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The Good Vibes: intervista a Jason Adasiewicz
Poi, all'inizio del terzo Millennio, si è consumata la totale conversione alla musica improvvisata e al vibrafono, culminata nel disco d'esordio datato 2008: Rolldown. Un'epifania? Non esattamente. Diciamo un frutto acerbo, che però già prometteva grandi cose. L'epifania vera e propria, almeno per chi scrive, è arrivata nel 2009 con Varmint, opera-rivelazione uscita su Cuneiform, rilettura-aggiornamento della lezione del Bobby Hutcherson dei Sessanta.
Da quel momento sono piovute conferme a secchiate nei gruppi altrui: nella Exploding Star Orchestra e nel quintetto Sound Is del mentore Rob Mazurek; nella Loose Assembly di Mike Reed, nel quartetto di Nicole Mitchell e nella Index Orkest di Ken Vandermark; nel quintetto del trombettista Josh Berman e nei Lucky 7. Per convincere anche i più scettici, dopo il sorprendente Varmint, mancava soltanto la conferma in proprio. È arrivata con Sun Rooms, che di Adasiewicz è l'opera più matura e personale. Quale occasione migliore per una chiacchierata?
All About Jazz: Partiamo dagli inizi. I bravi bambini jazz di solito vogliono fare i pianisti o i sassofonisti. Come e quando hai deciso di diventare un vibrafonista?
Jason Adasiewicz: Ho iniziato come batterista rock, in contesti molto lontani dal jazz. La collezione di dischi di mio padre era in gran parte centrata sugli anni Sessanta e sui classici di quel periodo, e io mi sono subito innamorato della fisicità del ritmo. A nove anni la batteria è stata la scelta più naturale.
Il primo incontro con il vibrafono è arrivato più tardi, grazie al mio maestro di batteria. Avevo tredici anni e stavo iniziando a frequentare le scuole superiori. Fino ad allora non sapevo nemmeno che esistesse uno strumento tanto bizzarro. Tra i dischi di mio padre ne spuntò uno di Lionel Hampton che aveva un vibrafono in copertina. Mi ricordai che ce n'era uno uguale nello scantinato dove andavo a lezione di batteria. Ma non è stato il disco di Hampton e nemmeno la vista del vibrafono a far scattare la molla. Un giorno, senza che glielo chiedessi, il mio insegnante trascinò il suo vibrafono al centro della stanza e mi fece ascoltare una scala cromatica suonata a tutta velocità. Rimasi folgorato.
All About Jazz: Il jazz però è arrivato molto più tardi, negli anni trascorsi alla DePaul University. Anche se spesso hai sottolineato che l'esperienza più formativa dal punto di vista jazzistico è stata lavorare come commesso al Jazz Record Mart, uno storico negozio di dischi di Chicago.
Jason Adasiewicz: L'ho detto e lo confermo. Gran parte di quello che ti insegnano sul jazz nei college americani ha a che fare con il mainstream. La big-band della DePaul non dovrebbe suonare soltanto pezzi di Ellington o Basie. Perché non inserire nel repertorio, ad esempio, composizioni di Maria Schneider? Se fosse stato per le scuole che ho frequentato, non avrei nemmeno saputo dell'esistenza dell'AACM, che pure è nata e tutt'ora opera nella mia stessa città.
Il Jazz Record Mart è una sorta di Mecca per gli appassionati. Poco prima di iniziare a lavorarci come commesso ho conosciuto Josh Berman, e immediatamente abbiamo cominciato a sperimentare improvvisando. Poi è arrivato il clarinettista Jon Doyle, un amico di vecchia data. La band si è stabilizzata e io ho iniziato a scrivere musica. Berman e Doyle sono stati la prima ispirazione e il nucleo originario dei Rolldown.
All About Jazz: Da una parte i primi approcci al jazz, dall'altra la scena rock di Chicago, nella quale già ti muovevi dalla metà dei Novanta. Ascoltando la tua musica e il tuo modo di suonare il vibrafono, faccio fatica a non pensare a band come i Tortoise.
Jason Adasiewicz: C'è un concerto che non dimenticherò mai, una serata a Chicago in cui sullo stesso palco c'erano i Tortoise e gli Isotope 217. Credo che fosse il '98 o il '99, ora non ricordo. Avevo 22 o 23 anni. Fu una rivelazione. Quei musicisti diventarono i miei idoli e lo sono tutt'ora, con la differenza che adesso ho la fortuna di poter suonare con loro in gruppi come l'Exploding Star Orchestra o il quintetto Sound Is di Mazurek. Ho imparato tanto da loro e ancora non ho smesso di imparare.
All About Jazz: L'altro aspetto che mi affascina della tua poetica è la disinvoltura con la quale racchiude gran parte della storia del vibrafono jazz. Penso all'immancabile Hutcherson, ma anche alla generazione dei Cinquanta, Red Norvo e Victor Feldman ad esempio; oppure al tocco metallico e risonante di Walt Dickerson. Il tutto mediato da un approccio molto percussivo che è la peculiarità più evidente del tuo stile.
Jason Adasiewicz: Se devo essere sincero, non sono mai stato ossessionato dal suono o dallo stile di altri vibrafonisti. Certo, ho ascoltato i grandi che hai elencato, ma non mi sono mai messo a studiarli in modo maniacale. La mia più grande influenza sono stati i musicisti con i quali ho suonato, sono loro che hanno forgiato la mia musica e il mio sound.
Prima hai parlato di "approccio percussivo". Ecco, quello è il concetto che sta al centro del mio modo di suonare. Il vibrafono per me è una questione fisica, forse perché in fondo sento la mancanza della batteria. Non a caso quello che faccio quando suono è creare delle trame, degli schemi ritmici simili a quelli che crea un batterista. Poi mi piace anche far sentire la mia voce, emergere come fa un sassofonista durante un assolo. Di solito i vibrafonisti, anche quelli che hai citato, sono interessati soprattutto, se non soltanto, a quest'ultimo aspetto.
All About Jazz: Alla testa del quintetto Rolldown hai inciso due dischi. Il secondo, Varmint, è stata una delle più belle sorprese degli ultimi anni, soprattutto per la freschezza delle idee e per la capacità di reinventare una lezione ingombrante, a volte persino paralizzante, come quella di Bobby Hutcherson.
Jason Adasiewicz: I gruppi nei quali Bobby ha suonato negli anni Sessanta sono il riferimento più ovvio per la musica dei Rolldown. E sono d'accordo con te quando usi il termine "lezione". Ascoltare la musica di Hutcherson mi ha insegnato molto, e mi ha aiutato a trovare la mia voce, a scoprire il mio suono, inventare un linguaggio tutto mio.
I Rolldown sono nati nel 2004. In quel periodo vivevo a Madison, nel Wisconsin, con mia moglie. Lei stava finendo il dottorato in chimica. Ovviamente mi tenevo in esercizio con il vibrafono e scrivevo molta musica, ma non avevo una band. Andarmene da Chicago mi aveva costretto ad abbandonare i gruppi nei quali suonavo. Però, proprio mentre stavo a Madison, ho sentito che dovevo riallacciare i rapporti con gli amici che avevo appena salutato e con loro formare una nuova band. Così ho iniziato a fare il pendolare una volta alla settimana, mettendo a punto il progetto Rolldown, che è definitivamente decollato quando sono tornato in città.
All About Jazz: Ho letto nelle note di copertina di Varmint che durante i mesi che hai trascorso a Madison passavi il tempo studiando le sonate di Bach e coltivando verdure. Una combinazione di interessi piuttosto singolare.
Jason Adasiewicz: Nei due anni e mezzo che ho trascorso nel Wisconsin ho lavorato in una fattoria biologica. Quando sono arrivato a Madison le uniche cose che sapevo fare erano il barista e il commesso, i tipici lavori che trovi soltanto se hai un gancio. Un bel problema visto che a Madison non conoscevo nessuno. Poi un giorno ho saputo che una fattoria stava cercando un bracciante e ho deciso di buttarmi. È stata un'esperienza fantastica. Che tra l'altro, per la prima e credo unica volta nella mia vita, mi ha permesso di fare gli stessi orari di mia moglie. Mi sa che fino a quando saremo sulla settantina non accadrà mai più. Di giorno lavoravo e la sera mi dedicavo allo studio delle sonate e partite per violino di Bach. Lo studio di Bach, tra le altre cose, mi ha aiutato a sviluppare l'arte della memoria musicale.
All About Jazz: Con il recente Sun Rooms sei passato alla formula del trio, che è piuttosto inusuale per il jazz moderno. Come è nato il disco?
Jason Adasiewicz: Fino a Sun Rooms avevo sempre scritto composizioni in cui la linea melodica la esponevano i fiati. Forse perché guardavo i miei gruppi con gli occhi del batterista, e dunque mi sentivo molto più a mio agio in un ruolo di supporto. L'idea di guidare un vibrafono-trio mi spaventava.
Poi, improvvisamente, le cose sono cambiate. Credo che sia avvenuto durante una serie di concerti con Josh Berman, Jeff Parker, Jason Ajemian e John Herndon. Una sera Josh e Jeff diedero buca a causa di impegni che si sovrapponevano, il che costrinse Jason, John e il sottoscritto a esibirsi in trio. Ricordo che Jeff arrivò in tempo per il secondo set, ma decise di sedersi tra il pubblico e limitarsi ad ascoltare. Quella sera iniziai a pensare che l'idea del trio non fosse poi così spaventosa.
Da allora ho scritto musica lavorando sul concetto di "swing". Nel periodo in cui è stato concepito Sun Rooms stavo suonando molto sia con Mike Reed che con Nate McBride: con Mike nella sua Loose Assembly, con Nate nei Wheelhouse, un trio con Dave Rempis al contralto. In entrambe le band il concetto base è quello della libera improvvisazione. Nel trio che avevo in testa volevo invece che Nate e Mike si concentrassero sullo "swing". Ovviamente alla loro maniera, con quella carica aggressiva e corrosiva che adoro. Sun Rooms è una formazione in cui la componente percussiva e ritmica è molto forte. E credo che anche in futuro continuerò a lavorare per approfondire questo aspetto della musica che facciamo.
All About Jazz: Se ho ben capito, le composizioni in scaletta le hai scritte per il trio; il che, immagino, ti ha portato a rivedere il tuo modo di comporre.
Jason Adasiewicz: Tutti i brani che ci sono nel disco sono stati scritti soltanto per il trio, partendo dal vibrafono e non dal pianoforte come facevo in passato. Negli ultimi due anni ho suonato il pianoforte molto poco.
Anche le nuove composizioni che sto scrivendo per Sun Rooms nascono al vibrafono. Mi metto lì e improvviso. Di solito le idee mi vengono così. Divagando mi capita di imbattermi in una melodia, uno schema ritmico, una sequenza armonica. Allora mi fermo e prendo un appunto. Il giorno dopo ricomincio a improvvisare ma stavolta partendo dalle idee che ho messo su carta il giorno prima. Poco alla volta l'improvvisazione si cristallizza in un brano, le strutture emergono e l'armonia viene definita. A volte basta qualche giorno, a volte mi serve un mese per arrivare al risultato finale. Sono un compositore dannatamente lento.
All About Jazz: Accanto agli originali, in Sun Rooms hai scelto di inserire "Warm Valley" di Duke Ellington e "Overtones of China" di Sun Ra. In Varmint c'era invece "The Griots" di Andrew Hill. C'è qualcosa di particolare che ti lega a questi brani o a questi artisti?
Jason Adasiewicz: Ciascuno dei brani che hai citato ha un suo perché. "Warm Valley" è stata un'idea di Nate. È un pezzo al quale è particolarmente affezionato e che ha suonato spesso in trio con Pandelis Karayorgis e Curt Newton, nel periodo in cui viveva a Boston. "Overtones of China" è stata invece una trovata sia di Nate che di Mike. Ricordo che durante una serata in trio stavamo suonando "El Is the Sound of Joy" di Sun Ra, un brano che è anche nel repertorio dei People, Places & Things di Mike. Durante la pausa tra un set e l'altro iniziarono a canticchiarmi "Overtones of China". La linea di basso mi si stampò in testa e dopo il secondo set continuammo a canticchiarla per tutta la serata. Il giorno dopo, a casa, mi misi al vibrafono e iniziai a studiarla. Per quel che riguarda "The Griots" di Andrew Hill, ho sempre adorato la sua semplicità folk. La melodia e gli accordi sono molto riconoscibili. Quel pezzo funziona come una specie di promemoria, mi ricorda che per fare buon jazz non è necessario essere complicati.
All About Jazz: Il ventaglio delle tue collaborazioni è cresciuto notevolmente negli ultimi due-tre anni, ma il rapporto che ti lega a Rob Mazurek occupa sempre una posizione centrale. Dal 2005 fai parte dell'Exploding Star Orchestra, che non ha mai suonato in Italia, mentre con il quintetto Sound Is, che dell'orchestra rappresenta il nucleo e il motore, ti sei esibito anche da queste parti. A Padova, per esempio, in una serata entusiasmante e allo stesso tempo drammatica, almeno per il malcapitato vibrafono.
Jason Adasiewicz: Padova! Città fantastica e cibo fantastico! Ma non so se e quando mi sarà concesso di tornarci. La mia tecnica giudicata troppo aggressiva fece infuriare il proprietario del vibrafono seduto in platea durante il concerto. Era talmente arrabbiato che piombò sul palco fiancheggiato dal padre per accusarmi di aver rotto il suo prezioso strumento e per insultare il mio modo di suonare. Dovrà passarne di acqua sotto i ponti prima che possa rimettere piede in quella città.
Scherzi a parte, con Rob ho suonato parecchio negli ultimi tre anni. Sono cresciuto molto stando al suo fianco. La visione musicale che è nata con l'Exploding Star è confluita in una serie di altri progetti. Come il quintetto Sound Is, che, come hai giustamente sottolineato, dell'Orchestra è il motore e il nucleo. Credo però che questa visione non fosse ancora completamente realizzata fino alla recente nascita del trio Starlicker, che vede Rob alla tromba, John Herndon alla batteria e il sottoscritto al vibrafono. A breve la Delmark pubblicherà il disco d'esordio della nuova formazione. Il gruppo, per come la vedo io, è una sorta di riduzione ai minimi termini dell'Exploding Star.
All About Jazz: Grazie a Mazurek, all'AACM, a Vandermark e a una nuova generazione di talenti, la scena di Chicago è una delle più vitali nel panorama del jazz contemporaneo. Credi che abbia ancora senso parlare di "Chicago sound"?
Jason Adasiewicz: E come potrebbe non esistere un "Chicago sound"? Quando mi esibisco all'estero sono onorato di essere un messaggero. Sul palco porto il mio sound e il sound della città dalla quale provengo. In questo momento Chicago ha un sacco di cose da dire, e sono felice che ci sia tanta gente disposta ad ascoltare.
All About Jazz: Soprattutto in Europa. Ma cosa rappresenta oggi il Vecchio Continente per un giovane musicista americano?
Jason Adasiewicz: Potrei parlarti delle persone meravigliose che ho incontrato in Europa, dei magnifici concerti, della cultura, dei tantissimi musicisti che ho conosciuto, molti dei quali sono poi venuti a Chicago a esibirsi. Però credo che la differenza sostanziale tra le due sponde dell'Atlantico sia di ordine pratico: negli Stati Uniti è diventato impossibile allestire un tour senza rimetterci dei soldi, in Europa si può ancora viaggiare e suonare a certe condizioni.
All About Jazz: Nelle scorse settimane sei tornato in Italia per un mini-tour con il nuovo progetto di Stefano Bollani su Frank Zappa, Sheik Yer Zappa. Raccontaci qualcosa di questa esperienza.
Jason Adasiewicz: È stato fantastico suonare con Stefano, Larry Grenadier, Jim Black e Josh Roseman. Stefano ha voluto una band composta da cinque improvvisatori molto diversi tra loro per formazione e gusto. Le composizioni di Zappa sono state trattate come dei canovacci. I passaggi da un pezzo all'altro erano aperti all'improvvisazione, e spesso sfociavano in un duo o un trio, per poi tornare agli accordi, alla melodia e al ritmo dei brani di Zappa. L'idea di Stefano non era quella di una band tributo.
Abbiamo suonato molti dei pezzi che ascoltavo ossessivamente quando avevo 17 anni. Abbiamo pescato da Grand Wazoo, Hot Rats, Apostrohe. A quei tempi nella band di Zappa c'era Ruth Underwood al vibrafono, c'erano i fratelli Fowler e Chester Thompson. Da giovane andavo pazzo per Ruth. In un primo momento Stefano voleva mettere in scaletta anche "St. Alfonzo's Pancake Breakfast," un brano che sta su Apostrohe nel quale Ruth suona delle linee pazzesche. Alla fine non l'abbiamo portata sul palco, ma prima di tornare a Chicago ho avuto modo di studiarla e di accorgermi che fino ad allora non avevo mai lavorato seriamente su un brano di Zappa o sul modo di suonare di Ruth. Strano per uno che a 17 anni ascoltava Zappa dalla mattina alla sera.
All About Jazz: Che dice il futuro?
Jason Adasiewicz: Entro l'estate vorrei finire il nuovo disco dei Sun Rooms. Ultimamente sono sempre più affascinato dall'analogico. Credo che per registrare il trio userò un due tracce da mezzo pollice. Sono molto soddisfatto dei nuovi brani. Non scrivevo musica da un anno e mezzo, ovvero dalla nascita di mia figlia Isabella. Il primo Sun Rooms è stato pensato e scritto mentre mia moglie era incinta.
All About Jazz: Un sogno da realizzare?
Jason Adasiewicz: Esibirmi un giorno con mia figlia.
Foto di Claudio Casanova (la prima, la seconda, la quinta, la sesta, la settima) e Luciano Rossetti (l'ottava)
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