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Vicenza Jazz 2022

Vicenza Jazz 2022

Courtesy Roberto Cifarelli

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Vicenza
Varie sedi 11—22.5.2022

Le new conversations di Vicenza Jazz 2022 da un lato si sono concentrate inevitabilmente sul centenario mingusiano, dall'altro non hanno derogato dalla propria tradizione, andando a curiosare nelle espressioni jazzistiche dell'attualità, senza rinunciare a rivisitare con orgoglio la propria storia, ripresentando protagonisti già accolti con successo in tempi passati. Nel corso di questa edizione inoltre si è tornato a previlegiare, nella programmazione dei concerti, l'utilizzo del prestigioso Teatro Olimpico, dopo che dall'edizione del 2019 le condizioni imposte dalla pandemia avevano comportato una sospensione. Il mio resoconto prende in considerazione i concerti principali che si sono svolti dal 14 al 17 maggio, nella parte centrale del festival.

Fra i nomi nuovi è spiccato quello di Yaniv Taubenhouse, uno dei tanti giovani jazzisti israeliani che hanno deciso di crescere professionalmente a New York. Negli original proposti nella sua solo performance all'Olimpico, linee melodiche semplici ma evocative, via via rifinite da un tocco limpido, sono state reiterate secondo una vaga estasi ipnotica, ora serena ora un po' più mossa, donando alla sua musica un senso narrativo avvolgente. Anche in altri brani, come "I Will" di Lennon—McCartney, la sua diteggiatura pulita e perfettamente coordinata ha configurato un pianismo gentile, cullante, arioso, che probabilmente rappresenta una delle tendenze dell'attualità, ma che a conti fatti non è sorretto da una ricerca strutturale, da esigenze estetiche e comunicative particolarmente profonde e originali.

Subito dopo il trio Tapestry di un Joe Lovano più motivato e concentrato che in altre occasioni passate ha esposto un percorso narrativo ben più consistente. L'anomalo trio senza contrabbasso realizza il nuovo corso del sassofonista settantenne, intrapreso circa quattro anni fa e approdato alla ECM, che ha già edito due suoi CD. Le composizioni oblique del leader, il sound ora pieno ora vaporoso del suo tenore, il suo eloquio ebbro hanno dato corpo a un jazz fatto di progressioni liriche, di episodi poetici o mistici, di deviazioni sorprendenti e di citazioni; un jazz dalla sostanza quotidiana o trascendente al tempo stesso, a tratti dalle esplicite ascendenze coltraniane. Al fianco del sassofonista Marilyn Crispell ha dipanato un pianismo denso e appassionato, che a volte sembrava delineare una scabra deformazione delle insistenze modali di McCoy Tyner, mentre il batterista Carmen Castaldi ha somministrato un drumming continuo, leggiadro e minuto ma incalzante, senza mai eccedere. L'articolazione degli arrangiamenti e un interplay non scontato ha portato a sintetizzare una propria idea di jazz, concreta ed elegante, certo legata a una specifica tradizione, ma innervata da un'autenticità e una vitalità creativa che non è facile riscontrare in tante proposte del jazz di oggi.

Un altro protagonista del jazz contemporaneo e ospite assiduo del festival vicentino si è avvicendato sul palcoscenico del teatro palladiano la sera seguente: Bill Frisell alla testa del suo collaudatissimo trio con il contrabbassista Tony Scherr e Kenny Wollesen alla batteria. La formazione ha tracciato un compendio del proprio vasto repertorio, reinterpretando brani di Monk ed Henry Mancini, di Ron Miles e Burt Bacharach, oltre a diversi original del leader. Nel contempo questo pluriennale sodalizio ha decantato il personale approccio musicale in uno stile decisamente unico, calibrato e disteso. Il trio, come tanti altri gruppi consolidati, sembra quindi non poter evitare di replicare se stesso in ogni apparizione, anche ostentando a ragione un atteggiamento compiaciuto e rilassato, e imponendosi ormai come un classico del panorama jazzistico contemporaneo. In particolare quello che non è mai venuto meno durante tutto il percorso del concerto, conferendogli una precisa connotazione, è stato un attualizzato e squisito senso dello swing, oltre che un interplay unitario e simbiotico. Il chitarrista ha distillato le note con parsimonia, dando luogo a una vasta gamma di modulazioni e di valori timbrici; al contempo, azionando i pedali con altrettanta accortezza ha prodotto fruscianti sciami elettronici e risonanze cangianti, che potevano rievocare quelle del sitar. Scherr ha corroborato la comune visione estetica con un pizzicato sobrio, selettivo, opportunamente spaziato; il ruolo sostenuto in questo contesto da Wollesen ha giustificato invece un drumming estremamente trattenuto e delicato. Per gran parte della performance si sono susseguiti tempi lenti e toni sospesi, riflessivi, poetici; solo nei due brani conclusivi sono intervenute dinamiche relativamente più sostenute, mettendo in evidenza spunti eccentrici e fulgidi da parte del leader e del batterista.

Nel centenario della nascita di Mingus, il festival ha celebrato la ricorrenza invitando alcuni validi contrabbassisti; a tale proposito c'era attesa da parte di una folta schiera di fan per Avishai Cohen, per la prima volta a Vicenza. Sul palco del Teatro Comunale il cinquantaduenne contrabbassista e leader israeliano ha diretto il suo recente trio, completato dai giovani Elchin Shirinov e Roni Kaspi, assieme ai quali ha inciso Shifting Sands appena edito. Al vertice del triangolo Cohen ha dominato l'interplay con mano sicura, mettendo in luce anche una tecnica strumentale notevole sia nel sound che nel fraseggio. Nel suo messaggio musicale, pur includendo influenze dell'originaria cultura ebraica e medio-orientale, è prevalso un approccio jazzistico del tutto attuale, tonico e disinvolto, coinvolgente. Il pianista, pur non evidenziando una forte personalità, ha percorso la tastiera con agilità, disegnando linee melodico-ritmiche accattivanti, come richiesto dalle necessità del contesto, mentre la batterista si è fatta apprezzare soprattutto per il sound leggero, ottenendo dai piatti un pulviscolo scintillante e madreperlaceo, oltre a dimostrare una sensibilità ritmica frizzante e ben tornita.

Alla proposta fresca e di alta valenza professionale e comunicativa, anche se non troppo problematica, di Avishai Cohen, sempre al Teatro Comunale si è assistito a una più concreta densità jazzistica con una produzione originale del festival: Pithecanthropus Mingus, un inedito quintetto coordinato da David Murray comprendente per l'occasione Shabaka Hutchings. Il risultato del singolare accostamento, voluto dallo storico direttore artistico della manifestazione Riccardo Brazzale e condiviso dal leader, era tutto da verificare nei fatti. Come avrebbe risolto il sessantasettenne sassofonista americano l'omaggio a Mingus e il confronto/utilizzo del più giovane collega britannico? Semplicemente, egli ha affrontato i problemi nel modo più pragmatico possibile. Innanzi tutto il repertorio ha compreso solo due composizioni mingusiane: "Pithecanthropus Erectus" e "Sue's Changes," i cui temi, preceduti da un'aperta introduzione, sono stati esposti all'unisono con partecipata e rispettosa adesione prima di addentrarsi in una serie di assoli. Dei due brani, il secondo è stato caratterizzato da un arrangiamento più articolato e coraggioso. Tutti gli altri pezzi in programma, a firma di Murray, presentavano strutture abbastanza elementari, in cui il contributo di ognuno ha avuto modo di emergere pienamente. Quanto alla presenza di Hutchings, se qualcuno avesse atteso un'infuocata battaglia fra i due tenoristi sarebbe rimasto deluso: in nessun brano hanno imboccato il tenore insieme. Il britannico ha suonato prevalentemente il clarinetto e in un episodio un flauto di bamboo; nelle poche occasioni in cui si è dedicato al tenore, Murray ha utilizzato il clarinetto basso.

Al di là di questa analisi descrittiva, è opportuno addentrarsi ora nel contenuto musicale del concerto, la cui sostanza jazzistica si è retta su un sinergico interplay fra cinque voci fortemente personali: innanzi tutto Brad Jones e Hamid Drake, che con Murray formano l'affiatatissimo Brave New World Trio, del quale la Intakt ha appena pubblicato Seriana Promethea. La pronuncia del sassofonista è tuttora unica: la sua matrice free viene ripercorsa con un'esaltante varietà di strutture, modulazioni e sonorità. Il contrabbasso di Jones, forse poco amplificato nelle parti d'assieme, è emerso in grande evidenza in un paio di assoli, il primo dei quali nella lunga introduzione di una ballad del leader con archetto e pizzicato, mostrando reminiscenze forse più garrisoniane che mingusiane. La presenza di Drake, costante, propulsiva, multiforme sulle pelli e sui piatti, costituisce sempre una garanzia: a Vicenza in pratica il suo drumming si è dispiegato in un perenne assolo costituendo il collante dell'intero percorso, tanto da rendere ridondante e non indispensabile il canonico spazio solistico concessogli alla fine del concerto. A completare il gruppo, Aruán Ortiz al pianoforte si è confermato uno degli interpreti più rappresentativi dell'attualità jazzistica, mettendo in luce uno stile composito in cui si compenetrano reiterazioni percussive, turbinose progressioni free e lirici slanci melodici. Hutchings infine ha espresso al clarinetto una pronuncia improvvisativa essenziale e variamente modulata nei diversi brani, con un fraseggio ora puntuto, ora strozzato, ora insistito ma con accenti sempre diversificati.

A parte il concerto di apertura e quello di chiusura di questa ventiseiesima edizione del festival vicentino, che si sono tenuti all'Auditorium Fonato di Thiene, il Teatro Comunale e soprattutto il Teatro Olimpico hanno costituito i prestigiosi main stage dei concerti serali. Ma molti altri spazi, di istituzioni pubbliche o di esercizi privati, hanno accolto i concerti in vari orari durante i dodici giorni della manifestazione. Segnalo solo un paio di appuntamenti pomeridiani tenutisi durante la mia permanenza. Al Palazzo Thiene si è ascoltato il Life on Art String Quartet formato recentemente dalla contrabbassista Federica Michisanti. L'evidente impianto cameristico ha generato intenzioni, strutture e sonorità diversificate, alternando una fluida compattezza melodica, armonica e timbrica, a situazioni più corrusche e sfrangiate. Il tutto sovrastato comunque da un approccio pensoso ed austero.

Nel palladiano Palazzo Chericati, sede della Pinacoteca Civica, si è esibito il giovane quintetto Selfie Jungle. La particolarità dell'anomala formazione è quella di assemblare sonorità contrastanti: le note cristalline della chitarra di Marcello Abate, le ariose nuances di violino e violoncello, rispettivamente Federico Zaltron ed Enrico Graziani, e la pronuncia più greve e rotonda di due ottoni come il trombone e la tuba, nell'ordine Federico Pierantoni e Glauco Benedetti. Un repertorio interamente ellingtoniano, comprendente anche brani poco frequentati, è stato sottoposto ad arrangiamenti organici ed essenziali, lasciando poco spazio all'improvvisazione. Si sono succedute situazioni briosamente swinganti, cadenze regolari e marcate, andamenti più sereni con atmosfere quasi sognanti, episodi di impronta vagamente surreale...

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