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Nico Gori e La Rinascita Dell'Orchestra da Ballo

Nico Gori e La Rinascita Dell'Orchestra da Ballo
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Sono passati sette anni dalla nostra ultima conversazione con Nico Gori, clarinettista e sassofonista tra i più brillanti del nostro jazz, compositore e bandleader molto attivo. Torniamo a parlare con lui per approfondire i suoi ultimi progetti: il disco doppio realizzato con il suo quartetto e i due del Nico Gori Swing 10tet, vera e propria big band e orchestra da ballo, una rarità nel panorama non solo nazionale.

All About Jazz Italia: È uscito da poco più di un anno il tuo ultimo lavoro, Opposites, un disco doppio in quartetto per la gloriosa Philology di Paolo Piangiarelli. Com'è nato?

Nico Gori: Paolo è stato il produttore del mio primo disco, Groovin' High, del 2004, in quartetto con Renato Sellani, Sandro Gibellini, Massimo Moriconi ed Ellade Bandini. Da allora non avevo più avuto rapporti con lui, se non in occasione di qualche incontro qua e là. Poi un giorno mi telefona e mi propone di fare un disco di ballads, perché—mi dice—"tutti ti conoscono come brillante e pirotecnico clarinettista che fa un sacco di note—fatte bene, eh!—però io voglio far capire al pubblico che sei anche un grande interprete di ballads. Scegli una formazione che ritieni opportuna e fammi solo standards, niente brani originali perché non te li accetto. Fammi sapere quando sei libero e quanti soldi vuoi, poi vieni a registrare."

AAJ: Al giorno d'oggi una proposta piuttosto inusuale!

NG: La stessa cosa che mi hanno detto i musicisti quando li ho informati! Mi ero messo d'accordo con Paolo per portare il quartetto che avevo già in piedi—e lui era stato particolarmente contento della presenza di Piero Frassi, che considera un misconosciuto nuovo Bollani—e li ho chiamati subito per fissare la data e andare a Milano allo studio Indie Hub per registrare. E lì, in una giornata di lavoro, abbiamo messo insieme una serie di brani per Ballads, il primo dei due CD. Tuttavia, al contrario di quel che mi aveva detto Piangiarelli, in quella seduta di registrazione ho infilato anche alcuni brani miei e un mio arrangiamento di un pezzo di Camille Saint-Saens da Il carnevale degli animali. Quando se n'è accorto, già in studio, Piangiarelli mi ha fatto i complimenti: "non è jazz," mi ha detto, "ma è una bella melodia, hai fato bene a sceglierla. Ma c'è anche qualche altra cosa che non ho riconosciuto...." Allora ho confessato di aver messo alcune mie ballads, che mi sembravano coerenti con l'atmosfera del lavoro. "Sei un bel furbacchione!," mi ha risposto Paolo, "t'avevo detto che volevo solo standards... Però è vero, suonano bene, per cui te le passo."

Dopodiché ci ha portato a cena, quindi in albergo, dove ci ha regolarmente pagato—insomma, ha fatto le cose come si facevano una volta e ora non più...—e la cosa è finita lì. Fino a un paio di mesi più tardi, quando Paolo mi ritelefona e, a sorpresa, mi propone di raddoppiare il disco. Di fronte al mio stupore mi dice che le ballads sono venute bene e perciò gli sembra bello affiancarle a un secondo disco di pezzi veloci, quelli per i quali il pubblico mi conosce di più, per fare il confronto. Stessa formazione, stesso studio, stesse condizioni economiche.

AAJ: Veramente fantastico!

NG: Già. Ai ragazzi dissi che avevamo fatto talmente bene il disco che ce ne chiedevano un altro! Così siamo ripartiti per l'Indie Hub—studio molto confortevole, familiare, con tanto di cucina—e in un giorno abbiamo registrato un'altra serie di pezzi, tra i quali anche stavolta ho infilato un paio di mie composizioni. Dalle due registrazioni, dopo un anno circa, è uscito Opposites, che si chiama così proprio perché nei due CD i medesimi musicisti propongono due repertori opposti: brani lenti e narrativi in Ballads, brani veloci e trascinanti in Fire and Flames.

AAJ: Parlaci del quartetto, composto di musicisti che forse non tutti conoscono bene.

NG: È una formazione molto affiatata, che nasce in questa forma ma in seguito è andata a costituire anche il nucleo centrale del mio Swing Tentet, vera e propria orchestra da ballo. Al pianoforte c'è Piero Frassi, lucchese, qualche anno più di me, eccellente musicista che meriterebbe di essere più noto di quanto non sia attualmente; al contrabbasso Nino Pellegrini, livornese con una formazione ricca e mille collaborazioni con jazzisti di primo piano, ma anche nella musica contemporanea e nel teatro; infine alla batteria Vladimiro Carboni, romano cresciuto alla mitica Scuola del Testaccio, che ha girato il mondo con un gruppo di brasiliani e ha passato un periodo a Londra prima di stabilirsi a Massa, dove l'ho incontrato, restando colpito dal suo sound molto fisico, perfetto per la mia musica.

AAJ: Quindi il quartetto entra a far parte anche di questo progetto singolare e fortunato che è il Nico Gori Swing Tentet?

NG: Sì, è il nucleo centrale, al quale ho aggiunto poi quattro fiati e due voci, la bravissima Michela Lombardi e Mattia Donati, un giovane molto interessante che suona anche la chitarra. Tutti musicisti, va sottolineato, a cui ho chiesto di "sposare la causa," ovvero una disponibilità che non si limitasse a prove e concerti, ma si allargasse a fare di quest'orchestra qualcosa di diverso da quel che sono oggi le formazioni di jazz. Infatti fin dall'inizio—grazie alla collaborazione di Francesco Mariotti di Pisa Jazz, uno dei pochi organizzatori jazz rimasti prima appassionati di musica e poi imprenditori—ho progettato di fare una vera e propria "stagione" all'Ex-Wide, locale nel centro di Pisa. Anche se poi la première dell'orchestra avvenne alla prima edizione di Jazz per L'Aquila, nel settembre del 2015. Avevamo in repertorio solo cinque pezzi, ma facemmo un figurone: un pubblico non abituato al jazz come quello de L'Aquila, infatti, venne catturato da quella musica, da quello stile, da quelle canzoni, dimostrando la bontà dell'idea di riprenderle e riproporle, suonandole però bene. Perché deve essere chiaro che l'elemento qualificante dell'orchestra è il fatto che dietro i suoi concerti ci siano arrangiamenti costruiti sulle figure dei musicisti, tante prove e un grande affiatamento: non suoniamo "Cheek to Cheek" così come viene, "tanto tutti la conosciamo..."

AAJ: Ma l'idea di proporre un'orchestra di questo tipo e un repertorio del genere come nasce?

NG: Innanzitutto dal fatto che con quella musica io ci sono nato e cresciuto: mio padre, da piccolo, mi faceva sentire le orchestre di Count Basie, di Benny Goodman, di Louis Armstrong, di Nat King Cole. Da lì l'idea di allargare il mio gruppo, con il quale suonavo la mia musica originale, a una formazione più ampia che suonasse—bene, lo ripeto—la musica con la quale sono cresciuto. Ma, oltre a questo, c'è un'altra fondamentale motivazione che ha portato alla nascita dell'orchestra: quella di coinvolgere il più possibile il pubblico, suonando—bene e anche con modalità adatte a dei musicisti di oggi, senza i cliché dell'epoca—un repertorio di canzoni immortali e di atmosfere melodiche, piene di swing e perciò ballabili, che tutti sono in grado di sentire proprie. Un'idea che infatti a funzionato, perché in questo modo siamo stati in grado di "agganciare" anche quella parte di pubblico che il jazz non lo conosce o che, comunque, di solito non lo segue. Va sottolineato che in repertorio ormai abbiamo non solo brani notissimi, ma anche pezzi dell'epoca assai meno conosciuti, che però stanno ovviamente benissimo assieme agli altri e risultano per i più delle interessanti "novità." Aggiungi a tutto questo un altro ingrediente importante: l'entusiasmo con cui stiamo sul palco! Perché a noi quella musica piace, ci divertiamo davvero a suonarla, non facciamo mai la "marchetta," e questo la gente lo sente e si fa coinvolgere. Grazie a questo le serate all'Ex-Wide, ben due al mese, sono andate avanti per quattro anni!

AAJ: La cosa ha dell'incredibile! Ma con che tipo di pubblico?

NG: Quello che volevamo: giovani, studenti universitari, curiosi anche più grandi... Ovviamente non son venuti quelli che desideravano la serata a sedere al tavolino con la candela, perché noi comunque avevamo impostato la proposta sul modello dell'orchestra da ballo che macina pezzi iniziando alle dieci e smettendo alle due! Perché quella era l'idea: riportare vicino alla musica anche il pubblico che vuol ballare. Abbiamo avuto solo qualche discussione con i ballerini "della domenica," che forse avrebbero voluto un'orchestra più all'acqua di rose, meno professionale, mentre noi come ho detto suoniamo bene, teniamo alta la velocità, e per questo anche il ballerino deve essere "bravo." E infatti quelli bravi sono rimasti e la cosa ha funzionato: con tutti i concerti che abbiamo fatto, non ci sono state più di una o due serate di scarso pubblico ogni anno, in un locale che non è grandissimo, ma le sue centotrenta persone le contiene. Poi, a partire dal successo delle serate pisane—che ha fatto da cassa di risonanza—ci siamo spinti anche oltre. Per esempio, abbiamo fatto il concerto dell'ultimo dell'anno in piazza S. Lorenzo a Firenze: una bomba, c'erano quattromila persone! Insomma, conferme su conferme del fatto che anche questa musica, che era diventata un po' desueta, ha il suo appeal per un pubblico vasto, a condizione che sia suonata bene.

Perché, davvero, noi facciamo un lavoro estremamente accurato: io quella musica la conosco molto bene e l'ho selezionata in modo da avere molte possibilità di scelta in funzione della situazione che incontriamo dal vivo; ne ho curato attentamente gli arrangiamenti, anche in relazione ai musicisti che ho in organico; poi per natura sono un perfezionista e ai musicisti non ne lascio passare una; così, alla fine tutto fila—e deve filare!—alla perfezione e anche chi non conosce la musica lo sente, si sorprende, ne viene coinvolto. Un coinvolgimento che passa dalla qualità, per cui l'orchestra risulta adatta tanto ai festival jazz, quanto alla piazza. Per venire incontro a quest'ultima aiuta poi il fatto che i concerti siano anche costruiti come uno show, grazie alla presenza non solo delle due voci, ma anche di un presentatore-cantante, che viene dal teatro, Iacopo Crudeli. Un personaggio particolare, perché presenta, recita, ma canta anche molto bene e in questo modo permette all'orchestra di adattarsi alle situazioni più diverse. Una cosa per la quale dà una mano anche Mattia Donati, sia perché oltre che cantare suona anche la chitarra, e ha una grande esperienza di suonatore di strada, oltre che una passione per la musica di Nat King Cole. Michela Lombardi, invece, è La Cantante, con la sua classe va bene sempre, non ha bisogno di adattarsi, e con i musicisti del quartetto, cioè con il "cuore" dell'orchestra, ha una grande intesa avendoci suonato molte volte in contesti anche diversi.

AAJ: Parlaci un po' del repertorio.

NG: Attualmente consta di quarantacinque arrangiamenti, oltre ai quali però abbiamo anche prodotto un "disco di Natale," The Tentet Is Coming to Town, con undici brani della tradizione natalizia rifatti in chiave jazz, ovvero secondo il modello con cui suoniamo gli standards. Un disco nel quale, proprio come avviene per gli standards, ci sono brani notissimi—"Let It Snow," "Jingle Bells" -accanto ad altri invece bellissimi è ormai disconosciuti. Come "Christmas Island," un pezzo che cantava Ella Fitzgerald e che lascia immaginare come si passino le festività sull'Isola di Natale, al caldo e tra le palme invece che nel freddo inverno newyorchese. O come quella che per me è una "perla" che sono andato a recuperare da Louis Armstrong, "Zat You, Santa Claus," pezzo della tradizione americana da noi pressoché ignoto. Insomma, ce n'è per tutti i gusti.

Gli altri dischi sono Dancing Swing Party, dal vivo e autoprodotto, e l'ultimo, Swingin' Hips, nel quale abbiamo chiamato a cantare Stefano Bollani, che è venuto è s'è divertito come un matto, e Drusilla Foer, personaggio unico di ascendenza teatrale, che in qualche occasione ospitiamo anche nei concerti.

Quest'ultimo disco l'abbiamo fatto con un crawnfounding, registrandolo a Viareggio in un bellissimo studio, l'House of Glass ; visto che al momento della registrazione non avevamo un etichetta di riferimento, il fonico e proprietario Gianni Bini mi ha indicato un gruppo editoriale con il quale aveva frequenti rapporti e che col jazz non aveva proprio niente a che fare—il gruppo Saifan di Verona. Non avendo nulla da perdere e stanti le difficoltà di pubblicare oggi un disco di jazz, e ancor più un disco come quello del tentetto, sono andato a sentire. Risultato: ci hanno prodotto il disco, occupandosi loro di tutti gli aspetti del packaging e della circuitazione, dandoci un cospicuo numero di copie in omaggio. E questo anche perché il loro direttore Mauro Farina—che peraltro non ho mai conosciuto di persona—è un appassionato di jazz che non solo ha apprezzato il disco, ma ci ha anche commissionato una serie di pezzi per delle scuole americane di ballo, le quali ogni mese scaricano sulle loro app una playlist di brani per gli allievi, divisi in tre categorie—le ovvie basic, intermediate e advanced. A noi hanno commissionato le advanced, che devono essere fatte tutte a 126 di metronomo. Quindi il Nico Gori Swing Tentet è finito nientemeno che nel circuito delle scuole di ballo americane!

AAJ: Una storia veramente stupefacente...

NG: Non solo: a quel punto ho pensato anche che fosse il caso di chiedergli se ci produceva il disco di Natale. Lui mi ha chiesto un preventivo, l'ha accettato subito e il disco è uscito per le scorse festività. E così siamo entrati nel loro catalogo, che vende parecchio in rete, soprattutto all'estero.

AAJ: A parte le voci e il quartetto, chi sono i musicisti della sezione fiati?

NG: Il trombettista è Tommaso Iacovello, un giovane che viene da Siena Jazz, molto bravo e in continua crescita; al sax contralto c'è Renzo Cristiano Telloli, altro giovane che è stato mio allievo al conservatorio di La Spezia, che suona davvero bene; il tenorista è Moraldo Marcheschi, anche lui mio ex allievo, che è pure un ottimo clarinettista; Silvio Bernardi, il trombonista, è uno degli "anziani" del gruppo ed è con noi dall'inizio. Tutti anche fisicamente allenati e che non si tirano indietro quando facciamo set di quattro ore, come succede nelle occasioni di festa. Aiutati anche dal batterista, Vladimiro Carboni, che come dicevo prima ha un approccio molto "fisico" ed è all'altezza del sound dell'orchestra.

AAJ: Quali altri tappe importanti ci sono state fuori dalla residenza all'Ex-Wide?

NG: Anzitutto quella—decisiva, perché capitata solo al secondo anno di vita della formazione—all'edizione speciale di Umbria Jazz ad Assisi per il terremoto. Erano previste tre serate su temi diversi e uno era lo swing, per cui cercavano un'orchestra che fosse centrata su quello. La nostra fortuna fu che, durante una delle date di Napoli Trip, avevo fatto sentire delle registrazioni dell'orchestra a Stefano Bollani, al quale era piaciuta al punto che s'era messo a ballare con Jim Black... Fu lui a dirlo a Pagnotta e a fargli sentire il disco, cosicché non solo ci chiamò, ma ci fece fare anche il concerto con Renzo Arbore! Una seratona, che ci esaltò molto e fece parlare di noi. E poi, sebbene il nostro sia un fenomeno prevalentemente toscano, siamo andati a qualche festival jazz, per esempio a quello di Ancona.

AAJ: E adesso?

NG: Adesso continuiamo con le prove—due al mese, anche se non suoniamo più all'Ex-Wide—in attesa dei concerti dell'estate. Abbiamo già un po' di date, tra le quali la più importante è quella del 16 di luglio all'Anfiteatro Romano di Fiesole, dove avremo ospite Drusilla Foer. Questo format dell'orchestra più ospite ci piace e funziona molto bene: abbiamo ospitato più volte Fabrizio Bosso, che è un caro amico, ma anche Arbore—in realtà ci ha ospitato lui...—e Rossana Casale.

AAJ: Perché gli ospiti?

NG: In realtà non ce ne sarebbe propriamente bisogno, perché la formazione funziona bene anche da sola; però una carta in più serve ad adattare meglio lo spettacolo ai contesti, o a creare qualcosa di inatteso. Bosso, per esempio, è perfetto come carta aggiunta nei festival jazz; Drusilla Foer—che in realtà è un uomo e si chiama Gianluca Gori—invece è veramente un artista a tutto tondo: è stato allievo di Paolo Poli, forse il suo allievo prediletto, e ha mille competenze—fotografo, grafico, oltre che attore e cantante. Come Drusilla è esploso piuttosto di recente, grazie al produttore Franco Godi—un personaggio di primo piano della cultura musicale pop italiana, autore di jingle storici e grande appassionato di musica—ma era nato con la Dandini e, prima di essere Drusilla, aveva recitato nel cinema con Ozpetek. Quindi un grande professionista, per il quale noi facciamo dei pezzi ad hoc, in modo che possa aggiungere alla musica uno spettacolo in stile Cotton Club.

AAJ: Appunto, le big band di sessant'anni fa, oggi riportate d'attualità. Un'idea curiosa, ma che a questo punto più che "conservatrice" definirei "innovativa."

NG: Infatti quando mi è venuta in testa l'ho pensata proprio così. E come risposta al fatto che, nelle città, la gente non sa più dove andare: a Pisa gli studenti se ne vanno qua e là per aperitivi, ma non danno l'impressione di divertisti molto. Quest'idea qui è allegra, "nazionalpopolare" a dispetto del suo apparente anacronismo, non richiede per forza di saper o voler ballare, ed è pure a basso costo—ovvero non ha la necessità di un produttore che stia lì a richiedere che ci sia per forza almeno un certo incasso.

AAJ: Ecco, questo è un aspetto importante: concretamente, dal punto di vista economico, l'orchestra come sta in piedi?

NG: Siamo un'orchestra sociale, ovvero non abbiamo sovvenzioni o qualcuno che ci finanzia. Siamo affiliati a Pisa Jazz, che però non è un'istituzione in grado di mantenerci: il rapporto deriva dall'unione dell'idea artistica, la mia, e di quella organizzativa, di Mariotti, che ci propose la residenza all'Ex-Wide, ebbe l'intuizione di andare a L'Aquila e oggi si occupa della parte amministrativa e dei rapporti con organizzatori e istituzioni. In altre parole, siamo un'orchestra di professionisti che lavorano per prodursi il loro reddito. Infatti anche nelle stagioni a Pisa siamo sempre stati pagati, nonostante fossimo in dieci, perché il pubblico come dicevo prima non è mai mancato e quindi alla fine un incasso s'è sempre fatto.

Affinché ciò fosse possibile abbiamo però dovuto dare tutti molta disponibilità per creare l'interesse su una proposta come questa, atipica e trasversale sia per tipo di pubblico, sia per genere—perché ad ascoltare attentamente ci si rende conto che siamo al confine tra lo swing e il bebop, una "zona musicale" nella quale c'è tanto materiale e tante possibilità di rinnovarlo, così da poter allargare continuamente il repertorio e non ripetersi. Cosa importante sia per il pubblico, che trova sempre qualcosa di diverso, sia per i musicisti, che non si annoiano. Perché, proprio in quanto professionisti, i musicisti devono rimanere sempre concentrati ed entusiasti qualsiasi cosa si faccia: per tenere in piedi un'orchestra di dieci-undici elementi è infatti indispensabile adattarsi a qualunque tipo di lavoro venga proposto.

Come accadeva una volta, quando personaggi come Oscar Valdambrini o Gianni Basso sapevano essere improvvisatori in piccoli gruppi nei jazz club, ma anche ottimi membri delle orchestre istituzionali, e non si tiravano indietro neppure quando c'era da fare un disco con un cantante di musica leggera. Una cosa che oggi è diventata rara, perché di artisti bravi ce ne sono tanti, è vero, ma sono perlopiù solisti che suonano solo la loro musica e che se decontestualizzati perdono moltissimo.

A me il modello del musicista "alla vecchia," che si mette in gioco suonando anche in contesti che non sono i suoi, piace moltissimo e cerco di sperimentarlo personalmente: mi sono formato sullo swing e quel tipo di musica è quella che mi coinvolge di più; ma con il mio quartetto già faccio anche altro; col mio trio, assieme a Ellade Bandini e Massimo Moriconi, suono in maniera estremamente libera, anche se non proprio free; con Bollani—prima nei Visionari, poi in Napoli Trip—faccio poi decisamente tutt'altro; e mi è perfino capitato di suonare con i Chicago Underground!

Del resto a me non riuscirebbe di suonare sempre e solo la stessa musica con lo stesso gruppo: mi annoierei da morire, anche perché non imparerei più nulla. Questa è anche una delle ragioni per cui continuo a privilegiare il suonare rispetto all'insegnare, sebbene le occasioni per farlo ultimamente si siano moltiplicate: sto insegnando alla Scuola di Musica di Fiesole e il prossimo anno avrò quattro corsi a Siena Jazz—anche se là il mio compito sarà insegnare ai ragazzi non tanto la teoria o la tecnica, quanto come si fa a stare sul palco.

Cose che mi fanno piacere, ma che non affiancherò ad altre situazioni didattiche, perché non voglio fare come alcuni miei colleghi, i quali a causa degli impegni d'insegnamento ormai hanno smesso di suonare! Quando da bambino sognavo di fare il musicista, era per il desiderio di suonare; e anche oggi, che ho una famiglia da mantenere, continuo a voler vivere suonando, non facendo l'insegnante. Senza contare che se impiegassi troppo tempo nell'insegnamento non lo avrei più per rispondere alle offerte di chi mi invita a suonare, per prepararmi ai concerti, insomma per fare il musicista come mi piace, cioè bene.

AAJ: A parte le date estive lo Swing Tentet ha in programma altre cose?

NG: Sì, una serie di spettacoli teatrali, per iniziativa di un'agenzia fiorentina che si chiama Aida Studio. Abbiamo già fissata una riedizione de Il grande Gatsby, con Adriano Giannini, ma per la stagione invernale abbiamo in programma anche altri spettacoli. Peraltro io personalmente ho in corso anche un'altra esperienza teatrale: il prossimo spettacolo di Luigi Lo Cascio, tratto dal suo ultimo libro, Ogni ricordo un fiore, per il quale ho scritto le musiche che eseguirò assieme a Massimo Moriconi. Si tratta di un'esperienza molto interessante per me, perché mi permette di capire quando e come la musica può intervenire in uno spettacolo che in larga misura non è musicale. E anche come rispondere alle esigenze artistiche di chi non è un musicista, ma ha bisogno della musica per valorizzare la propria arte.

AAJ: Quindi, nonostante la sua distanza da quel che va attualmente per la maggiore nel jazz, l'orchestra gode comunque di una certa attenzione?

NG: Sì, anche se l'attenzione da parte dei media e della critica è perlopiù legata ai concerti. Perché oggi nel mondo della musica tutto è diventato difficile: è ormai necessario avere un ufficio stampa che ti segue e ti fa apparire, cosa che noi finora non abbiamo, sia perché non avevamo la disponibilità economica, sia perché mancava anche la volontà di averlo. Siamo stati soddisfatti dei risultati che abbiamo avuto, sia con i concerti, sia con i dischi.

Del resto, proprio il fatto che la nostra proposta sia abbastanza diversa dalla tendenza del jazz in Italia a volte ci ostacola, ma altre volte invece ci avvantaggia: un organizzatore aperto e intelligente può infatti capire che, all'interno di un festival, un concerto diverso e capace di attrarre anche un pubblico non di soli jazzofili può essere un arricchimento. C'è un ben noto problema di pubblico che in qualche modo va affrontato, ed è una cosa che anche i musicisti dovrebbero capire. Non tanto per fare una musica diversa, o per diversificare la loro immagine, ma perché oggi ci sono troppi musicisti—bravissimi, sia chiaro—che a mio parere sono ristretti nel loro ruolo di "Artisti": si mettono lì a testa bassa e suonano, disinteressandosi del pubblico, non costruendo una relazione con chi ascolta. E questo spesso produce una freddezza che rende difficile trasmettere il significato e il valore della musica che fai. Non si tratta quindi di "fare spettacolo"—cosa che facciamo noi con il tentetto, ma solo perché questo fa parte della tradizione della musica che suoniamo e dell'organico che abbiamo messo in piedi—quanto di avere una complicità con chi ascolta, di fornirgli elementi che facilitino il contatto con la musica. Una cosa, questa, che vale ancor più quando la proposta che fai è complessa e innovativa, perché se lo è, allora è ancora più difficile da comunicare e da far comprendere: che senso ha pensare che chi è all'altezza di capirla la capirà, e poi lamentarsi perché il pubblico diminuisce di concerto in concerto?

Io ho suonato tanti anni con Fred Hersch, un artista di altissimo livello e che non scende a compromessi, ma che al pubblico ci pensa: riflette su quel può esser più adatto per questo pubblico questa sera; presenta i suoi pezzi, racconta cosa sono. Non si vende, ma comunica con il pubblico; non fa cadere dall'alto la musica, cosa che la rende fredda e incomprensibile. Io questo cerco sempre di farlo, anche se—a differenza che nel suonare—nel parlare sono piuttosto timido e impacciato, ed è per questo che nell'orchestra ho scelto di avere un presentatore. Ed è perché lo faccio, visto che tengo conto del pubblico, che sono stato più soddisfatto di aver vinto il Jazzit Adwards—miglior clarinettista nel 2017 e nel 2018—che non è un referendum della critica: non per svalutare quest'ultimo, che invece riconosce più dell'altro qualità tecniche e artistiche importanti, ma perché un referendum del pubblico ti dà la risposta, appunto, del pubblico, e vincerlo dopo aver avuto per esso un interesse e un'attenzione è la prova che il tuo lavoro l'hai fatto bene.

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