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Nicola Gaeta: Una preghiera tra due bicchieri di gin. Il jazz italiano si racconta

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Nicola Gaeta

Una preghiera tra due bicchieri di gin. Il jazz italiano si racconta

Prefazione di F. Bianchi, Introduzione di E. Mansueto

Caratterimobili, Bari, 2011, pp. 415 (euro 20,00)

Nicola Gaeta ha l'imprudenza, felice, di "dare voce" al jazz italiano ripercorrendone le tappe fondamentali attraverso le parole dei suoi protagonisti, in un circuito di interviste e prospettive di genere che intrecciano la biografia al posto di una più consueta e formalmente ordinata storia del jazz nostrano—espressione però provvisoria, non avendo il jazz una patria elettiva che non sia la musica stessa. E perciò tentare un approccio identitario in senso geografico o nazionale rappresenta il punto felice dell'imprudenza, perché cerca di setacciare dalle conversazioni un carattere proprio nella evoluzione e nelle frontiere prossime della musica nostrana, oramai favorevolmente attestata e conosciuta ed applaudita a livello internazionale.

Per questa ragione, l'autore ha provveduto ad elaborare la propria personale rassegna come in una sorta di "album doppio," che riserva ad ogni "facciata" le prospettive generazionali che ne giustificano scelte ed ordinamento: Side 1: I'm Old Fashioned (Cerri, Gaslini, Rava, D'Andrea, Giovanni Tommaso, Salis, Romano, Giovanni e Flavio Bonandrini); Side 2: Lo stato dell'arte (Pieranunzi, Fresu, Gatto, Stilo, Bollani, Di Battista, Rea, Ottaviano, Di Castri, Cisi, Veschi); Side 3: Nuovi visionari (Petrella, Bearzatti, Bosso, Di Modugno, Falzone, Giuliani, Partipilo, Morgera, Lenoci, Signorile, Di Bonaventura, Conte, Valente); Side 4: Discografia selezionata, a chiudere.

Ciò che importa di questa rassegna può essere indicato attraverso alcuni motivi, interni ed esterni, che si compenetrano agilmente perché manca—ma in questo caso la mancanza è funzionale al risultato - quella sistematicità che preordina il proprio risultato e quasi ne determina i fatti in vista di quel fine. Non è questo il caso, perché non si dà luogo ad una visione "storiografica" quanto piuttosto ad una prospettiva biografica che lascia spazio ai singoli racconti senza la pretesa di trovarne la chiave in una tesi. Ciò che conta, qui, è la narrazione immediata, si direbbe "en plein air," che ciascuno dei musicisti ha consegnato sempre in margine ad una performance, non a tavolino come la letteratura specialistica pretenderebbe. E in secondo luogo, la libertà di movimento e di indagine di Gaeta consente una altrettanto libera prospettiva alle testimonianze, le quali spesso vanno a toccare degli spazi cui non sempre la letteratura specialistica darebbe luogo se non fosse per ricostruire in maniera compiuta una vicenda.

Nemmeno si potrebbe parlare di confronto generazionale, anzi. Il passaggio del testimone è visto non in un confronto antagonistico o costituito su antitesi di una facile vulgata freudiana (del tipo, i figli che "uccidono" i padri, e così via). Il discorso è soprattutto legato all'idea di una stratificazione del linguaggio jazzistico che, nel nostro Paese, non determina questo genere in un senso "italiano". La libertà d'ispirazione e di sviluppo che appartiene alla natura del jazz non consentirebbe una tipologia di questo genere: è ovvio che la "culla" rimanga ben distinta e di riferimento, ma a questo bisogna poi aggiungere che dalla mescolanza di stili e di tradizioni il jazz sia veramente quella "democrazia nei fatti" che nessuna teoria, per quanto raffinata possa essere, può davvero tentare di eguagliare. Di certo, la generazione "old fashioned" si è sobbarcata un compito che, storicamente, non poteva che essere determinato e determinante, e tuttavia le personalità che oggi annoveriamo come quella dei "maestri storici" chez nous hanno ancora quella freschezza di visione, quella curiosità di novità che non li rende affatto diversi o lontani dalle più nuove personalità. Si può anzi constatare che queste ultime, quelle che si rassegnano nello "stato dell'arte" hanno avuto l'indubbio merito di innervare e far crescere il movimento in un contesto internazionale dove oggi ci si sente "di casa," mentre magari fino a qualche decennio fa il fatto che qualche nome sorvolasse l'Atlantico e si affermasse nella madrepatria empirica del jazz suscitava scalpore e stupore, ma solo perché i tempi non erano maturi ed il provincialismo, malattia infantile del talento italiano in genere, frenava e quasi teneva in una sorta di soggezione che, alla prova dei fatti, non poteva certo rimanere tale o pensarsi come ramo minoritario del mainstream. Ad esclusione dei Bonandrini, father and son, benemeriti della discografia italiana con le loro "Black Saint" e "Soul Note" (altra vicenda che meriterebbe una sistematica e significativa ricostruzione) i nomi della generazione storica sono tutti, ancora, attivi e prestigiosamente presenti nelle rassegne che in Italia hanno contribuito a rendere il jazz un idioma accettato e desiderato.

Nessuno potrebbe onestamente tentare di definire cosa sia il jazz - sarebbe come chiedersi cos'è la poesia e dare una risposta plausibile. Vittorio Sereni sosteneva che non esiste la "Poesia," esistono le poesie ed è questo ciò che conta e ciò cui prestare attenzione. Certo, dal punto di vista storico sappiamo con una fondata certezza quale sia stato lo svolgimento, quali i traumi, quali i confronti che hanno segnato la storia di questa musica. Sappiamo che non vi possono essere sguardi rasserenanti dall'alto o approcci idealistici che sistemino l'insieme in un quadro ben definito dove tutto è nella posa prevista. Ma questa è la musica che solo i corpi in movimento possono esprimere, che trova spazio e giustificazione nell'apprendistato - quasi mai "accademico," ma fortemente caratterizzato dalla "riproducibilità tecnica" delle incisioni e dalla diffusione radiofonica - quest'ultima fondamentale laddove proprio mancava una "democrazia" della diffusione con altri mezzi e soprattutto laddove mancavano le possibilità individuali, che nel caso nostro significano una distanza fra "centro" e "periferia" equivalente ad una solitudine radicale: i racconti dalle aree periferiche dimostrano quanta volontà e quanto talento abbiano potuto colmare il gap formativo e informativo cui fare fronte e con risultati certamente di grande importanza (Nicola Stilo, Paolo Fresu, ad esempio).

È una storia, quindi, che si legge con gusto perché racconta anche una parte considerevole della storia del nostro Paese che altrimenti ha raccontato Adriano Mazzoletti con la sua recente e densa storia del jazz in Italia. Qui l'approccio è meno totalizzante, e perciò mantiene dei caratteri di freschezza che lo rendono godibile, pulito dal punto di vista degli atteggiamenti sia di chi scrive che di chi racconta. Non si può nemmeno parlare di "intervista" nel senso più nobile che questo genere assume nel francese "entretien". Una conversazione che è frutto di una cultura del conversare che non è quella della parola e della retorica tradizionali, ma è proprio quel gergo specifico della conversazione musicale che è tipica del jazz, molto legata alla situazione, direi anche molto scattante e nervosa con alcuni momenti di introspezione, proprio perché non avvertiti, naturalmente importanti (piace ricordare le parole che Stefano di Battista dedica a Massimo Urbani, per esempio) come la gratitudine o i piccoli rancori che fanno parte della vita di ognuno e che perciò sono presenti anche nella vita dei musicisti. Niente piedistallo, quindi, ma un onesto "set" nel quale mettere alla prova passato e presente nella dimensione personale, memoria e intuito, emozione e ragione: doti che una volta di più non possono essere cartesianamente distinte ma devono al contrario essere pensate come confluenti nello spazio dell'espressione musicale.

Dunque, una lettura piacevole, non artificialmente precostituita, senza intenzione di scrivere pagine di storia quanto piuttosto di dare conto alla passione autentica di ascoltare e di suonare il jazz. Passato e presente che non sono più tali ma semplicemente sezioni di un unico brano che bisogna capire come suonare, e sentirlo dentro mentre lo si suona. Bravo Gaeta, soprattutto, a non farsi prendere da quella che si potrebbe chiamare "sbornia d'alta quota," perché qui le cime sono fitte e sarebbe davvero facile incensare e assorbire, invece di rendersi conto quanto sia alla portata umana un fatto così scandalosamente vitale come il jazz. Questo merito gli va riconosciuto sopra ogni altra considerazione (forse con la sola eccezione delle vicende legate alla non-intervista con Stefano Bollani, alla quale il nostro dedica un esemplare paragrafo con i dovuti "distinguo" fra artista e entourage).

Forse una lacuna di questo volume può essere l'assenza delle nostre voci femminili che hanno contribuito e contribuiscono al radicamento del jazz in Italia. Anche questa è una storia che meriterebbe senz'altro di essere scritta, così come quella di tutte le donne del jazz. Forse, tra un bicchiere di gin e l'altro sarà possibile scriverla.

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