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Un'urgenza interiore: intervista ad Alessandro Lanzoni

Non ho rimpianti, per me la dedizione alla musica è frutto di una necessità, un'urgenza interiore, per cui non potevo fare altrimenti
Il suo amore per il jazz è nato in tenera età, spinto da un'attrazione naturale che oggi è per lui necessità espressiva. Con Dark Flavour il giovane pianista Alessandro Lanzoni fa un passo decisivo nel suo breve, ma già considerevole d'attenzione, percorso artistico, che lo ha visto ben figurare in diversi contesti, come nel recente Replay di Roberto Gatto. Da più parti osannato come il nuovo prodigio, Lanzoni cerca - attraverso lo studio compositivo e l'attenzione per i dettagli di esecuzione - di trovare una via espressiva personale, che in questo lavoro per Cam Jazz dà segni di piena plausibilità e coerenza.

All About Jazz Italia: Provieni da una famiglia di musicisti?

Alessandro Lanzoni: Sì, i miei genitori sono entrambi pianisti classici e insegnanti di Conservatorio e mia sorella è diplomata in violino. Nessuno di loro, però, conosceva bene il jazz, sono stato io a portare questa ventata di novità nella mia famiglia, e in seguito mi sono stati grati per avergli fatto scoprire un genere che ha sicuramente allargato gli orizzonti musicali di ciascuno.

AAJ: In che maniera hai incontrato il jazz?

A.L.: Sin da piccolo ho sempre avuto la disposizione a un rapporto creativo con la musica, mi è sempre piaciuto improvvisare, creare qualcosa di mio. Quando, all'età di circa undici anni, ho ascoltato casualmente, se non sbaglio alla radio, un brano di jazz, ho capito subito che quello era il mio linguaggio, anche perchè ho avvertito un'energia ritmica e una libertà che mi hanno subito conquistato. Da allora ho cominciato ad ascoltare jazz con passione crescente, e non mi sono più fermato.

AAJ: Nel tuo percorso di studio c'è stato anche il violoncello. Ti dedichi ancora a questo strumento?

A.L.: Mio nonno paterno, che purtroppo non ho mai conosciuto, era violoncellista, per cui c'era in casa questo strumento inutilizzato che mi incuriosiva. Ho iniziato a suonarlo e ho scoperto uno strumento affascinante, che permette un'espressività molto intensa e allo stesso tempo molto intima. L'ho studiato per alcuni anni e, pur non potendo dedicargli tempo a sufficienza, ogni tanto lo suono ancora e lo utilizzo anche in qualche concerto jazz, in particolare col quartetto di Nico Gori.

AAJ: Sei un musicista molto giovane, ma da tempo si parla bene delle tue potenzialità. Avverti il peso delle aspettative?

A.L.: Certamente, proprio perché so che molti mi apprezzano ci tengo a salvaguardare la loro stima nei miei confronti. In ogni caso è uno stimolo in più per credere in quello che faccio e impegnarmi con sempre maggiore costanza, per non deludere nessuno.

AAJ: Spesso si sente dire che oggi i giovani musicisti hanno grande tecnica, ma poca originalità. Pensi che questo in parte sia vero?

A.L.: Dipende, ci sono tantissimi casi che confermano questa regola e altri che la smentiscono totalmente. Sicuramente il fatto di essere freschi di studi conta molto e rende più forte l'idea del giovane musicista virtuoso, ma anche il fatto di avere sulle spalle anni di attività ed aver accumulato esperienze di vario genere può consentire al musicista più "anziano" di essere unico in quello che esprime. Tuttavia non è detto che sia così per tutti: con il passare degli anni si potrebbero anche perdere quella freschezza e quel senso di purezza e semplicità che contribuiscono all'originalità di un artista.

AAJ: C'è un artista, con il quale hai collaborato o studiato finora, che ti ha insegnato più degli altri?

A.L.: È difficile rispondere, perché ho avuto molti docenti a altrettante collaborazioni da cui ho imparato tantissimo. Il primo che mi viene in mente è Kenny Werner, con cui ho studiato durante il biennio di perfezionamento organizzato da Siena Jazz. Oltre a essere stato sconvolgente vederlo suonare seduto accanto a me, mi ha profondamente colpito il suo metodo di insegnamento. In particolare mi ha trasmesso un esercizio mirato all'improvvisazione che cercherò di spiegare brevemente: formare una progressione armonica a scelta di quattro battute, introdurre la prima nota di un ottavo per ogni battuta che faccia parte dell'accordo, dopodiché si uniscono le quattro note con una linea grafica, creando curve di ampiezza a scelta intorno al pentagramma e infine si scrivono le note che passano dalla linea. Questo ha notevolmente cambiato la mia visione musicale, a quei tempi molto più ortodossa.

AAJ: Da giovanissimo hai frequentato un corso alla Berklee School di Boston. Che tipo di esperienza è stata?

A.L.: Non posso dire che sia stata un'esperienza determinante perché, in seguito a una Borsa di Studio di Umbria Jazz, ho frequentato solo il corso estivo della Berklee School, quindi solo per cinque settimane e soprattutto quando avevo appena quindici anni. Però mi è sicuramente servito, oltre ad aver accumulato molto altro materiale da approfondire, ho fatto conoscenza con tanti musicisti americani che hanno rappresentato un grande stimolo per me.

AAJ: Come è nato il trio con Matteo Bortone al contrabbasso e Enrico Morello alla batteria?

A.L.: Abbiamo suonato insieme per la prima volta durante i corsi estivi di Siena Jazz nel 2011 anche se conoscevo molto bene solo Enrico, con il quale avevo collaborato più volte. È stata una semplice session tra amici, ma è risultata subito significativa: dopo aver constatato il feeling che c'era tra noi abbiamo deciso di incontrarci di nuovo per iniziare a fare qualche concerto, fino ad arrivare all'incisione di disco Dark Flavour.

AAJ: Come avete organizzato il lavoro svolto in studio?

A.L.: Abbiamo lavorato su più fronti: oltre ad aver analizzato a fondo i brani destinati al disco, abbiamo fatto varie sessioni di prova per riuscire a creare un suono di gruppo ben definito. Questo è avvenuto attraverso lo studio di alcuni parametri come il ritmo, la dinamica e la timbrica, mediante la ricerca delle varie sfumature che possono offrire. Inoltre, essendo tre cultori della tradizione, ci siamo divertiti e concentrati a suonare standard in stile, per consolidare una struttura di base. Allo stesso tempo ci siamo esercitati su episodi di improvvisazione completamente libera. Infine, nel momento dell'esecuzione dei vari brani, abbiamo cercato di staccarci il più possibile da tutti questi schemi per dare la precedenza a un dialogo tra di noi che avvenisse in tempo reale.

AAJ: Hai scelto tu questo titolo? Cosa vuole significare?

A.L.: Ho scelto il titolo Dark Flavour innanzitutto perché è il titolo di un brano inserito nel CD, che secondo me è uno dei pezzi più riusciti. In realtà quello che suggerisce questo titolo non rispecchia del tutto l'andamento dell'intero lavoro, infatti ci sono vari brani brillanti che col termine "dark" hanno poco a che vedere. Ma è un nome che corrisponde effettivamente all'atmosfera di quel brano, al quale sono particolarmente legato, perciò ho pensato che potesse comunque rappresentare l'intero album.

AAJ: In scaletta, oltre a tue composizioni ci sono tre brani di Thelonious Monk. È lui il tuo riferimento stilistico?

A.L.: Penso che Monk sia uno dei personaggi più geniali di tutta la storia del jazz. L'innovazione stilistica che ha portato non ha precedenti e le sue composizioni sono talmente moderne da essere ancora attuali. Anche se esercita una fortissima influenza su di me, non è il mio punto di riferimento, anzi faccio in modo che non lo sia. In generale mi sto impegnando per svincolarmi da tutti questi magnifici artisti che sono stati inevitabilmente dei riferimenti: il primo "modello" è stato Bill Evans, poi Keith Jarrett, dopo ancora Monk; adesso ormai sento di dover raccontare quello che ho metabolizzato e, soprattutto, esprimere me stesso.

AAJ: I brani originali nascono da una precisa urgenza espressiva, ce ne vuoi parlare?

A.L.: Non tutti i brani presenti nell'album sono stati scritti nello stesso periodo. Senza dubbio hanno in comune il fatto di essere nati da un approccio compositivo differente rispetto a i miei primi tentativi di scrittura. Mentre i brani che ho firmato nell'adolescenza nascevano un'idea motivica sviluppata che poi veniva ultimata rapidamente, di recente ho voluto approfondire di più il metodo di scrittura, magari non accontentandomi subito di quello che mi viene mente, ma considerando più strade e ritornandoci sopra con nuovi spunti, tenendo poi conto di un filo logico sempre presente, ma non necessariamente concreto ed evidente nel corso del brano.

AAJ: Avete già eseguito questi brani dal vivo. Che variazioni sono state apportate?

A.L.: Abbiamo fatto qualche piccola modifica strutturale. Per esempio aver allungato un'introduzione piuttosto che aver accorciato la griglia di improvvisazione di un pezzo, ma niente di determinante. Le vere variazioni avvengono sul momento, quando improvvisiamo e comunichiamo tra noi suonando. Certamente ogni pezzo ha un clima proprio e una certa idea di fondo che riguarda l'atmosfera generale, tuttavia siamo aperti a cambiamenti di ogni tipo, soprattutto se decidiamo di collegare più brani insieme, quindi il ponte che c'è tra essi può portare il brano che segue ad assumere un carattere diverso dall'originale.

AAJ: Un altro album in trio al quale hai preso parte è Replay con Roberto Gatto alla batteria e Gabriele Evangelista al contrabbasso. Quali sono le differenze sostanziali con questo trio?

A.L.: Roberto è un magnifico musicista al quale sono molto grato per avermi coinvolto in questo e in altri suoi progetti. La scelta di quel repertorio è caduta su brani che hanno generalmente una struttura semplice, anche armonicamente, questo per dare maggiore spazio e rendere protagonista l'improvvisazione di gruppo. In questo periodo Gatto è molto interessato all'improvvisazione libera e anche nei concerti dal vivo propone spesso brani che favoriscono tale pratica: io e Gabriele ci siamo messi volentieri a disposizione per assecondare la sua linea, con risultati sempre nuovi e interessanti.

AAJ: Il fatto di esserti dedicato con grande impegno alla musica, pensi possa aver sottratto qualcosa alla tua vita?

A.L.: Certamente sì. La vita è piena di cose belle e interessanti che meritano di essere vissute o conosciute in profondità. Tuttavia non ho rimpianti, per me la dedizione alla musica è frutto di una necessità, un'urgenza interiore, per cui non potevo fare altrimenti.

AAJ: La crisi economica globale sta togliendo molte risorse al jazz e all'arte in genere. Immagini un percorso di vita in salita o sei speranzoso?

A.L.: Non so bene cosa ci riserverà il futuro, ma bisogna essere speranzosi. Forse, proprio a causa della crisi economica, ci renderemo conto che il denaro non può e non deve essere considerato l'unico valore e la sola fonte di benessere, e magari ci dedicheremo di più a cose che possono arricchire le nostre vite in modo più profondo e meno effimero, come la musica e le arti in genere.

AAJ: Oltre alla musica di cosa ti interessi?

A.L.: Credo che ogni artista debba guardare con interesse a tutte le forme di comunicazione espressiva. Sono particolarmente affascinato da tutto ciò che è avvenuto in campo artistico nel secolo scorso, forse proprio perchè il Novecento è il secolo in cui è nato e cresciuto il jazz. Fra i vari fenomeni che hanno contraddistinto la nostra epoca più recente sono molto attratto dal cinema, anche per la molteplicità di linguaggi che vengono utilizzati e riuniti nella stessa opera: quello narrativo, quello visivo e quello musicale.

Foto di Davide Susa (la prima, la quinta e la sesta) e Valentina De Marco (la terza).

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