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The Angelic(a) Conversation: a lezione dal professor Braxton
My music is not jazz. I call it creative.
Non gli avremmo creduto a priori - basandoci unicamente su quelle complesse architetture sonore cui dopo quarant’anni ancora non riusciamo ad abituarci - figuriamoci sentirselo dire a conclusione di una full immersion di un’ora e mezza nei maestosi territori del suo pensiero musicale, in occasione dell’incontro col pubblico organizzato da Angelica al Museo della Musica di Bologna la mattina seguente al concerto in duo con Richard Teitelbaum (per leggerne la recensione clicca qui).
Procede spedito, il professor Braxton, seguendo il filo lucente e contorto del desiderio. Perché è evidente quanto ci tenga a condividere le proprie idee con la nutrita schiera di ascoltatori presentatisi alla sua ‘lezione’: troppo e troppo a lungo queste idee sono rimaste sepolte, inascoltate se non ostacolate; un vero delitto, se si pensa a quanto illuminanti possano essere non solo in merito alla produzione di uno dei più grandi creative musicians del nostro secolo, ma anche e soprattutto a proposito del contesto da cui muove la sua ricerca.
Lucidità e genio debordante si rincorrono contendendosi le redini del flusso di coscienza, che intreccia biografia, filosofia, politica e scienza in una maniera indisgiungibile, prova delle profondità di un pensiero realmente olisitco.
Illustrando i concetti con esempi tratti dalla propria sterminata discografia, Braxton inizia il pubblico alle sue complesse geometrie musicali, aprendo un timido spiraglio su quel Mistero che ad un ascolto immediato può essere soltanto intuito.
Si avvicendano così i ricordi, le sensazioni, le gioie e i fallimenti; ma soprattutto si allenta e si comprende un poco il rigore di quel sistema musicale esoterico che continua a rigenerarsi, offrendoci infinite nuove suggestioni.
E se è vero che dopo dieci anni può definirsi conclusa la lunga fase della Ghost Trance Music, Braxton anticipa già i contorni muta(n)ti della sua attuale ricerca: la Falling River Music - un’astrazione da informazioni visive, qualcosa di simile al tradurre un dipinto in suoni - e la Diamond Curtain Wall Music, in cui ha un ruolo preponderante l’elettronica interattiva.
Braxton non ci dà il tempo di assimilare una lezione che già corre avanti a prepararne un’altra.
Sono cresciuto nell’intorno spazio-temporale degli anni ’50 e ’60, gli anni in cui si poteva vivere a stretto contatto con il lavoro di Charlie Parker, di John Coltrane, di Luciano Berio, di Karlheinz Stockhausen: per me si è trattato di un’incredibile opportunità, perché è stato in quegli anni che sono giunto alla consapevolezza che la musica sarebbe divenuta la massima occupazione della mia vita.
Dopo la morte di Albert Ayler e di John Coltrane mi sono trovato ad un punto della mia vita in cui mi sono chiesto quale strada fosse possibile intraprendere, e scoprii che per quanto mi riguardava non ero interessato alla serialità e che per quanto amassi la tradizione della musica ad armonia verticale lo scenario che si delineava a metà degli anni sessanta offriva la possibilità di costruire un nuovo modello musicale che incorporasse un più ampio spettro di informazioni, provenienti da una prospettiva trans-idiomatica piuttosto che da una tradizione unidimensionale discendente esclusivamente dal jazz o dalla musica classica.
In quegli anni cresceva la consapevolezza dell’universalità e della connessione tra gli esseri umani a livello globale. Tale consapevolezza e l’uso del termine ‘universalità’, tuttavia, non hanno nulla a che vedere con quanto si intende oggi in riferimento ai passati venti-trent’anni col termine ‘globalizzazione’.
Globalizzazione esprime la complessità raggiunta dagli attuali sistemi multinazionali in termini di dinamiche di mutamento che, per quanto ho imparato negli ultimi vent’anni sulla globalizzazione corporativa, non posso certo sostenere. Ciò di cui acquisivamo consapevolezza negli anni ’60, invece, era la connessione universale esistente tra tutti gli esseri umani del pianeta.
A metà degli anni sessanta quindi la domanda cui dovevo trovare risposta era ‘come procedere?’. Erano anni in cui la discussione verteva soprattutto sul concetto di libertà, sul rapporto tra politica e improvvisazione: gli anni in cui entrai a fare parte dell’Association for the Advancement of the Creative Musicians (AACM), quando imparai che il virtuosismo non è tutto, perché a volte la cosa giusta è semplicemente divertirsi a mescolare i suoni e vedere cosa succede. Prima di comprendere di aver individuato le componenti fondamentali del mio sistema musicale mi sono concentrato seriamente sulla sfida rappresentata dall’improvvisazione in solo.
Ricordo che il mio primo concerto in solo ebbe luogo al Lincoln Center di Chicago: fu orribile. E fu orribile perché al tempo pensavo che disporre della massima libertà significasse suonare qualsiasi cosa mi venisse in mente. Scoprii ben presto che questa libertà esistenziale non era ciò cui aspiravo.
Dopo quell’esperienza compresi che il solo di modo di procedere era innestare nell’improvvisazione solistica elementi sintattici. Fu quello il momento in cui cominciò a delinearsi il mio personale progetto musicale, che prese a svilupparsi dalle componenti genetiche del mio lavoro sull’improvvisazione solistica: come Mozart, Bach e Monteverdi volevo che la mia musica progredisse dall’improvisazione per farsi pagina scritta e di lì evolvere nuovamente in forme differenti.
La decisione di costruire un mio personale sistema compositivo difatti non rappresenta una reazione di rabbia o disprezzo nei confronti della tradizione. Al contrario, il mio sistema si pone come una costante affermazione della tradizione.
Quelli cui stiamo andando incontro sono tempi estremamente eccitanti, soprattutto per un artista. Ci stiamo muovendo verso esperienze verticali che accolgono e integrano informazioni extramusicali, quali i media elettronici e video.
Nei periodi di grande emergenza e difficoltà, anche sul piano della politica internazionale, l’arte subisce invariabilmente un’incredibile accelerazione predisponendo le persone ad una maggiore apertura e creatività. E questo è quello che sto cercando di fare: trovare nuove modalità di creare forme musicali in grado di garantire esperienze rigeneranti a coloro che si pongono sulla medesima lunghezza d’onda.
Nel mio sistema musicale - al quale ora mi riferisco col termine di Tri-centric musics (o Tri-centric Dot Unit Offering) - tento di riconfigurare le componenti della scienza musicale per creare una mia personale sintassi.
La Tri-centric music si fonda su di una struttura tripartita, i cui elementi si combinano fra loro seguendo progressioni che seguono il 3 - o ancora meglio 3 al cubo - come numero primario: la casa del cerchio fa riferimento a logiche mutevoli, esperienza immediatamente vissuta e improvvisazione; la casa del rettangolo fa riferimento a idee specifiche, dinamiche strutturali e identità compositiva architettonica; la casa del triangolo fa riferimento a trasposizione, dimensione simbolica e dimensione ritualistico-cerimoniale.
A partire da questa struttura di base è possibile ritornare alla musica in solo e comprenderne meglio la natura, che è possibile rappresentare mediante l’iscrizione del rettangolo all’interno del cerchio. La composizione di musica in solo si delinea così come prassi linguistica, come fondamentale vocabolario musicale, come combinazione di elementi per generare sintassi differenti assimilabile all’abilità di parlare differenti linguaggi naturali. Possiamo definirla nei termini di una geometria sonora.
Per fare un esempio, la Composition 138A (NDR: incisa nell’album New Albion del 1989 19 (Solo) Compositions, 1988) si basa sulla logica del legato combinata con elementi motivici, variazioni di registro e specifici approfondimenti di parti selezionate della struttura.
Naturalmente sarebbe di enorme importanza entrare nei dettagli delle componenti emozionali di una simile composizione, ma data la natura della nostra conversazione, che si misura nell’arco di un paio d’ore, qui conviene limitarsi agli aspetti meccanici, meno interessanti ma più rapidi da discutere.
La mia non è una mera piattaforma scientifica. Il mio obiettivo è la musica prima ancora del suo sistema, perché il sistema deve essere equivalente ad essa non il contrario. Non vorrei dare l’impressione di considerare il sistema come originario della musica: il sistema viene solo dopo!
Per tornare allora alla meccanica musicale, la Composition 118F invece (NDR: sempre contenuta nel disco già citato) innesta su un tempo medio la logica ronzante di un altro tipo di linguaggio, quello che si sviluppa a partire dai suoni multifonici, una delle innovazioni musicali più interessanti degli ultimi decenni.
Ciò che viene sviluppato in una simile improvvisazione solistica nella casa del cerchio, può costituire la base di un brano scritto che nella casa del rettangolo vede la stratificazione dei suoni - i cluster - svilupparsi non più sul singolo strumento ma disporsi sulla strumentazione di un piccolo organico, per poi legarsi ad elementi emotivi e divenire nella casa del triangolo elemento che contraddistingue un determinato tratto poetico.
Questo è il modo in cui cerco di sviluppare il mio sistema musicale.
All’interno di questo sistema musicale lineare esistono tre modi di trattare una composizione: come identità originaria (che corrisponde al sistema compositivo tradizionale per cui si compongono parti diverse per i diversi strumenti), come struttura secondaria (per cui ad esempio la parte di sax della Composition 134 può essere estratta e riarragiangiata per essere suonata da dieci flauti o da qualsiasi altra combinazione di strumenti), e infine come identità genetica (che comporta l’eventualità di prelevare una o più battute da una composizione per introdurle e suonarle in un’altra composizione che magari originariamente prevede altri linguaggi e un’altra strumentazione).
In questo modo il mio sistema compositivo, per quanto apparentemente organizzato sulla base di rigide segmentazioni, rimane costantemente aperto in maniera mai preordinata perché attraverso questa logica genetica le composizioni possono essere smontate e ricombinate per dar vita a soluzioni sempre diverse, intrecciando il noto, l’ignoto e l’intuitivo.
Un ultimo esempio in riferimento alla casa del triangolo e in particolare alla Ghost Trance Music, un nuovo livello del mio sistema compositivo che si può far risalire all’incirca al 1995, quando ho iniziato a perseguire nel mio lavoro una sorta di geometria sonora elementare, un nuovo modello di scrittura che si sviluppa in maniera solistica, cercando di muoversi verso nuovi scenari dell’immaginazione, di sviluppare un sistema formale che permetta di tracciare determinate traiettorie nello spazio.
La Ghost Trance Music è basata su una logica di stasi continua che mira a generare una musica che non ha un reale punto d’inizio né una precisa conclusione; semplicemente perdura. Da un punto di vista formale è possibile intendere la Ghost Trance Music nei termini propri della musica dei nativi americani, in cui si hanno strutture statiche e infinitamente identiche all’interno delle quali si possono inserire, annidate a diversi livelli, altre composizioni in una complessa stratificazione in cui i vari livelli e le varie composizioni sono organizzate in maniera gerarchica al di sopra della ghost trance line di base.
Con la Ghost Trance Music sono ora in grado di generare nuovi ambienti immaginari e poetici.
Al momento il corpus del mio lavoro ha raggiunto all’incirca le quattrocento composizioni e la realizzazione finale del sistema compositivo che sto cercando di costruire è l’esecuzione contemporanea di tutti i brani che ho composto, al di fuori di una scansione temporale, semplicemente come un’esplosione cosmica che si propaga nello spazio.
In un simile contesto l’ascoltatore si troverebbe in una specie di casa degli specchi in cui il medesimo impianto genetico, che governa il continuum che va dalla singola composizione fino all’intero sistema, funziona da guida attraverso i suoni, allo stesso modo in cui il faro guida le imbarcazioni col suo fascio di luce.
E l’ascoltatore sarebbe in qualche modo coinvolto nell’esperienza complessiva, non essendoci più distinzione tra i musicisti su un palco e il pubblico seduto in sala. Questa è una delle sfide cui ci pone innanzi l’immensa potenzialità del terzo millennio.
La conoscenza di questo sistema non è fondamentale a meno che non si sia un musicista o un compositore interessato alla meccanica musicale. In fin dei conti, al di là di tutta questa discussione su forme, meccanismi e materiali la questione fondamentale è: la musica che sto ascoltando è interessante? Questo è il problema fondamentale della musica post-weberniana, condita con estenuanti note del compositore che vorrebbero spiegare le idee complesse che stanno dietro a una musica che poi suona miseramente.
Per quanto mi riguarda la musica conta più del sistema su cui essa si basa. La mia speranza è che la mia musica riesca a lottare da sola per la propria esistenza.
Foto di Claudio Casanova
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