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Robin D.G. Kelley: Thelonious Monk. Storia di un genio americano

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Robin D.G. Kelley

Thelonious Monk. Storia di un genio americano

traduzione di Marco Bertoli

Edizioni Minimum Fax

Sono diversi i modi in cui una vita può essere raccontata. A volte, essa risulta da una sorta di narrazione collettiva, serbata in altre vite e perciò espressa "con altra voce". Perciò il lavoro del biografo non è soltanto quello di una rigorosa documentazione, ma in fondo consiste anche nell'ascolto di quella. E se si tratta di ricostruire la vita di un musicista, questa intenzione d'ascolto è maggiormente importante e cruciale. Poiché di questo si tratta in queste pagine, cioè della vita di uno dei musicisti più influenti del Novecento, Thelonious Sphere Monk. Se volessimo scendere un po' più a fondo in questa prospettiva, si tratta di una biografia e di un'autobiografia al tempo stesso. In che modo due generi diversi possano incrociarsi per dare vita ad un racconto coerente sarà necessario spiegare un po' più nel dettaglio, anche perché bisogna confrontarsi con alcuni paradossi, e non di minore importanza. Potremmo per prima cosa dire che la biografia più essenziale di Monk sia nella sua musica, e perciò non nelle parole, ma proprio nei suoi brani, nelle sue idee compositive ed esecutive, nel suo confronto con i maestri e con i contemporanei, e fondamentalmente nell'ascolto completo ed accurato delle sue registrazioni disponibili. Si scrive la vita, insomma, ma non la musica (non sempre, almeno).

Quando la narrazione è affidata alla musica, prevale l'oralità, e perciò vi è poca manipolazione; in questo caso si lavora piuttosto sulla cornice e sull'inquadramento storico, visto che a volte ci si deve basare sui soli ricordi, ed è difficile, se non impossibile, recuperare tutti i documenti, eccetera. Ma in questa circostanza è la scrittura che deve farsi carico completo di tutte queste sfumature, e deve essere sempre presente a se stessa, cioè stabilire un confine netto fra informazione e agiografia, elemento che di solito contraddistingue le biografie e la loro attendibilità. Chiaramente l'entusiasmo deve essere sorvegliato affinché non dilaghi in un ritratto poco attendibile, essendo il principale ostacolo, se così fosse, alla riuscita dell'intera operazione.

La vera biografia, ed autobiografia, naturalmente, è tutta nella musica. Ma è davvero così? Questa affermazione non è una messa in crisi del progetto, quanto piuttosto il presupposto necessario cui bisogna guardare con attenzione perché decide della delicata operazione di scavo e di collocazione dei documenti complessivi.

Altro paradosso: se di questo si tratta, allora la biografia dovrebbe tenere conto degli ascoltatori? Dei mezzi tecnologici, degli eventi che caratterizzano dal punto di vista performativo l'arte di un musicista? Incrociare testimonianze di amici, studiosi, tecnici, fan? Ad ognuno di essi corrisponde un certo livello di autenticità e di completezza, fermo restando il problema del "patto autobiografico": la ricostruzione di una vita diviene la costruzione di un vissuto che proprio in questo scarto fra "vita" e "vissuto" gioca la partita cruciale della veridicità e della plausibilità dei fatti che viene presentando. La biografia di un musicista, insomma, è anche la storia dell'ostilità e del plauso coi quali la sua opera è stata accolta e giudicata. E il tutto dovrebbe essere costituito insieme nel "ritratto" che qui, come appare, è invece un polittico, necessario all'attendibilità e alla profonda sensibilità e scrupolo coi quali l'opera viene presentata.

Kelley è un analista documentato e con un talento per la scrittura vero e quasi mai sopra le righe, cioè sempre attento a non sostituire la propria cura e amore per la vicenda al posto del protagonista che rimane sempre lì, nel cerchio dello spot verosimilmente intento a quello che per lui contava sopra ogni cosa: la musica e i suoi affetti. Questo racconto si dipana lungo 29 capitoli (cui seguono un Postludio, i ringraziamenti, due Appendici: una tecnica sulla musica di Monk e un'altra, preziosa, sulle registrazioni su vinile e bobina appartenenti a Thelonious); le composizioni originali, la discografia e la filmografia di e su Monk. Come si vede da questa succinta epitome, una biografia che si pone come pietra miliare nella storia del musicista e di un modo di raccontare e descrivere attraverso la musica la storia di un paese intero.

La vita di Thelonious è eccezionale. Ciò che affascina maggiormente in queste pagine è proprio la sua normalità, il suo essere ricostruita quasi quotidianamente e da punti di vista diversi. È sempre stato caratteristico del processo mitologizzante descrivere una vita per i suoi aspetti eccentrici, le bizzarrie, le scompostezze, perché in qualche modo si voleva implicitamente segnalare nella grandezza quegli elementi che rendono, almeno negli eccessi, più realistica una figura altrimenti e completamente carismatica. Non che tutto questo non abbia un ruolo, e immagino che le bizzarrie possano essere riconoscibili in qualsiasi carattere umano, non solo nel profilo di un artista fondamentale. Quello che invece colpisce di questa attenta ricostruzione è la normalità che Monk riserva alla propria vita intima e familiare, beninteso nonostante i disagi e le preoccupazioni che l'hanno certamente contraddistinta. Con una strategia romanzesca, Kelley comincia questa storia "da lontano," dagli antenati di Monk, poverissimi schiavi affrancati dalla guerra civile e con un destino di libertà difficile e impensato da gestire, da tradurre in vita vera. Un'osservazione di Nat Hentoff viene meritatamente segnalata da Kelley: "Monk [...] è diventato una specie di personaggio da fumetto stereotipato per i notisti di colore dei supplementi domenicali a cui tocca scrivere qualche pezzo esotico sul jazz. Foto di Monk in occhiali scuri o con il pizzetto venivano di solito corredate dalla didascalia "Monk il Matto" oppure "il Gran Sacerdote del Bop". Il "materiale" di quegli articoli erano i resoconti esagerati delle vicende della sua vita. Non si tentava mai di discutere la natura o la serietà dei suoi intenti musicali." (p. 13).

Da qui un po' parte tutto, e sarebbe facilmente deducibile da queste poche frasi un vero e proprio sistema di delegittimazione della musica attraverso il ricorso all'esotismo, al fumetto, alla didascalia calcolatamente e falsamente celebrativa (nei casi migliori). Invece, bisogna centrare il discorso sulla musica, e per questo l'apparente paradosso segnalato in apertura fra "biografia" e "autobiografia" perde il suo carattere contraddittorio: perché principalmente, ogni biografia deve essere necessariamente tale, prima di potersi svincolare dalla sovrapposizione fra "autore" e "personaggio" proprio a vantaggio del primo. Il personaggio è sempre manipolabile, ed è così in tutte le biografie su cui si fonda nella nostra cultura questo genere letterario (da Agostino a Rousseau, per citare i principali modelli di riferimento). Parlando di "patto autobiografico" s'intendeva dire questo in prima istanza e, in secondo luogo, fissare con una determinata certezza l'orizzonte in cui questa manipolazione viene a collocarsi, cioè dal punto di vista della sua ricezione. L'immagine che ci si fa di qualcuno, l'immagine musicale poi in questo caso, corrisponde o diverge da quanto si legge? Per noi, e prima di tutto, Monk è la sua musica, il suo lavoro, la sua sensibilità e la sua tecnica compositiva ed esecutiva. In secondo luogo, Monk dovrebbe essere quello che invece Hentoff temeva che Thelonious fosse ormai diventato per tutti: uno stereotipo, di volta in volta colorato delle varie aggettivazioni sempre collocabili nella dimensione della stranezza, dell'imprevedibilità, del naïf. Ma è questa, ripeto, la più pericolosa delegittimazione, quella che retroattivamente si proietta sulla musica, che rimane sempre la cosa più importante di tutte.

Esiste perciò un pudore nella scrittura di Kelley, il pudore di non voler dar adito a questo campionario di imprecisioni di incrostarsi ulteriormente sulla figura di Monk, ed anzi vi è un processo direi quasi "illuminista" di eliminare attraverso i documenti autentici quelli meno certi, delegittimandoli non per partito preso ma attraverso l'indagine e la solidità dell'impianto dell'inchiesta. Questo pudore è anche in sostanza il segno della sua accattivante presa sul lettore che non si rende conto (positivamente) che quanto sta leggendo è in realtà un capitolo corposo e insostituibile del romanzo dell'America del Novecento, cioè di quel romanzo collettivo fatto dai narratori, dagli artisti e dagli intellettuali d'oltreoceano: a un dipresso, ciò che già Pavese, molti anni fa, chiamava giustamente il "rinascimento americano," iniziato da Emerson e Whitman e via via sviluppato fino ad oggi da De Lillo e Paul Auster per quanto riguarda la letteratura, ma corrispettivo alla straordinaria storia della musica popolare americana, soprattutto di quella di matrice africana. Che sia questo il vero "genius loci" che contraddistingue gli States?

Si tratta della biografia di una nazione, non di un solo uomo. La storia di un cammino molto lungo e importante che parte dalle piantagioni del North Carolina, attraversa il contemporaneo "Rinascimento di Harlem" e poi diventa la storia del grande jazz nella sua versione più raffinata ed eccezionale: Monk è, a ragione, uno dei maestri indiscussi del jazz. Raccontare questa vita serve anche a rimettere in discussione il discorso sul jazz come patrimonio certo della cultura americana, quando invece sappiamo bene quanto sia stata combattuta questa storia, quanto si sia negato per molto tempo un valore estetico e culturale a questo genere musicale (e, prima ancora, al blues suo antenato). Credo che ci siano stati pochi musicisti bluesy come Monk (basterebbe riascoltare la sua memorabile lettura di Duke Ellington), dunque profondamente legati alla radice più solidarmente culturale ed ispirata del jazz.

Questa è anche la storia del genio americano, di una particolare declinazione che l'America ha sempre perpetuato della propria vocazione artistica dapprima nella letteratura e in seguito negli altri campi dove l'eminenza della mentalità americana ha lasciato il proprio segno importante e durevole. Se è vero che esiste una "cadenza jazz" della cultura americana, come segnalava qualche tempo fa l'interessante lavoro a più voci curato da Robert G. O'Meally (che per inciso vorrei segnalare all'attenzione dei lettori per l'ampiezza e la profondità del progetto interpretativo: The Jazz Cadence of American Culture, Columbia University Press, New York 1998), allora Monk di questa tipica cadenza americana ne ha declinato un personalissimo e ineguagliabile aspetto. Come Miles, o Bird, o Trane -le cui storie egli stesso ha incrociato e determinato, in modo diverso ma sempre significativo: "Monk mi ha insegnato più di chiunque altro -sostiene Davis-, quando ero là. È lui ad avermi mostrato tutto" (p. 155). Il suo metodo era teso alla dimostrazione: "Not ideas, but in things," direbbe un poeta come William Carlos Williams; un'idea precisamente in voga tanto nella poesia quanto nella musica.

Le Edizioni Minimum Fax hanno già dedicato a Monk un libro sorprendente e accattivante quello di Laurent de Wilde, Thelonious Monk Himself (traduzione di Michele Mannucci, prefazione di Enrico Pieranunzi, Roma, 1999) dove si "ascoltano" (è il caso di dirlo) in modo limpido l'ammirazione e la straordinarietà che chiunque si avvicini a questo artista prova e riconosce nei suoi confronti.

L'edizione italiana del volume di Kelley segue di poco quella originale americana (The Life and the Times of an American Original, Free Press, a Division of Simon & Schuster, 2009) ed ha conosciuto un'ottima accoglienza in patria con segnalazioni e riconoscimenti sia della stampa specializzata quanto del pubblico più ampio. Kelly peraltro è considerato, nonostante la sua relativa giovane età (classe 1962), come il più autorevole storico della cultura popolare nera oggi in attività. Segno ulteriore, questa urgenza traduttiva, dell'importanza della ricerca che avrà un suo ruolo determinante nelle future incursioni nel mondo di Thelonious.

La traduzione, ma questo è un dato costante della Minimum Fax, è accurata ed attenta alle inflessioni narrative e stilistiche dell'originale, senza perdere mai il contatto con la dimensione argomentativa e il fitto rimando documentale che corrobora anche lo spazio dell'invenzione necessario alla scrittura per guadagnare in respiro e chiarezza. Un auspicio ulteriore da parte di chi scrive è che si parli di questo libro e soprattutto si affermi la possibilità di considerarlo un modello, prestigioso e autorevole, di una "lettura ben fatta," rappresentando al meglio in significato di un'esperienza e di un modo di essere dell'artista nella nostra epoca quanto mai povera e bisognosa di modelli coraggiosi di pensiero e di critica che rendono ancora più interessante e significativa la capacità di studio, ricerca e passione che animano questo volume.

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