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Tim Berne "Science Friction"

Area Sismica - Forlì - 26.04.2008

Una chiusura coi fiocchi per la stagione 2007/2008 dell'Area Sismica. Dopo il passaggio nell'ottobre 2005 col suo progetto Hard Cell, Tim Berne è tornato questa volta coi Science Friction (tre dei cui quattro membri in realtà sono gli stessi del succitato progetto).

Se Hard Cell era una creatura puramente acustica (con Craig Taborn al pianoforte e Tom Rainey alla batteria), i Science Friction (con Taborn in questo caso al Fender Rhodes, tastiere e laptop, e con l'aggiunta di Marc Ducret alla chitarra elettrica) sono invece saturi di elettricità e tinti anche di elettronica. Come non di rado nei progetti di Berne, entrambe le formazioni sono prive di basso.

Il gruppo è apparso in piena forma, esibendo tutti i suoi marchi distintivi: temi complessi e distribuiti quasi contrappuntisticamente fra gli strumenti; spazi solistici che iniziano come improvvisazioni solitarie o collettive, e che poi si cristallizzano in ostinati ossessivi contro i quali il solista di turno scaglia il suo monologo, in un crescendo d'intensità ed energia; estrema lucidità compositiva che organizza i brani in una sorta di successione di momenti diversi, ciascuno dotato di una propria identità, atmosfera e mood, ma tutti collegati - come in dissolvenza - in una sorta di fluido continuum senza strappi.

Come di consueto, i brani sono stati molto lunghi, in media quasi mezz'ora ognuno (solo quattro brani in scaletta...). E come già accennato, è emersa in piena luce la loro natura quasi di “film sonori”, un percorso attraverso tappe, atmosfere e momenti diversi e distinti, dotati ciascuno di una propria identità - appunto come scene di film -, che vengono però legati fra di loro in modo unitario e coerente da una grandissima capacità progettuale e da una visione delle composizioni come entità complesse e di ampio respiro; così come una sapiente opera di montaggio fa di un film un'opera organica e non un semplice accostamento di scene diverse. A conferma di ciò, alcuni brani del concerto erano concepiti come suite di episodi dotati ciascuno di un proprio titolo. Inoltre anche brani preesistenti sono stati inglobati in queste suites unitarie e complesse.

Esemplare in questo senso il brano d'apertura del concerto, “Not Sure”, (una lunga suite che incorporava al suo interno, fra gli altri episodi, anche il già edito “Cause + Reflect”), una sorta di summa delle doti del gruppo in cui, con l'abilità quasi-cinematografica di cui si è detto, sono state passate in rassegna un po' tutte le risorse della loro tavolozza espressiva, dalle atmosfere più eteree, rarefatte e suggestive alle cavalcate solistiche più infuocate e concitate.

Tutti i musicisti erano in gran forma. Berne è ovviamente un'istituzione del saxofono contemporaneo, un maestro dallo stile ampiamente consolidato. Forse la qualità più affascinante del suo stile è quella vena sotterranea ma costante di calore, quel feeling sempre presente nei suoi fraseggi, anche quando sono più obliqui, complessi e intellettuali. Anche da questo punto di vista è stata paradigmatica la suite d'apertura del concerto, dove il sax manteneva, pur durante tutte le evoluzioni e le contorsioni del percorso compositivo e improvvisativo, un fondo di caldo lirismo. In certi momenti poi il fraseggio assumeva quasi un tono d'infantile gioiosità e una sfumatura vagamente beffarda, quasi una sorta di celebrazione della vitalità della musica (o della musicalità della vita).

Ducret è stato sicuramente l'alter ego solistico del leader nella serata: i suoi soli (con o senza distorsione) sono sempre iper-adrenalinici, vorticosi e taglienti. Importanti comunque anche i suoi contributi più impressionistici nel formare la tela complessiva del suono del gruppo.

Taborn è stato forse il musicista che meno è emerso in primo piano nella serata, anche se è un solista di prim'ordine e non certo da meno rispetto agli altri. Il suo ruolo nel gruppo è però soprattutto quello di creare i fondali sonori, le tonalità emotive e le atmosfere d'appoggio su cui i solisti costruiscono il loro discorso; questo grazie all'uso sapientissimo dell'elettronica e di sonorità sempre suggestive ed originali, seppur discrete, e mai scontate. Anche i suoi assoli al Fender Rhodes sono stati comunque all'insegna dell'energia e della velocità.

Tom Rainey è stato potente, impeccabile e flessibile come suo solito; quello che colpisce è forse la sua tendenza ad utilizzare costantemente l'intera gamma sonora e timbrica dello strumento. All'interno del gruppo il ruolo della batteria è sempre di comprimario, sia nell'economia delle composizioni che nelle improvvisazioni. Risultano comunque efficaci, per contrasto, anche i momenti (di solito nei passaggi fra episodi diversi all'interno dei brani) in cui essa sottolinea il cambio d'atmosfera e l'inizio di uno spazio solistico (in particolare del sax) con interventi minimali, per esempio con solo pochi colpi di ride.

Bizzarro il brano di chiusura del concerto, “False Impressions”, in cui da un'improvvisazione collettiva si sfociava in una sorta di ossessivo ritmo heavy/hip-hop (“It's a Machine's World”).

Infine, molto suggestivo ed etereo (e - contrariamente agli altri brani - anche condensato e sintetico) il pezzo a firma di Ducret, “Sighfry”, che ha fatto da bis.

Una promessa mantenuta: semplicemente un grande concerto.

Foto di Claudio Casanova

Ulteriori foto di questo concerto sono disponibili nella galleria immagini.

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