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MetJazz 2023

MetJazz 2023

Courtesy Marco Benvenuti

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Metastasio Jazz 2023
Prato
Vari luoghi
11.2—11.3.2023

Dedicato all'intreccio tra tradizione e innovazione che da sempre caratterizza jazz e musica improvvisata, MetJazz 2023 s'è aperto il pomeriggio di sabato 11 febbraio, alla scuola di musica Giuseppe Verdi di Prato, con uno degli appuntamenti off, ovvero con una conferenza del direttore artistico Stefano Zenni che, con la competenza e la chiarezza che gli sono abituali, ha illustrato alcuni dei molti modi in cui quell'intreccio si è manifestato nella storia del jazz. L'apertura in musica è avvenuta invece lunedì 13, al teatro Fabbricone, con un doppio concerto nel quale al Mirco Rubegni 5tet ha fatto seguito il progetto Inner Core di Gaia Mattiuzzi.

Il trombettista toscano ha presentato My Louis, il suo originale omaggio a Louis Armstrong per realizzare il quale ha assemblato un organico abbastanza particolare: la chitarra di Gabrio Baldacci, la tuba di Glauco Benedetti a sostituire il contrabbasso e Federico Scettri alla batteria affiancato da Simone Padovani alle percussioni. Il leader, oltre alla tromba, operava anche all'elettronica. Il concerto ha ben illustrato il tema conduttore del festival, perché la musica e le specificità stilistiche di Armstrong venivano decisamente trasfigurati, con arrangiamenti che ora sfioravano il funky, ora erano screziati di elettronica, ora venivano attraversati da ritmi caraibici. Un approccio inizialmente spiazzante, ma che—messe da parte le aspettative evocate dall'omaggiato—ha mostrato una proposta assai personale, nella quale la tradizione forniva uno spunto quasi più ideale che concreto da cui partire per giungere a fare una musica decisamente contemporanea.

Molto diverso, ma ancora una volta un esempio tangibile di come la tradizione e l'innovazione siano intrecciate, quanto proposto dalla Mattiuzzi, alla testa di un quintetto completato da Alessandro Lanzoni al pianoforte, Alfonso Santimone alle tastiere e all'elettronica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria. Qui le composizioni erano quasi tutte originali e la cantante vi interpretava testi in larga parte tratti da poesie di James Joyce, ora cantando, ora vocalizzando, ma sempre usando la voce come uno strumento. Elementi fondamentali del concerto sono stati da un lato il raffinato ed equilibratissimo contrasto tra il lavoro acustico svolto da Lanzoni al pianoforte e quello elettronico di Santimone a tastiere e programming, dall'altro il protagonismo di Evangelista, che ha duettato con la Mattiuzzi e condotto in solo vari passaggi. Non trascurabile il difficile ruolo di Morello, che assieme alla stessa cantante fungeva anche da filo conduttore, cucendo i numerosi cambi di scena che caratterizzavano un po' tutti i brani. Il programma riprendeva quello del recente disco Inner Core (Aut Records), per la prima volta portato in scena e che anche dal vivo ha funzionato benissimo, nonostante l'assenza di alcuni dei protagonisti della registrazione.

Dopo il concerto di Dario Cecchini, la mattina di domenica 19 al Centro Pecci, che presentava il suo progetto per solo baritono Echoes, recentemente pubblicato dalla Caligola Records (di questo appuntamento purtroppo non possiamo dar conto) e una seconda conferenza di Zenni, dedicata all'avanguardia tedesca degli anni Settanta, il festival è approdato al teatro Metastasio per un altro doppio concerto, una coppia di duetti: quelli di Emanuele Parrini con Tiziano Tononi e di Fabrizio Puglisi con Gunter Baby Sommer.

Parrini e Tononi si conoscono e collaborano attivamente in vari contesti da vent'anni e recentemente hanno deciso di realizzare assieme l'album The Many Moods of Interaction, sul programma del quale si basava il loro concerto. In buona sostanza, un dialogo completamene acustico tra il violino e la batteria, poggiante su una serie di brani dell'uno o dell'altro e su molta improvvisazione. Il tutto all'insegna di importanti valori della musica che i due hanno sempre rimarcato, come quelli sociali e politici presenti in due composizioni di Tononi, "Peaceful Warrior" e "The Water Protectors," o quelli umani presenti nelle dediche dei brani. Un concerto raccolto, ma anche pieno di scarti e invenzioni, dai suoni bellissimi ed evocativi, in continuo e imprevedibile divenire, ben aldilà dei riferimenti a epoche e stili che fanno parte della cultura artistica dei due musicisti—la New Thing, il free, le avanguardie della black music degli anni Settanta—le cui eco erano ben percepibili nel vivo tessuto prodotto sul palcoscenico.

Il secondo set della serata avrebbe originariamente dovuto ospitare un solo del sassofonista tedesco Peter Brötzmann, icona dell'improvvisazione europea, il quale la settimana precedente ha purtroppo accusato problemi di salute che, vista l'età, l'hanno costretto a cancellare tutta una serie di impegni che aveva in programma. Al suo posto —ma, come ha giustamente sottolineato in apertura Stefano Zenni, sarebbe assai ingiusto e riduttivo parlare di "sostituzione"—l'organizzazione è riuscita in fretta e furia a ottenere la presenza del duo che Puglisi ha da qualche anno con un frequente collaboratore di Brötzmann e altro protagonista del medesimo movimento artistico, appunto Günter "Baby" Sommer (clicca qui per leggere la recensione del loro album Elements). Poco più giovane del sassofonista e fortunatamente in piena salute—è giunto a Prato viaggiando da solo in auto da Lipsia... —il batterista è stato protagonista, assieme al pianista italiano di un concerto che ha ben rappresentato lo spirito e le modalità artistiche di quella corrente. Musica del tutto imprevedibile, uso esteso degli strumenti—piano preparato in tempo reale, oggetti non solo musicali sparsi sul palco, batteria percossa con oggetti e modalità singolari, interventi di Sommer con un corno d'osso suonato dentro la cassa del piano, e molto altro—e tanta scenografica ironia. Per citare i momenti più sorprendenti, si può ricordare la recintazione del palco con nastro adesivo fatta da Puglisi, il lungo suonare una pallina su un tamburo a cornice, seduto a terra, da parte del tedesco, la surreale gag dei due silenziosamente nascosti sotto il pianoforte, intenti ad applicarvi accessori. Tutto questo senza che la musica ne fosse in alcun modo penalizzata, anzi, facendo sì in tal modo che le note—ispirate a ora Monk, ora a composizioni originali, ora invece pienamente improvvisate—risuonassero ancor più profondamente negli ascoltatori. Quando l'innovazione della tradizione si è fatta a sua volta tradizione e opera per innovare se stessa.

Il successivo lunedì 6 marzo, stavolta al Fabbricone, erano in scena due progetti piuttosto diversi tra loro. Ha aperto il quintetto di Leonardo Radicchi, che divide il suo impegno come artista a quello di cooperatore internazionale con Emergency e che, proprio per questo, a causa della pandemia ha negli ultimi anni dovuto privilegiare il suo secondo ruolo. Giusto perciò offrirgli la possibilità di presentare dal vivo il suo più recente progetto non ancora documentato su disco, il Creative Music Front. Capitanato dal sassofonista umbro, il quintetto era completato da Ruggero Fornari alla chitarra, Pietro Paris al contrabbasso e Lorenzo Bassignani alla batteria, con l'importante presenza di Nazareno Caputo al vibrafono. Qui la tradizione presa a riferimento era quella che, negli anni Settanta e Ottanta, univa i canti di liberazione e le musiche popolari del mondo con l'avanguardia del jazz, come esemplarmente faceva la Liberation Music Orchestra. Il tenore di Radicchi vi ha svolto il ruolo di narratore, con toni intensi e forti punte espressive, quasi mai spinte in direzioni estreme; ampi gli spazi aperti per la chitarra, mentre la ritmica vi ha svolto un ruolo fondamentalmente di supporto. Rilevante il ruolo di Caputo, ora a screziare in contrappunto le prolusioni del tenore, ora libero di improvvisare scenari evocativi. Una musica suggestiva e accattivante, ricca di dediche a coloro che, nel mondo, oggi vivono in situazioni di sofferenza—su tutte quelle ai migranti e a chi si impegna per il loro salvataggio, proprio in quei giorni di scottante attualità.

Nel secondo concerto —quello del trio Anhoki, capitanato da Cristiano Calcagnile (clicca qui per leggere la recensione del recente disco Inversi) —il riferimento alla tradizione era invece più latente e sfumato: musiche originali, strutturalmente complesse e cangianti, ricche di improvvisazione, perciò largamente imprevedibili. Di fatto, tuttavia, si era di fronte a un classico piano trio, le cui composizioni prendevano idealmente spunto da un leggendario e misconosciuto pianista, Hasaan Ibn Ali, con esiti tuttavia assolutamente originali, freschi e coinvolgenti. A giudizio (del tutto personale, ovviamente) di chi scrive, si è forse trattato del concerto più bello di una rassegna comunque tutta di altissimo livello: la pariteticità dei ruoli —con il pianoforte di Giorgio Pacorig e il contrabbasso di Gabriele Evangelista a raccogliere il testimone di conduttore del processo musicale, oltre che sempre pronti a esprimersi magnificamente sui rispettivi strumenti —, la costante varietà ritmica e dinamica, la perfezione delle forme che emergeva dal solo apparentemente caotico procedere delle trame, non hanno lasciato un solo momento di pausa, coinvolgendo gli ascoltatori all'interno della musica. A dispetto delle scuse in cui si è profuso Calcagnile, presentatosi sul palco suo malgrado febbricitante. Se il disco ci aveva convinti, l'esibizione dal vivo è riuscita nel difficile intento di andare ancora oltre.

Il festival si è concluso il successivo lunedì 11 marzo, al Teatro Metastasio, con l'appuntamento forse più prestigioso: uno dei sue soli concerti italiani della chitarrista statunitense Mary Halvorson con il quartetto d'archi Mivos, con cui ha realizzato il recente e pluripremiato album Belladonna. In questo caso la tradizione con cui confrontarsi era quella cameristica contemporanea, a cui appartiene il quartetto, che la chitarrista ha rivisitato e stravolto ora utilizzando in modo atipico gli archi —ampi momenti in solo pizzicato dei violini, celle minimaliste della viola, passaggi in crescendo dinamico del violoncello —, ora invece entrando nelle composizioni scritte per gli archi con i suoi tipici arpeggi elaborati e modulati. Musica molto raffinata, per larghi tratti forse un po' fredda (è, a parere di chi scrive, il tratto caratteristico e forse il limite stilistico della Halvorson), ma comunque sempre interessante. Arricchita da un alcune "dissonanze" inserite nel programma: il lungo pezzo eseguito dal solo quartetto d'archi, estremamente diverso da quelli in cui era presente la chitarra; il bis in solitudine della chitarrista, ancor più diverso dal resto del concerto; l'improvvisazione collettiva proposta come ulteriore bis, a grande richiesta, risultato forse il momento più "frizzante" della serata. Aldilà delle preferenze di gusto, un concerto interessantissimo, che ha concluso una rassegna perfettamente riuscita mostrando bene dove sta andando una musica che del rapporto tra innovazione e tradizione ha il suo costante centro di gravità.

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