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Swing Bop & Free. Il jazz degli anni '60 di Roberto Polillo
di Roberto Polillo (foto) e Arrigo Polillo (testi)
Polillo Editore, 303 pagine, 55 euro
C'è una scena del film di Marco Bellocchio Il regista di matrimoni che svela un postulato importante per le vicende dell'arte visuale. In una delle prime sequenze un cameraman segue due sposi, tenta di staccare gli odori della Sicilia e il sapore del mare. Si accorge, subito dopo, che nella stessa spiaggia c'è un regista ben più noto. Con un bel po' di umiltà e vergogna, va da questo e gli chiede dove lui avrebbe posizionato la telecamera. L'occhio, lo sguardo. E' una questione di immagini. C'è un altro occhio che sta guardando, magari è migliore del suo. Magari è soltanto diverso. L'importante è capire da dove mostrare il mondo, da dove ricrearlo, a proprio piacimento.
In fondo è una questione di immagini anche la musica, la rappresentazione dell'essere presente. Quando un musicista improvvisa, sta raccontando una storia, sta invocando un senso altro e esortando l'immaginazione, la sua ma anche quella degli ascoltatori.
Sembra realizzato su questa pratica il bel libro fotografico "Swing Bop & Free. Il jazz degli anni '60" (Polillo Editore, 303 pagine, 55 euro), foto di Roberto Polillo e testi del padre Arrigo, pace all'anima sua, uno dei più importanti personaggi di sempre per la diffusione della musica jazz in Italia. E' una lezione di cinema anche questa: e pensare che le fotografie in sé non possiedono quella carica narrativa, però legate una ad una raccontano una storia, svelano un fantastico decennio, quello degli anni Sessanta, in cui i musicisti da tutto il mondo iniziavano a sbarcare in Italia (soprattutto grazie ad Arrigo Polillo) e la gente imparava ad apprezzare questa musica che veniva da lontano, ma che richiamava alla mente anche certi aspetti della contemporaneità. L'intensa attività concertistica di oggi era ancora un miraggio.
Strana storia, quella di Roberto Polillo. Aveva soltanto sedici anni quando il padre gli regalò la prima macchina fotografica e da lì iniziò a seguire Arrigo che, allora capo redattore della rivista Musica Jazz (poi l'avrebbe diretta per anni e anni), si occupava in prima persona di invitare musicisti, gli capitava persino di andarne ad accogliere qualcuno all'aeroporto, organizzava diversi importanti festival jazz, uno molto rilevante a Sanremo in coppia con Pino Maffei. Per dieci anni Roberto si era trovato catapultato in un mondo di neri e bianchi degli Stati Uniti e del nord Europa, cosciente, almeno parzialmente agli esordi, di poter rappresentare quel mondo. E di raccontarlo.
Un dualismo nelle sue foto, così come nella sua estetica: è puntiglioso testimone del mondo reale; però elabora e sviluppa questa realtà che lievita così tanto da diventare un film, una storia. E Polillo un regista. Fin quando a metà degli anni Settanta decide di abbandonare la fotografia, si dedica all'informatica, così accuratamente da divenire professore presso il Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Comunicazione dell'Università degli Studi di Milano Bicocca. Allora via la fotografia, per lui, ma non per tutti gli altri. Queste foto fanno parte dell'immaginario di molti cultori, esperti e semplici appassionati. In primo luogo apparvero con puntualità nella rubrica tenuta nella terza di copertina di "Musica Jazz", la celebre Galleria di Musica Jazz, in vita dal 1960 al 1981.
E poi perché sono in esposizione permanente nei locali della Fondazione Siena Jazz che gestisce anche il Centro Nazionale Studi sul Jazz Arrigo Polillo, grazie al quale Roberto ha rimesso mano ai suoi ritratti. Infine alcune di queste fotografie sono le fotografie: le prime che vengono in mente a molti pensando a quei musicisti specifici e le ultime ad andar via.
Il contenuto, il libro. Il periodo è ormai chiaro, si racconta la distesa di tempo trascorsa tra il 1962 e il 1974. Nessun musicista italiano, "Purtroppo, la mia documentazione sul jazz italiano è piuttosto lacunosa e non ho voluto far torto a nessuno", scrive Polillo jr. nell'introduzione. Ci sono i ritratti di tutti i più grandi, niente ordine cronologico, il libro è diviso in sezioni tematiche per strumento di appartenenza, dai sassofoni alla tromba, dal pianoforte alla batteria, la voce, anche i direttori d'orchestra, e così via. A tutto ciò si legano dei testi del padre come didascalie approfondite, insieme a citazioni da opere di critici importanti e stralci di interviste ai musicisti. Chiude una porzione scritta: il saggio sul free jazz di Arrigo Polillo pubblicato nel testo Jazz (Mondadori). Il titolo, infine, parla chiaro. Nessuna costrizione di genere e stile, tutto è buono, o meglio tutto era buono in quel decennio.
Ha iniziato a fotografare nel 1962, in occasione della VII edizione del festival di Sanremo jazz in primavera, aveva meno di sedici anni, tuttavia il battesimo di fuoco sarebbe sopraggiunto da lì a qualche mese, in occasione del concerto del quartetto italiano di John Coltrane con McCoy Tyner, Jimmy Garrison ed Elvin Jones al teatro dell'Arte di Milano, correva il freddo mese di dicembre. "Ricordo ancora distintamente, a distanza di quasi mezzo secolo, l'impressione fortissima di quel concerto - ancora dalle note dell'introduzione -, la musica e l'uomo Coltrane che, a due metri dalla mia macchina fotografica, in smoking, urlava col suo strumento grondando rivoli di sudore, totalmente assorto in una rappresentazione quasi mistica, quale mai si era vista nel jazz". Almeno fino ad allora, poi si osservò Ornette Coleman esteta della rivoluzione, il visionario Eric Dolphy, e così via fino a tanti altri e allora si capì ancor di più Coltrane e il suo ascetismo silenzioso e turbato.
Certo, Roberto giovane fotografo aveva delle vie di accesso privilegiate, prova ne sono i ritratti altrimenti ineseguibili di Roy Eldridge, di John Surman, Cannonball Adderley, tanti altri e uno in particolare: Carmell Jones sdraiato su una panchina, tromba in mano. Polillo però è riuscito ad andare oltre i confini del ritratto fotografico, delle pose e delle situazioni dal vivo. Ha colto lo sguardo nello sguardo, gli intrighi, la sofferenza di lotte razziali, l'emancipazione, la gioia, la sofferenza.
Tutte le sfumature del mondo jazz. In effetti a guardare bene quella doppia pagina in cui sono affiancati Coleman e Dolphy si scova un altro significato. Le due immagini non si somigliano tanto perché ambedue i protagonisti portano un dito vicino alla bocca, segno di timidezza, distrazione, umanità… quanto perché nello sguardo di ognuno di loro c'è una nuance di attività umana e intellettuale. Nasconde mistero nel volto del primo e paura in quello del secondo. E andando avanti, quello sguardo, in altre mille gradazioni, lo si ritrova in Phil Woods, Don Moye, Keith Jarrett, Don Cherry, Milton Jackson, Art Farmer, Bill Evans. Ecco, il pianista possedeva un'espressione che nascondeva un'esaurimento nervoso appena passato e una vivacità irrefrenabile: c'era in quegli occhi dilaniati il desiderio di libertà, la ricerca spasmodica della bellezza, il sogno dell'autenticità nei sentimenti
Ma il film... qual è la sua trama? Anche questa corre su un doppio binario. Da un lato l'aspetto sociale e politico, dall'altro quello prettamente musicale. Negli anni Sessanta l'America nera viveva una stagione fulgida e difficile. In musica Miles Davis, Coltrane e Bill Evans avevano sdoganato il modale, il primo poi si diresse verso le derive elettriche. Trane e tutti i suoi seguaci tirarono fuori il free jazz, allora gli Stati Uniti tremarono. La musica era un veicolo di lotta, divenne un sostegno per le classi meno ricche e, al contempo, metafora di avanguardia. Ma c'era anche tanto altro: John Lewis e il Modern Jazz Quartet, Lennie Tristano, qualche grande orchestra, qualche splendida interprete femminile. Anche in Europa, specie al nord stava accadendo qualcosa. Tutto un mondo. E in quegli sguardi c' è tutto questo.
C'è soprattutto un aspetto determinante in queste foto di Polillo: sono realistiche, almeno quanto sognate. E' una questione di immagini e sguardi. Anche la fotografia, a suo modo, può raccontare un gran bel film.
Foto di Roberto Polillo
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