e divertissment, tanta improvvisazione alla maniera etnica, ma anche be-bop e un rapper che improvvisa i testi in friulano... E poi il nostro Raff BB Lazzara, poeta beat, che dice le sue brevi sciabolate dolci e amare:
"Stanotte, nel roseto m'hai sorriso:
alzato la gonna in alto, lenta hai coperto il tuo bel viso.
Da allora, fra le spine e la luna ho avuto
il buon sangue e il Paradiso.
Iddio, col Pene Eterno nella sua Grande Mano,
ci spiava dalle nubi"
I musicisti provengono da esperienze molto diverse e storicamente contrastanti. Oggi la mia musica si muove sempre più tra realismo e babele. La cosiddetta "arte contemporanea" è entrata in un vicolo cieco, mortale, si sta esaurendo, anzi lo è già da tempo. Oggi sono più interessato a dire qualcosa, magari con altri, che a dire a tutti i costi qualcosa di nuovo: temo che chi dice qualcosa di nuovo l'abbia letto o sentito da altre parti. Sarà importante evitare sempre più gli accordi svizzeri - quelli moderati, insomma (come in politica, brutta parola...). Oggi troppa arte (sic!) parla la lingua del destinatario, l'eremita di massa, piccolo borghese e teppista, il cerchio-bottista cattivo e mediocre, uno che vive tra parentesi...
Infine, adoro il pianoforte. Il mio eroe è sempre stato Bartolomeo Cristofori, (Padova 1655 - Firenze 1732), il grande inventore: il suo martelletto ha trasformato l'uniformità dinamica del cembalo (che, come l'organo a canne, dev'essere preimpostato con dei registri) nella vastissima escursione forte - piano che il pianista ha a disposizione. Lo strumento perfetto per i romantici del XIX secolo, ma ora capace di restituirci anche la musica clavicembalistica (penso ai Virginalisti Inglesi o a Bach, per esempio...) e tanta, tanta musica contemporanea.
Molti bluesmen si accompagnavano fin dagli esordi con il piano: penso alla tecnica dello stride, dell'honckytonk, del boogie, e via via fino al grande Monk, il "Webern del Jazz". Thelonious non usava molto i pollici: in Africa molti pianisti suonano senza (o quasi) l'uso dei pollici, questo permette determinate pieghe che il suono altrimenti non prenderebbe. Alcune note corrispondono alle nostre, altre bisogna piegarle un po,' come per le blue note, qualcosa del genere... Il pianoforte ha una sterminata letteratura, ci arriva da tutte le parti del mondo, lo adoro ed è parte integrante del mio corpo, anzi: a volte è il mio corpo stesso. Lui ti sente quando lo tocchi, ti ascolta e sa valutare il tuo stato di salute mentale da come lo sfiori, dal tuo approccio. Il rame che avvolge le corde mediobasse sa anche ritrarsi quando le pizzichi da nevrotico e il legno potrebbe non rispondere adeguatamente se la sollecitazione è malata, non sincera.
In sostanza, se sei uno stronzo al massimo risponde come uno schiavo frustato e, con rancore, fa il minimo. Devi entrare in lui e viceversa: è una totale storia d'amore.
Concludendo, creo tanto perché spero che la mia musica lenisca qualche pena e magari sfiori corde anche più profonde. Eppoi non credo che un artista possa parlare della propria arte più di quanto una pianta possa discutere di orticoltura. Del resto ho sempre voluto essere un pianista e null'altro.
AAJ: Hai iniziato dicendo di essere un improvvisatore. Ma l'improvvisazione, si sa, è tante cose, spesso molto diverse tra loro. Tu che idea ne hai?
C.C.: Improvvisare non si improvvisa, è stato detto; lo trovo giusto. Altrimenti si tenderebbe ad adempiere a certi obblighi, a obbedire a luoghi comuni o ad automatismi che non hanno molto a che fare con la creatività. Gran parte dell'esperienza della cosiddetta musica improvvisata si è infatti arenata nell'accademismo di maniera, proprio quello che si voleva combattere: una sorta di mainstream, dove la grammatica viene fornita da un catalogo per forza di cose autoreferente, di possibilità tecniche offerte dallo strumento e un odio conclamato per la melodia. Così finisce che ogni pezzo è una variazione di qualcosa d'altro e tutto si assomiglia... Voglio ricordare a questo proposito il saggio di Adorno: Invecchiamento della musica contemporanea. Il jazz deve ritrovare il suo habitat, è specie selvaggia, difficilmente coltivabile. È per sua natura onnivoro, per cui ha a che fare con tutti i suoni e le culture del mondo, e ciò lo rende vivo. Al contrario quando per esempio la musica cosiddetta seria vuole usufruire del jazz la situazione si fa alquanto sciocca. Parker conosceva il lavoro di Schoenberg; per quello che se ne sa voleva anche incontrarlo, ma niente da fare: l'altro considerava il jazz una musica da ballo e basta, incapace di contenere pensiero...
AAJ: Ma, concretamente, tu oggi dirigi gruppi anche molto diversi tra loro per organico e repertorio, sempre però impegnati nella creazione di musica improvvisata: come ti predisponi a quel lavoro, cosa fai con loro?
C.C.: Mi piacciono sempre più le melodie semplici, le relazioni col basso e le voci intermedie. Penso alla grande tradizione del corale a tre o quattro o parti, al madrigale fiorito. Alla fuga: al segreto di quegli spazi silenziosi e discreti che contengono la chiave del destino umano, ma che preesistono a ogni ricordo della sua fantasia creatrice. L'arte africana è, come si può ben immaginare, varia e multiforme: ha sviluppato moltissimo la poliritmia, sacrificando la melodia e l'armonia, almeno così come ha invece preso corpo da noi in occidente e soprattutto nella tradizione europea. Il jazz mi ha permesso di poter fondere tutto questo, la vera globalizzazione, e ne sono enormemente felice. C'è un bisogno assoluto di vitalità, per sconfiggere l'anestesia totale di questi anni. La depressione rischia di annichilire il nostro povero mondo ricco, e quindi sono andato a caccia di idee nel ricco mondo povero, cioè l'Africa. Ho scoperto una musica ricca di saggezza antica, saggezza di chi ha sofferto e gioito, la saggezza che hanno il blues e tutte le musiche dei popoli millenari: nenie e danze tribali, poemi notturni e lunari e vigorose coralità solari. Blue Africa è un viaggio che ho immaginato tra temi del Botswana, Benin, Ghana, Burkina-Faso, Niger e South Africa, nella tradizione degli Zulu: luminosi fiori musicali. Ho anche molto ascoltato i lavori di Randy Weston e Abdullah Ibrahim... Ho registrato con il contrabbassista Franco Feruglio il progetto e ne sono felice: con Franco l'intesa è perfetta, vitale e creativa, sempre. Lui ha il suono profondo e lirico, quello che ci voleva, finalmente... Nel CD The Heart of the Universe dell' A.P. Trio, pubblicato dalla Caligola, sono già presenti alcuni pezzi che si ispirano alla tradizione africana. Quel CD, lavoro iniziato nel 2010, contiene la partenza di questo viaggio meraviglioso e vitale che ho intrapreso. Con rispetto e devozione, beninteso; non rubando culture d'altri, ma, in punta di piedi, cercando di arricchire la mia, apprendendo...
AAJ: Sei però attivo anche con un altro trio, Dreiländer, del quale è da poco uscito un CD...
C.C.: Con Giovanni Maier e Zlatko Kaucic abbiamo creato una situazione largamente improvvisata, retta da piccoli temi di riferimento, un po' alla Ayler. L'esito mi pare interessante, soprattutto per i modi opposti di scorrere sulle frasi e le emozioni, per opposizione, insomma, visto il carattere e le intenzioni diverse dei tre. Dreiländer è un monte composto da tre versanti: tedesco (Maier) Sloveno (Kaucic) italiota (io). Abbiamo registrato nel piccolo e delizioso teatro di San Vito al Tagliamento, aiutati in questo da Flavio Massarutto, che da anni segue le vicende del jazz e più in generale gli esiti della musica improvvisata. Il CD è pubblicato dalla Palomar Records, di cui si occupa in prima persona Giovanni.
AAJ: Una domanda finale sul blues, radice perenne della tua musica...
C.C.: Il blues è prima di tutto un modo di essere, con se stessi e verso gli altri: è solidale con ogni essere vivente, insegna il rispetto della natura e delle vite di tutti, ha in sé tutto ciò che ci serve per capire profondamente la vita e la pietas che da essa sgorga. Il nostro melanconico destino, diventa, nel blues, occasione per capire quanto ciò sia fonte di pensiero, con passione e amore per tutto ciò che ci circonda. Ci insegna a chisciottizzarci, a pensare quindi la musica come una sorta di fuoco geometrico che sa scoprire nella natura le sue equazioni nascoste. Tutto è in relazione nel grande processo universale e la natura non è un complemento oggetto da sfruttare. Le profezie le compiono i poeti, la scienza ce le può magari spiegare: cuore prima del cervello, stile e idea, immaginazione guidata dal sapere intuitivo, tra studio continuo e sperimentazioni appassionate. E tra Fiori e Libertà: come il mio nuovo P.P. Quartett, nel progetto Flores y Libertad, cioè Turchet e Colussi più Maria Vicentini al violino, dove si ripropongono alcuni bellissimi temi della resistenza spagnola al franchismo e brani miei, che a essa si ispirano.
Hasta Siempre!
Foto di Luca D'Agostino.
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