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U.T. Gandhi, musicista "glocale"

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Servono poche parole per introdurre una chiacchierata con Umberto Trombetta da Osoppo, in arte U.T. Gandhi, perché - a dispetto del suo modo di essere così genuino, semplice e disponibile - si tratta di uno dei jazzisti italiani più affermati nel panorama internazionale: da oltre vent'anni anni frequente collaboratore di molti importanti musicisti italiani, negli ultimi cinque è entrato a far parte della scuderia ECM, con Manfred Eicher che sembra considerarlo una sorta di "wild card" da giocarsi nei più diversi contesti. Così, dopo il suo ingresso nel gruppo di Dino Saluzzi (per la registrazione di Juan Condori) e la collaborazione con Anja Lechner e Vassilis Tsabropoulos (nel CD Melos), recentemente ha fatto parte di un supergruppo ECM che, accanto a Dino e Felix Saluzzi, vedeva la presenza di John Surman, Anja Lechner, Ares Tavolazzi e Palle Mikkelborg.

Su questo batterista autodidatta, che ormai - in pieno stile "glocale" - fa la spola tra la sua terra d'origine e le più diverse località del globo, sempre con la sigaretta in una mano e (da buon friulano...) il bicchiere nell'altra, è recentemente uscito un libro, del quale trovate in altra pagina la recensione. Un libro che racconta la sua storia, semplice quanto il personaggio, eppure esemplare: iniziata quasi per gioco, "battezzata" da una comparsata nientemeno che con gli Area - all'epoca d'oro del gruppo - e proseguita con la serietà del lavoro e dell'umiltà, fino al successo di qualche anno fa - complice Enrico Rava e i suoi Electric Five - e di oggi.

Nella nostra conversazione abbiamo provato ad approfondire con Gandhi alcuni aspetti della sua vita, artistica e non.

All About Jazz: Iniziamo con i contrasti che si trovano, almeno apparentemente, nella musica che fai, che frequenti, che nel corso degli anni s'è ampliata e diversificata: un disco sui Weather Report, collaborazioni con Anja Lechner, con Saluzzi, con Favata, attività in Friuli con musicisti giovani, che promuovi, e meno giovani, con i quali suonavi già da ragazzo. Insomma, un'attività a trecentosessanta gradi, con una continuità e un'assiduità forse non unica, ma certo abbastanza rara e molto interessante sia dal punto di vista artistico, sia da quello umano. Come tieni assieme tutte queste differenze?

U.T. Gandhi: Io sono sempre stato vorace nella musica, ho sempre amato molte cose diverse. Considera che ho cominciato a suonare nei primi anni Settanta e in Friuli, allora, si suonava musica da ballo: non c'era altro! Se eri fortunato potevi trovare qualcuno che faceva delle cover di rock... Ma io nel 1970 avevo dieci anni e quelli che facevano rock o beat erano più grandi di me, per cui mi capitava di rado... Inoltre, amo molto anche la musica classica, che ascolto di frequente... Ho avuto il mio periodo pop....

AAJ: Però un po' è curioso che un batterista, per giunta autodidatta, sia interessato alla musica classica... Perché? E cosa ti piace di musica classica?

U.T. G.: Riguardo al perché, credo sia dovuto al fatto che il mio papà aveva molti dischi di classica, in particolare l'opera e il melodramma italiano - Puccini, Verdi, Rossini, e così via. Poi, con l'andare avanti degli anni sono diventato un po' più erudito e ho scoperto altre cose, specie del Novecento, anche se mi piacciono anche Beethoven, Mozart e altri.

Oltre questa ragione legata alla mia formazione, direi che forse si tratta di un'esigenza dovuta alla mancanza: io non ho studiato la musica, o per meglio dire non l'ho voluta studiare perché non mi piaceva farlo, mi stancava studiare solfeggio e queste cose qui. Ho però sviluppato l'istantaneità, l'orecchio, la percezione della musica in tempo reale, la memorizzazione: questo è quel che mi ha salvato fino a oggi, e spero anche che continui a farlo - perché se mi venisse un ictus e mi dimenticassi tutto non sarei più in grado di far nulla, avendo tutto qui nella testa come se fosse un hard disk... Mi ricordo anche i pezzi che ho suonato vent'anni fa, magari con una formazione con cui non ho più lavorato...

Leggo malissimo anche le partiture: ho davvero un approccio completamente istintivo con la musica! L'unica cosa su cui faccio affidamento è dunque la memoria, quasi fotografica: ascolto un pezzo una volta o due, la terza lo suono. Probabilmente ho sviluppato questa capacità per sopperire ai miei limiti. E proprio per questo la musica mi piace tutta: quando una cosa mi fa scattare, qualunque genere sia, mi attivo e la porto avanti.

AAJ: E ti trovi bene in tutti i contesti, comunque?

U.T. G.: Mi trovo bene perché mi diverto! In qualunque contesto ci metto molta passione, molta attenzione e molto entusiasmo, e mi diverto. Anche quando suono pezzi dei Cream o dei Rolling Stones: cose che, bada bene, non disdegno certo perché adesso suono con Saluzzi o con gli Area, o perché ho suonato con Rava!

AAJ: E qui emerge un secondo elemento di contrasto: nonostante la crescenta notorietà internazionale, le numerose partecipazioni a progetti targati Eicher, continui a svolgere uno straordinario lavoro sul tuo territorio, il Friuli...

U.T. G.: Certo posso dire che suonare con Rava o con Saluzzi, con la Lechner o con Tsabropoulos sia diverso che suonare con musicisti meno prestigiosi. Però devo anche aggiungere che il mio approccio alla musica non cambia: quando suono con Enrico e con Dino, con Anja e con Vassilis, è lo stesso che ho quando suono con il mio gruppo - composto tutto di giovani (e bravissimi!) musicisti friulani - o con Claudio Cojaniz, con Giovanni Maier o con Nevio Zaninotto... Ed è lo stesso con cui suono, ad esempio, nella "reunion" degli Area, nonostante l'emozione che mi provoca stare sul palco assieme a dei miei miti, con i quali feci il mio "esordio" musicale trentacinque anni fa, quando ero ragazzino e gli Area vennero a suonare dopo il terremoto facendomi fare un pezzo assieme a loro. Un evento che ha segnato la mia vita... In tutti questi contesti l'approccio è lo stesso, l'entusiasmo è lo stesso: quello che cambia, di volta in volta, è solo la direzione, che dipende dai musicisti con cui lavoro.

AAJ: Sarebbe facile, tuttavia, guardare il "grande musicista" e "gli altri" in maniera diversa...

U.T. G.: Ci sono persone che lo fanno. Io no, perché sono uno con i piedi per terra. Anzi, penso che se c'è una differenza tra me e certi altri musicisti, stia proprio nel fatto che io ho vissuto la musica in un modo diverso, totalmente lontano dalla musica accademica. Mi sono sempre proposto per fare cose, sono andate a cercarmele... Con il mio modo, che non è "normale," è un modo semplice, da persona che lavora. Anche oggi non mi sento per nulla un musicista affermato: mi sento un work in progress, uno che lavora sempre per migliorare quanto sia possibile, per fare le cose per bene. È forse per questo che non mi sono mai rifiutato di suonare con nessuno e che oggi ho un gruppo con emeriti sconosciuti friulani, che per me però è un grande gruppo, una cosa di enorme valore che, ne sono sicuro, verrà fuori. Ecco, io credo di essere una persona semplice e terra terra, e anche che questa sia la mia principale qualità.

Ovviamente, anch'io sono stato costretto a fare delle scelte, perché a un certo punto ti rendi conto che non puoi fare tutto. Però sono sempre scelte molto ponderate e fondamentalmente legate ad aspetti umani: in un gruppo devi avere delle persone sulle quali sai di poter contare, di cui ti fidi. Ovviamente, l'aspetto musicale è importante, importantissimo; ma prima di far contare l'autorevolezza del "grande musicista," nelle mie scelte faccio valere le qualità umane. Perché se ci limitiamo a suonare per un concerto o per un disco non è la stessa cosa che se c'è una relazione più profonda e che poi ti porta ad avere una fusione di idee, anche musicali.

AAJ: Il jazz è una musica che nasce su base sociale e che poggia sui rapporti umani; se tra chi suona questi rapporti ci sono o non ci sono, nel jazz si sente. Anche quando chi suona ha grandi qualità tecniche.

U.T. G.: Sì, anch'io penso che la musica sia un fenomeno sociale e che, per essere vera, abbia bisogno di reazione e relazione tanto tra chi la suona, quanto nel pubblico. Se questo non c'è, come artisti abbiamo fallito.

AAJ: Passando alla tua attività "didattica" - anche con il tuo gruppo di giovani leve - e di leader. Come vivi questo tuo ruolo e come lo interpreti?

U.T. G.: L'idea è nata tre anni fa, quando ho fondato il gruppo e gli ho dato il nome prendendolo da un brano di Rava, Fearless Five, cinque senza paura. Io ero il più vecchio in mezzo a quattro musicisti giovani - Mirko Cisilino, Filippo Orefice, Paolo Corsini e Alessandro Turchet - che negli ultimi sette-otto anni ho scoperto dalle mie parti. Sono allievi di Venier, di Cesselli, di D'Agaro, uno esce dal conservatorio, insomma sono musicisti giovani dal punto di vista anagrafico, ma non da quello musicale. In loro ho visto possibilità tali da rimettere in discussione anche me stesso, per cui ho messo in piedi un gruppo con il quale esplorare la musica che adoro di più: quella del Miles degli anni '60 - dei gruppi con Shorter e di Bitches Brew - ma anche dei Weather Report, che avevo però già affrontato con vari gruppi composti da musicisti più maturi e che poi ho registrato sul recente disco Plays Weather Report Music - 40th Anniversary. Ecco, la mia intenzione con questo gruppo era dare un mio footprint, ed è stata una scoperta incredibile, perché questi ragazzi sono andati oltre ogni mia aspettativa: musicalmente sono molto più avanti di quanto eravamo noi, musicisti della mia generazione, alla loro età. Per questo mi sono ancor più appassionato e sto cercando di sviluppare la formazione: dopo il primo CD, Travellers , a breve ne faremo un altro, ma nel frattempo abbiamo anche ampliato lo spettro sonoro, aumentando il numero dei musicisti. Da cinque siamo passati a otto, aggiungendo una chitarra elettrica, Andrea Faiutti, una percussione, Luca Grizzo, e una voce, Lorena Favot, sempre pescando tra i giovani della regione. È chiaro che, in questo modo, la cosa sta prendendo un'altra direzione, pur nascendo dalla stessa radice, tant'è che abbiamo anche cambiato il nome in Vertical Invaders.

A questo gruppo io cerco di dare quel minimo di esperienza che ho e quell'intuito che ho sviluppato, oltre un po' di visibilità utile ai ragazzi per farsi conoscere (quest'anno abbiamo avuto concerti importanti, come quello al Festival Jazz di Atina). Non mi sento e non voglio essere un talent scout, però mi sento onorato di portare un po' a giro per l'Italia questi talenti che ammiro, sperando che poi trovino le gambe per camminare da soli. È un'esigenza che sento in modo crescente, negli ultimi anni: mettere a disposizione di altre persone, visto che sono più vecchio di loro, la mia esperienza. Una cosa che, purtroppo, non molti musicisti italiani hanno saputo fare.

AAJ: Come gestisci questo lavoro?

U.T. G.: In modo molto free... Non ho mai imposto vere e proprie direzioni, ho solo richiesto alcuni indirizzi tematici, certi pezzi che - secondo me - sono adatti a questo gruppo. Il resto è tutto libero: ognuno può fare quello che vuole. Io metto piccoli "paletti" solo sui temi originali, che voglio siano eseguiti in un certo modo; poi, nelle improvvisazioni, ognuno è assolutamente libero. Non sarei neppure capace di obbligare qualcuno a suonare nel modo che preferisco! Né decidiamo in anticipo chi improvvisa: la scelta avviene sul momento, liberamente.

AAJ: Di base c'è però un affiatamento umano?

U.T. G.: C'è affiatamento umano, c'è feeling, ci sono fortissimo interesse e grande responsabilità da parte di tutti, perché tutti sono indispensabili al gruppo. Al punto che, in certi concerti, se manca un musicista non lo sostituiamo, si suona in meno. Perché secondo me ciascuno ha delle caratteristiche essenziali per il gruppo e non è sostituibile: meglio suonare senza di lui. Ad esempio, quest'estate Mirko è andato in Inghilterra per alcuni mesi e noi abbiamo suonato senza la tromba, con la voce che faceva la sua parte. Ma lo stesso vale per gli altri: tutti sono insostituibili... Forse l'unico sostituibile sono proprio io! Certo, dopo sono c... loro, si devono prendere tutte le responsabilità da soli! Ma lo potrebbero fare...

AAJ: Parlaci di uno dei tuoi "miti" e "maestri": Joe Zawinul...

U.T. G.: Che dire? È colui che mi ha cambiato la vita... perché quando l'ho scoperto ero ancora un ragazzo e, nella musica, mi muovevo ancora nei dintorni del rock anglosassone: Deep Purple, Led Zeppellin, e via dicendo. Poi mi capitò di ascoltare i Weather Report - il primo disco, allora appena uscito, fu Black Market - e, stupito, mi chiesi: "Ma cos'è questa roba qui? Da dove viene?". È stata la mia porta sul jazz, ed è ancor oggi la mia musica d'elezione.

È vero che già conoscevo gli Area, che a mio parere erano tra i pochi gruppi ad essere sulla medesima lunghezza d'onda: stessa ricerca, tra jazz e musica etnica. La World Music l'hanno inventata loro, perché fin lì c'erano forse alcuni straordinari musicisti - penso ad esempio a Hermeto Pascoal ed Egberto Gismonti - che attingevano alla musica etnica, però si limitavano alla propria, mentre i Weather Report e gli Area attingevano a realtà culturali diverse. E io gli Area li conoscevo bene, avevo anche suonato assieme a loro, sia pure per una sola sera... Ma forse proprio per questo i Weather Report mi sembrarono ancor più nuovi, diversi. Quando li vidi dal vivo la prima volta, nel 1980, ero già un esperto dei loro dischi - che allora si trovavano a fatica, tanto che per avere una copia di Live in Tokyo, stampato forse in 5.000 copie, sborsai la bellezza di 120.000 lire di allora! Beh, è vero che oggi varrà almeno 2000 euro...

AAJ: ...un buon investimento!

U.T. G.: Prima di venderlo, me lo porto nella tomba! Perché ormai per me Zawinul è un idolo, una fonte di stimoli e di ispirazione, e adesso che non c'è più lo è diventato ancora di più.

AAJ: Quando lo hai conosciuto?

U.T. G.: Come ti dicevo, la prima volta l'ho visto nell'80, quando fecero la tournée di Night Passage: un concerto strepitoso che dalle mie parti ancora ricordano in molti, una serata magica. Poi l'ho rivisto a Padova nell'84, credo l'ultima tournée che fecero i Weather Report, e poi ancora l'anno dopo a Umbria Jazz, ma i Weather non c'erano già più. L'amicizia con lui, invece, è nata e s'è consolidata negli anni '90, all'epoca degli Zawinul Syndacate. Più tardi, nel 2005, un mio amico - Alessandro Copetti - ha organizzato un concerto dalle mie parti e Zawinul ci ha invitati al Birdland, il locale che aveva aperto a Vienna. Dovevo anche suonarci con il mio gruppo sui Weather Report - quello con cui ho fatto l'ultimo mio disco - ma lui è morto e il locale ha chiuso... Comunque ho parlato proprio di recente con Erich Zawinul - il figlio, che conosco molto bene - e mi ha detto che c'è l'intenzione di riaprire un locale a nome di suo padre, che si chiamerà però "Zawinul Spirit," perché secondo lui Birdland ha portato scalogna: prima è infatti morta sua madre e dopo due mesi è morto Joe...

AAJ: Ma tu hai mai suonato con Zawinul?

U.T. G.: No, e questo è un grande rimpianto... ci sono andato vicino, molto vicino, ma... è stato un peccato: questo sogno nel cassetto non s'avvererà mai più! Però, forse è stato meglio così, perché il sentimento interiore che ho nei suoi confronti mi porta sempre a immaginare che lui ci sia, che sia con me... Insomma, fantasticherie personali... Questo è amore! Perché, ripeto, se io non avessi sentito la sua musica, forse non avrei scelto di fare il musicista di professione. Zawinul, per me, è stato fondamentale.

AAJ: Passiamo allora a uno dei "grandi" con cui, invece, hai suonato: Dino Saluzzi.

U.T. G.: Dino per me è una persona speciale, un guru, perché... come dire? È un vero indio, un "musicista dello spirito": chi suona con lui entra in un'altra sfera, in un contesto minimalista, ma fatto di attenzioni impercettibili, che nella vita normale non senti, che trascuri, e che lui invece riesce a trasmetterti con il suo straordinario modo di suonare. Ed è anche capace di farti suonare come lui, o almeno come richiede l'ingresso nella sua sfera spirituale.

AAJ: Le sue performance in solitudine sono stupefacenti...

U.T. G.: ...perché lì esprime tutto il suo profondo rispetto per la musica! Ma quello, per lui, è quasi una conseguenza del grande rispetto che ha per gli uomini, e questo lo percepisci quando ci suoni assieme. Ad esempio, Dino ha una venerazione nei miei confronti - e sì che sono arrivato dopo grandissimi musicisti, tra i quali Arto Tunçboyaciyan - solo per il modo in cui mi sono posto di fronte alla sua musica. Perché anch'io ho talmente rispetto nei suoi confronti - per lui come uomo e per la musica che fa - che prima di emettere un suono ci penso dieci volte. L'esperienza di fare prove con lui - un mese a Buenos Aires tre o quattro ore il giorno - per me è stata una scuola indescrivibile: lì mi sono reso conto di avere a che fare con un extraterrestre della musica, che sa tutto e ti fa fare quel che vuole lui. È in quei momenti che comprendi quanto siamo piccoli in confronto a questi uomini straordinari...

AAJ: Altre due collaborazioni importanti e molto particolari nel contesto della tua carriera sono quelle con Vassilis Tsabropoulos e, ancor di più, con Anja Lechner: una violoncellista classica, così diversa dalla tua esperienza di "autodidatta"...

U.T. G.: Nel gruppo di Vassilis e Anja sono entrato in punta di piedi, nella convinzione di essere un elemento aggiunto a un gruppo che già aveva un'identità. Insomma, non volevo "disturbare". E credo che il disco che abbiamo registrato assieme, Melos, risenta di questo mio atteggiamento di forte rispetto. Però poi abbiamo lavorato assieme, fatto concerti, accresciuto la nostra conoscenza, e le cose sono ovviamente cambiate: io ho cominciato a dire la mia nell'interazione e nel progetto artistico, ma anche a scambiare esperienze con loro. Con Anja, in particolare, abbiamo fatto qualche giorno di training ritmico, suonando assieme per lavorare sugli aspetti ritmici della musica. Perché lei è bravissima sul piano classico, ma a mio parere - e glielo ha detto anche Saluzzi - certe volte viene frenata dalla costruzione mentale tipica dei musicisti classici: vorrebbe fare certe cose, ma ha paura di avventurarsi senza lo spartito davanti. Io credo che Dino sia il solo capace di darle la piena serenità di improvvisare; ma anch'io, come lui, ho cercato di farle percepire come sia necessario che "getti via" lo spartito e si eserciti a lungo sugli aspetti ritmici, perché questo è il solo modo che le può permettere di sentirsi finalmente libera di improvvisare.

AAJ: Il fatto che un autodidatta come te dia lezioni a una musicista classica del suo valore testimonia una volta di più - se ce ne fosse bisogno - che anche per essere improvvisatori sono necessarie competenze, studio ed esperienza diverse da quelle tipiche del musicista classico.

U.T. G.: Certo, ma lo scambio tra esperienze e competenze diverse è molto interessante. Con Anja abbiamo infatti in corso uno scambio, reso tangibile da un regalo reciproco che ci siamo fatti: lei mi ha regalato un nay - il flauto etnico turco - e io le ho regalato un darabuk, in modo che possa studiare gli aspetti ritmici. Perché, le ho detto, tu oltre che essere uno strumento armonico potresti essere un incredibile strumento ritmico. A condizione, però, che ti svincoli dall'uso dell'archetto, che impari a usare lo strumento in un modo diverso da quello a cui sei abituata... E lo sta già facendo, si è aperta molto di più, e questo - ovviamente - grazie al fatto che ha la possibilità di suonare con musicisti come Dino o come me, che le offrono possibilità diverse da quelle a cui era abituata nell'ambito classico. La relazione e l'interrelazione, come sempre, sono fondamentali.

AAJ: Un'ultima domanda riguarda Stefano Amerio, che abbiamo intervistato di recente. Con lui hai registrato e collaborato molto, ed assieme a lui è nato il rapporto con Eicher. Ma, soprattutto, condividete la convivenza del tutto paritetica tra attività "alta," internazionale, prestigiosa, e attenzione per le cose apparentemente più minute, locali, legate al territorio in cui siete nati e vivete.

U.T. G.: Certo, ed è una cosa importantissima! Perché essere arrivati a suonare in un punto geografico del mondo di riconosciuta autorevolezza non rende un musicista "più importante": per me questo non esiste proprio! Io mi reputo sempre un artigiano della musica, come lo sono tanti altri che oggi hanno visibilità e autorevolezza - ad esempio, come D'Agaro o Zaninotto. Siamo ormai di età un po' avanzata - io ho fatto 50 anni quest'anno, Daniele ne ha due in più, Nevio uno - e credo che quel che ci spetta di fare, oggi, sia proprio questo: occuparci degli altri musicisti, del territorio che ci circonda. E per Stefano è lo stesso: con la sua etichetta sta dando una mano a giovani talenti che stanno venendo fuori, a nuove persone che hanno delle cose da dire. È una cosa importante per loro, per il territorio, ma anche per noi: è un modo per lasciare una traccia di noi stessi non solo nei libri o nei dischi, ma anche nelle persone che hanno avuto occasione di lavorare con noi e che suoneranno ancora quando noi non ci saremo più. Perché bisogna pensare anche questo: che non siamo eterni. E allora io dico che se, qualche mese fa a Udine, eravamo in tanti - musicisti, giornalisti, appassionati, semplici curiosi - a parlare di Demetrio Stratos, questo accadeva perché Stratos ha lasciato una testimonianza che vive ancora attraverso chi suona e chi canta quella musica. Ecco, come lui, noi tutti siamo di passaggio, ma abbiamo la possibilità di passare il testimone - nel mio caso, quello della musica improvvisata - e dobbiamo cominciare il prima possibile, anche molto prima di lasciarlo interamente nelle mani di altri. Perché questo testimone è fatto in primo luogo di esperienze, testimonianze, legami che possiamo e dobbiamo condividere con i più giovani. Altrimenti corriamo il rischio che poi sia troppo tardi, che vada perduta troppa roba, che non si trovi più niente.

AAJ: Anche questo lega te e Stefano Amerio?

U.T. G.: Ci lega molto, perché io conosco Stefano dal 1995 e, in questi anni, lui ha dato sempre una mano. Anzi, direi che qui ci siamo dati una mano tra tutti - anche se talvolta qualcuno si è perso, ma l'importante è sempre stato che quando ci si ritrovava si fosse veri, si fosse "sani". Ecco, tra questi "tutti" Stefano era sempre presente: è stato un grande "collante" del tessuto musicale friulano, mettendo vicini progetti, produzioni, musicisti, contribuendo in modo decisivo a dare significato alle vite artistiche - e non solo - di tanta gente. Poi è anche bravo, ha un dono di natura che gli permette di capire tutto e subito. E difatti è stato notato da grandi produttori, come Eicher, e da grandi etichette italiane ed estere. Ormai è un punto di riferimento su grande scala, ma grazie alle sue doti umane resta un grande punto di riferimento locale.

AAJ: Perché valorizza un elemento decisivo per la musica, cioè i rapporti umani?

U.T. G.: Sì, perché se nella musica non ci sono emozioni e rapporti umani, non c'è un cazzo! Perlomeno io la penso così...

Foto di Riccardo Crimi (prima, seconda, quinta e ottava) e Claudio Casanova (tutte le altre)

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