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Un apolide con solide radici nei boschi sloveni
By...stiamo perdendo il contatto con il nostro passato, e anche con il nostro presente e il nostro futuro. Ricordare che in passato esistevano qui persone che facevano cose importanti per il cuore e per lo spirito, è un modo per svegliare la gente.
Nei suoi oltre trent'anni di carriera ha suonato con musicisti di primissimo piano - Evan Parker, Irene Schweizer, Duško Goykovich, Tete Montoliu, Kenny Wheeler, Steve Lacy, Mike Osborne, John Lewis, Misha Mengelberg, Michael Moore, Paul Bley, Albert Mangelsdorff, Alexander Balenescu, Javier Girotto, Paul McCandless, Peter Brötzmann, Louis Sclavis - sempre all'insegna della sperimentazione, della ricerca del nuovo, dell'improvvisazione radicale.
Nella conversazione che abbiamo fatto con lui emergono le motivazioni, personali e artistiche, di questo suo coraggioso rapporto con la musica.
All About Jazz: Vorrei iniziare dal disco grazie al quale ti ho conosciuto, Zlati Coln - The Golden Boat, nel quale suonano assieme a te Steve Lacy e Paul McCandless. Un disco molto bello, complesso e articolato, con mille suggestioni diverse. Dopo averlo ascoltato chiesi informazioni su di te ad alcuni musicisti friulani, dai quali ottenni grandi elogi. Uno di essi, quando mi sentì parlare di "batterista sloveno" mi corresse, dicendo: "Slatko non è solo un batterista: è un compositore". Che tipo di musicista ritieni di essere?
Zlatko Kaucic: Io concepisco la musica "a cielo aperto". Lo scorso anno ho celebrato trent'anni di carriera, nel corso dei quali ho fatto molte cose, spesso anche assai diverse tra loro. Ad esempio, quando sono stato in Spagna - ci ho vissuto otto anni, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta - accompagnavo musicisti che passavano da un club di Valencia e lì ho suonato di tutto, dal bebop alla bossa nova, e perfino il flamenco. Questa esperienza mi ha segnato: ho capito che non si tratta né di etichettare la musica - questa è commerciale, questa è artistica... - né di rifare quel che hai imparato, ma piuttosto di raccontare più storie, quello che senti di avere di tuo.
AAJ: È un insegnamento legato alla tua esperienza in Spagna?
Z.K.: Non solo, perché la mia biografia è un po' particolare. Me ne sono andato da casa molto giovane, perché non mi trovavo bene nella mia famiglia: mio padre era poliziotto in uno Stato come la Jugoslavia del 1965, e odiava la musica... Io cercavo di risparmiare ogni soldo che potevo avere tra le mani per comprarmi batterie e percussioni da sperimentare con gruppi underground. C'erano cose che mi piacevano anche in Italia, gruppi come Le Orme o la P.F.M. Mi interessavano fin d'allora cose almeno un po' atipiche. Così, a diciassette anni ho fatto una prima esperienza in Italia con un gruppo che si chiamava Upupa e suonava un rock progressivo tra i Genesis e i Van der Graaf Generator. Poi, in seguito, sono andato due anni in Svizzera, a Zurigo, dove ho trovato dei veri amici come Irène Schweizer e Peter Frei, ma dove ho conosciuto anche i sudafricani Blue Notes - Dudu Pukwana, Harry Miler, Luis Moholo e Mongezi Feza - che fuggivano dall'apartheid. Insomma, a Zurigo da batterista di rock mi sono trovato in un mondo del tutto nuovo, con questi musicisti straordinari che facevano cose per me inedite. Il tutto, mentre per vivere lavoravo in un'impresa edile, con condizioni che ti lascio immaginare...
AAJ: Quindi, se i jazzisti afroamericani negli USA per sopravvivere erano costretti a fare i tassisti, quelli sloveni erano costretti a fare i muratori...
Z.K.: Esatto! E questo per comprarmi una batteria più adatta a suonare con musicisti che facevano free, post-Coltrane, mentre io ancora non conoscevo neppure Charlie Parker. Tra i molti ricordo un batterista, Allen Blairman, non so che fine abbia fatto ma allora suonava con Archie Shepp e Mal Waldron. Lui mi ha fatto conoscere la musica di Max Roach e Billy Higgins, per me ancora sconosciuti. Mi si aprì un nuovo mondo e non mi ci volle molto ad appassionarmene!
Nel 1975, mentre iniziavo a suonare un po' di jazz, mi capitò l'occasione di andare in Spagna. Ne fui contento, anche perché a Zurigo faceva freddissimo e trasferirmi a Barcellona era un sogno. Là trovai un'amica che lavorava in un club molto conosciuto, il Zeleste, dove venivano fatti concerti e spettacoli che andavano dai poeti catalani all'Art Ensemble of Chicago. Vi trovai un lavoro da DJ: dovevo passare musica spagnola, ma finivo per far girare anche roba molto diversa - ricordo il trio di Surman, tanta sperimentazione free...
In Spagna ho conosciuto una moltitudine di musicisti provenienti da tutte le parti del mondo, soprattutto dall'America Latina: erano gli anni degli esodi forzati dall'Argentina e dal Cile... Era appena morto Franco, il clima culturale era in fermento, la società si apriva, la gente usciva di casa, le donne iniziavano a liberarsi dalla cultura machista e il jazz era una musica molto frequentata. C'erano anche un sacco di musicisti importanti che passavano dalla Spagna e ci risiedevano per periodi più o meno lunghi: ricordo Ornette Coleman, Woody Shaw, Mike Osborne. Anche perché nei club si suonava con contratti di mesi e ai concerti c'erano anche cinquemila persone... Una rivoluzione in corso... Per un musicista curioso e che si stava costruendo un bagaglio personale, era un'esperienza fantastica. Che infatti mi è rimasta addosso per il resto della vita, perché mi ha permesso di suonare con tanta gente di cultura e sensibilità diversa.
A pensarci oggi è persino un po' triste: adesso viene il dubbio che della musica conti più chi suona sul palco che non cosa viene suonato. Conta l'immagine, non il contenuto...
Dopo l'esperienza spagnola è venuta quella olandese: dieci anni di musica di tutti i generi, dalla danza contemporanea alla bossa nova, passando per il free più spinto e radicale. Un bagaglio importante che mi sono costruito pian piano e che mi ha influenzato anche personalmente, lasciandomi aperto a tutti generi e allergico alla distinzione per etichette.
AAJ: Anche se rapidamente, direi che hai illustrato piuttosto bene quel che si cela dentro di te e che la tua musica, di volta in volta, porta alla superficie. Quand'è che hai iniziato a costruire progetti tuoi? Lo facevi già allora, o hai maturato un tuo stile e un tuo orientamento solo in seguito?
Z.K.: Mi sono sempre detto che dovevo imparare un sacco di cose, e questo ho cercato di fare sempre e dovunque: in Svizzera, in Spagna, in Olanda. Poi, nel 1991 la Slovenia si è resa indipendente dalla Jugoslavia: una rivoluzione, che mi ha fatto sentire bene e mi ha spinto a tornare. In realtà io non volevo restare, volevo andare negli USA: in quel periodo facevo musica per il teatro a Berlino e, in tournée, in molte parti d'Europa; mi interessava approfondire quest'esperienza a Los Angeles, avevo già dei contatti. Ma, quando sono tornato in Slovenia, ho rivisto la mia famiglia dopo tanto tempo, ho trovato mio padre - con il quale non andavo d'accordo - malato... E poi, la Slovenia, così bella e così cambiata, era ancora tutta da costruire: con tante possibilità, anche in campo musicale, ma pochissime cose realizzate. Così, ho deciso di fermarmi e mi è scattata l'idea di raccontare delle storie legate alla natura, alla storia e alla cultura del mio paese.
AAJ: E sono nate le tue prime registrazioni...
Z.K.: Sì, ho iniziato con Round Trip, in solo nel 1994, poi tre anni dopo Glasba za Romana, in duo con Mauro Negri, quindi nel 1998 Emotional Playgrounds con Kenny Wheeler, Trovesi, Dalla Porta e Cesselli. Ma già in questo disco c'è un coro misto - tradizione del mio paese - che canta cose della mia terra. Cose che sentivo il bisogno di esprimere, dopo esserne stato lontano per più di vent'anni.
AAJ: Così, ti sei riambientato in Slovenia.
Z.K. - Sì, anche perché avevo diversi amici musicisti italiani con i quali ho preso a collaborare. In seguito mi hanno offerto di insegnare in una scuola e ho sentito l'importanza di fare anche attività sul piano didattico. Infatti, con i ragazzi della scuola abbiamo fatto molte belle cose, anche alcuni dischi a nome del Kombo: l'ultimo, Bici, è uscito da poco e ha come ospite Javier Girotto. Anche qui, ho cercato di insegnare la varietà, la pluralità della musica: spaziamo dal rock al free, da Zappa alle avanguardie. E i ragazzi imparano in fretta e bene, siamo molto apprezzati in Slovenia.
AAJ: È interessante, perché Bici è molto diverso dai tuoi altri lavori, ma conserva in effetti un'apertura, una personalità non univoca, direi quasi qualcosa di misterioso, come avviene spesso per le tue opere.
Z.K.: Kombo è rimasto quello che era, un gruppo nato da una scuola; io non cerco nuovi elementi, perché tutti possono entrare. Basta però che abbiano voglia di lavorare, perché a livello di composizione cerco sempre di metterci qualcosa di nuovo, di atipico. Ma le mie provocazioni sembrano funzionare, perché sono musicisti giovani e adesso si informano sulla musica di tutto il mondo, dal Giappone alla Norvegia, e sui musicisti più ricchi e completi.
AAJ: Questo ti aiuta anche nella composizione?
Z.K.: Sì, perché offre anche a me ulteriori stimoli, che poi cerco di trasferire nelle composizioni assieme al mio amico Bruno Cesselli, con il quale suono anche spesso assieme. Bruno è bravissimo nel comporre e mi dà una grande mano su questo. Io seguo le cose che sento, purtroppo ascoltando poca musica: invece, ascolto la natura, gli uccelli... Prendo ispirazione da lì, poi metto giù le cose.
AAJ: Infatti, nei tuoi lavori questo si sente. Penso a Zlatni Coln, ma anche a Pav, in solo, e perfino ad alcune parti della recente trilogia del tuo trentennale. Si sente non solo perché ci sono delle eco espressive che richiamano la natura, ma anche per una cadenza, un'apertura che rimanda ad essa.
Z.K.: Però non tutto mi viene dalla natura, molto è anche cultura slovena. Ad esempio, sono influenzato fortemente dalla poesia slovena. Nel nostro paese ci sono molti poeti, come Srecko Kosovel, morto nel '26 a poco più di vent'anni e al quale ho dedicato Zlatni Coln, o Alojs Gradnik, che era nato proprio qui da queste parti, a Medana. Sono figure che si rischia di dimenticare, nonostante facciano parte della storia del nostro territorio. Le mie dediche hanno anche l'obiettivo di svegliare la gente: oggi siamo presi da cose senza significato e senza spessore, che passano in TV o per radio, mentre questa era gente che moriva di fame ma che cercava lo stesso di fare cultura ad un livello profondo. Noi stiamo perdendo il contatto con il nostro passato e, di conseguenza, anche con il nostro presente e il nostro futuro. Viviamo in un limbo culturale, dal quale è necessario uscire: ricordare che in passato esistevano qui, nei nostri villaggi, persone che facevano cose importanti per il cuore e per lo spirito, è un modo per cercare di risvegliare le persone. Anche se fare la lotta con il mercato, con l'elettronica, è molto dura...
AAJ: Dunque, è questo il senso del tuo frequente riferirti alla poesia e del tuo inserire nella musica brani tra il cantato e il recitato?
Z.K.: Sì. In questo momento sento l'esigenza di fare qualcosa in questa direzione, perché nessuno lo fa e mi sembra importante. Poi, le cose cambiano: non so cosa potrò fare in futuro, magari cose tutte diverse. Per esempio, qualcuno ha videoregistrato The Golden Boat in un concerto di tre anni fa, con Girotto che sostituiva Lacy, e lo ha messo su Internet. Si tratta di una versione in quintetto, come molti mi richiedono, ma io nell'originale ho preferito mettere dentro anche cose diverse, come i cori, che da noi hanno una grande tradizione culturale.
AAJ: The Golden Boat aveva avuto già altre due versioni.
Z.K.: La prima, con Steve Lacy, è uscita nel 2002. Mi ricordo che dovevamo riprenderla, ma Steve si ammalò e, nonostante la sua positività, la malattia lo portò via in pochi mesi. Io non volevo più riprenderla, poi decidemmo di farne una nuova versione, due anni dopo, in omaggio a Steve: accanto a Paul McCandless, al posto di Lacy, c'è Emanuele Cisi (clicca qui per leggerne la recensione). La cosa bella che mi è rimasta di Steve è il rapporto con Irene Aebi, con la quale ci sentiamo spesso.
AAJ: Avete anche fatto un disco assieme, nel 2007, Vizionarja.
Z.K.: Sì, una cosa molto commovente, perché Irene era emozionatissima. Ci tenevo, perché - come Steve e a dispetto di tanta parte della critica - io stimo molto le qualità vocali di Irene. Ho usato delle poesie di Blaga Dimitrova e musiche che Steve aveva già inciso, ho riunito diversi musicisti che avevano partecipato a The Golden Boat - quel progetto e la poesia di Srecko Kosovel ci ha uniti fortemente - e ho aggiunto dei corni francesi.
AAJ: Dei lavori del trentennale cosa ci puoi dire?
Z.K.: Sono una selezione dei concerti che ho fatto per celebrare l'anniversario, fra i quali ho scelto tre formazioni in trio, diverse ma accomunate dallo spirito di ricerca in direzioni originali. Il trio con Girotto e Maiore è registrato in un'occasione molto estemporanea, ma con Javier ho un altro trio, assieme ad Alexander Balanescu, e mi trovo straordinariamente bene. La musica è interamente improvvisata, ma anche aperta e melodica. Anche il Trio Doline, con la cantante Saadet Türköz e il contrabbasso di Giovanni Maier (altro musicista con cui mi trovo benissimo), è di musica interamente improvvisata: la stessa Saadet improvvisa vocalizzazioni. L'unica scelta con musica scritta è quella del trio con Brötzmann e il cantante dell'Opera di Lubiana Robert Vrcon. Qui ho tentato una strada ancora inesplorata: affrontare le poesie con la voce di un baritono. Le quattro poesie sono di quattro diversi poeti sloveni - Potokar, Strniša, Zajc e Kosovel - e sono molto "politiche": cantano la libertà, la ribellione, l'autonomia. Per interagire meglio con il baritono ho cercato di scrivere delle melodie, mentre Brötzmann - che conosco molto bene - ho come sempre cercato di metterlo in difficoltà inserendo pause e silenzi - che lui non vuole! - e obbligandolo a lavorare sulle composizioni. Suonando però senza prove, ma spiegandogli bene il significato delle poesie.
AAJ: Credo che la comprensione dei testi - che a me, invece, ovviamente sfuggono - cambi molto la percezione del lavoro.
Z.K.: Sì, è molto importante. Peter ha usato quattro strumenti diversi e io approcci diversi alle percussioni, proprio in funzione dei testi. Comunque, si tratta di una via nuova, che a me piace molto - anche se poi, come sai, quando nel jazz metti dentro cose strane, non tutti apprezzano... Per me resta importante che al centro ci siano l'improvvisazione e l'innovazione.
AAJ: Questa cosa mi colpisce molto: dalla tua biografia, personale ed artistica, emerge il profilo di una persona sempre alla ricerca, costantemente protesa verso la novità e l'improvvisazione; però, nelle cose che hai pubblicato è sempre presente anche un'esigenza di composizione, di scrittura, legata probabilmente - come hai detto anche tu - alla decisione a un certo punto di fermarti e "costruire" qualcosa. Come tieni assieme le due anime, quella dell'improvvisazione e della ricerca da una parte e quella della composizione e della costruzione dall'altra?
Z.K.: Molti musicisti free odiano la strutturazione, mentre altri invece la amano. Io la amo tanto quanto l'improvvisazione. Non mi piace tenere entrambi i piedi in una sola staffa: amo la struttura, ma ancora di più amo mettermi in gioco, rischiare.
AAJ: Lo si capiva dalle tue parole! Quel che mi ha colpito, infatti, è che tu abbia parlato di un concerto fatto senza prove nonostante avesse alle spalle un progetto scritto piuttosto complesso. Non è una cosa usuale.
Z.K.: Il punto è che se sento di avere un progetto strutturato da esprimere, lo faccio, lo scrivo. Ma, una volta che l'ho scritto, mi voglio ancora e di nuovo mettere in gioco. Questo mi capita spesso: anche in The Golden Boat ci sono strutture complesse, ma sono al tempo stesso molto elastiche, permettono - anzi esigono - che si improvvisi. Ma, sia chiaro, non mi proibisco neppure momenti di totale assenza di improvvisazione: ad esempio, ce n'è uno in Bici. Mi sentivo di mettere solo melodia, senza improvvisazione, e l'ho fatto. Così come amo tutta la musica, da Hendrix e Zappa fino a Schnittke e Arvo Pärt, così accetto tutto quel che viene da me stesso. L'unica condizione che metto a una nuova idea che mi si accenda è che racconti una storia; in caso contrario, non ci lavoro sopra. Però - se non sei bloccato da etichette, se sei libero - è facile che le idee che ti si accendono abbiano qualcosa da raccontare.
AAJ: Per concludere sul tuo futuro: su cosa stai lavorando?
Z.K.: Io credo di essere ancora all'inizio, di avere cioè ancora tantissimo da imparare, da migliorarmi. Questo è il motivo per cui sono così curioso, aperto e onnivoro, quello per cui sono libero dalle etichette e amo lavorare con chiunque mi dica qualcosa di nuovo, mi ponga delle sfide. Alcune delle collaborazioni che ho in corso andranno avanti ancora per un po' di tempo, perché non hanno esaurito il piacere e l'interesse verso quanto di nuovo contengono: è ad esempio il caso del Trio Doline. Altre collaborazioni, invece, stanno perfezionandosi: è il caso del trio con Balanescu e Javier, con i quali ho in piedi anche un progetto particolare, Rara Roža, appena andato in scena a Lubiana. È una suite dedicata a un critico che lavorava alla radio slovena, che ha avuto un incidente ed è morto l'anno scorso. Suona il Kombo con Javier, ma in alcuni brani suona con noi anche Alexander. Un progetto che mi affascina in sé, ma che ha anche un ulteriore valore di stimolo per i ragazzi. Poi, con Girotto e Balanescu incideremo un disco in trio.
Ho anche in progetto il mio terzo disco in solo, dopo Round Trip e Pav. Però non lo farò con la batteria - che mi sembra ormai uno strumento un po' troppo "classico" - ma con il set "a terra" che sto usando negli ultimi anni, con mille oggetti a portata di mano: è molto più creativo, mi permette di scegliere liberamente i suoni che servono. L'unico problema è lo sforzo fisico a cui mi sottopone: mi spezzo la schiena!
Ho anche altri progetti discografici: uno dovrebbe uscire in estate, con un grande musicista friulano purtroppo sottovalutato, il flautista Massimo De Mattia. Il suo quartetto è magnifico, ma lui è sempre molto creativo ed è anche una splendida persona. Un altro è un disco con Evan Parker, l'abbiamo registrato l'anno scorso al 50° anniversario del festival di Lubiana. Insomma, cose in pentola ce ne sono, nonostante che le occasioni per suonare siano sempre meno: la crisi, purtroppo, si fa sentire pesantemente.
AAJ: Lo so anche troppo bene, vedo in po' dappertutto chiudere o ridimensionarsi realtà concertistiche storiche. Anzi, conoscendo la tua musica mi chiedevo proprio dove tu riuscissi a suonare. Immagino che in Europa le cose siano messe meglio che in Italia!
Z.K.: In parte sì, e non ne capisco bene le ragioni, perché quando suono in Italia la gente viene e apprezza, e poi l'Italia ha una straordinaria schiera di musicisti di altissimo livello. Ma non si investe sulla musica, come invece avviene altrove. Ad esempio in Danimarca, dove fino a qualche anno fa non c'era alcuna tradizione - solo un paio di Maestri - e adesso, dopo investimenti e la creazione di strutture, è tutto un fiorire di giovani di grande talento.
AAJ: Probabilmente in Italia il jazz è finito nel tritacarne della cultura massmediatica: così, da un lato si è appiattito sulle proposte - anche eccellenti, sia chiaro - di una ristretta rosa di musicisti, rischiando di omologare i gusti del pubblico e, alla lunga, di annoiare; dall'altro è venuta meno la cultura della creazione e della ricerca, trasformando anche questa musica - innovativa per definizione - in un fenomeno di consumo.
Z.K.: Sono d'accordo. Ed è un peccato, perché sarebbe bello che fosse dato spazio non solo ai musicisti "bravi," ma anche a quelli che hanno una voce originale. Chi fa cose diverse ed è perciò fuori dal mercato e dalle riviste, deve avere le possibilità di farsi ascoltare. Anche questo serve a risvegliare la gente e a far ricomporre il rapporto con il presente e il futuro. Perché quel che è importante, nella musica e non solo, è la pluralità - delle voci, delle idee, delle proposte - e la libertà, anche interiore, di ascoltare, rispettare, se possibile anche apprezzare, di tutto.
Foto di Ziga Koritnik (la prima e l'ultima), Mitja Podreka (la seconda), Dario Villa (la terza, la quinta e l'ottava), Luca D'Agostino (la quarta), Iztok Zupan (la settima).
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