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Miguel Zenón: lo sherpa del Jazz

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Il Jazz si porta dietro troppi tabù. Voglio che le persone abbiano l'opportunità di giudicare da sole... decidere se questo tipo di musica gli piace o meno, e in caso affermativo apprezzarla per quello che è
Intervista di Lawrence Peryer

Forte della sua carriera ormai decennale, il sassofonista Miguel Zenón si pone come uno dei musicisti più sofisticati e stilisticamente ricercati in circolazione. In poco tempo Zenón si è affermato come compositore, leader, educatore e apostolo del Jazz. Si è esibito e ha inciso, sia come leader sia come membro, con l'innovativo SFJAZZ Collective, insieme agli esponenti più significativi della scena musicale contemporanea: in effetti è l'unico tra i membri fondatori di quel collettivo a farne ancora parte.

Zenón ha dato un nuovo significato alla diffusione e all'insegnamento del Jazz: nella sua veste di ambasciatore del Jazz per il Kennedy Center nell'Africa Occidentale; in qualità di docente presso il Berklee College of Music, il New England Conservatory of Music e in altre scuole; con l'istituzione dei Caravana Cultural, una serie di concerti e dibattiti trimestrali che mirano alla diffusione del Jazz per tutti nella sua nativa Portorico.

E l'attività educativa di Zenón si riflette anche sul suo versante creativo. Il suo ultimo disco, Alma Adentro: The Puerto Rican Songbook (Marsalis Music, 2011), è il terzo di un cammino di analisi e interpretazione delle tradizioni musicali della sua terra: nello specifico, canzoni tratte dal repertorio di musica popolare della metà del Ventesimo secolo.

Grazie a questi—e molti altri—lavori, Zenón ha ottenuto una cospicua borsa dalla prestigiosa MacArthur Foundation nel 2008. Il premio, mezzo milione di dollari erogati nell'arco di un quinquiennio, è prima di tutto un riconoscimento al crescente contributo che Zenón porta al panorama musicale, e dal punto di vista economico gli permette di avere quelle risorse necessarie per continuare a coltivare la sua passione al meglio.

Gli studi e l'insegnamento

All About Jazz: Come sei venuto in contatto con il Jazz? È stato un incontro fortuito o il frutto di un percorso di studi?

Miguel Zenón: A Portorico ho frequentato le scuole medie e le superiori alla Escuela Libre de Musica, e come me hanno fatto molti altri musicisti, tra i quali i sassofonisti David Sanchez e Angel Marrero. Ma si tratta di una scuola orientata alla musica classica, non ci sono insegnanti o corsi di Jazz.

Ma è stato in quel periodo che ho scoperto il Jazz nella maniera più classica—degli amici mi fecero ascoltare dei nastri di Charlie Parker, di Miles e di altri. E l'aver ricevuto un certo tipo di educazione musicale fu la ragione per cui mi appassionai al Jazz. Ricordo in particolare quando ascoltai per la prima volta Charlie Parker. Non sapevo cosa fosse l'improvvisazione, ma ero attratto dalla maestria tecnica di quei musicisti.

Ascoltando le loro improvvisazioni, mi rendevo conto che stavano creando qualcosa di originale grazie alla loro perfetta padronanza della tecnica e degli strumenti, e andavo fuori di testa. Era una cosa che mi faceva impazzire, e che dovevo capire. Voglio dire, non c'è un corso o un insegnante che ti spieghino l'improvvisazione, ascolti e basta. La cosa intrigava anche un paio di amici, così cominciammo ad ascoltare sia delle cassette sia le trasmissioni della Radio Nazionale, compravamo tutto quel che potevamo e suonavamo—tentando di imitarli.

Ho cominciato da solo, e mano a mano ho trovato altri coetanei interessati al Jazz. Insomma, le mie prime esperienze nel Jazz sono state individuali e da autodidatta. Avevo una formazione musicale, ma non da musicista Jazz.

AAJ: I tuoi insegnanti alla scuola di musica erano critici nei confronti del Jazz? Hanno cercato di dissuaderti?

M.Z.: No, assolutamente no. Anzi, erano entusiasti dell'idea. Ma credo che non sapessero come aiutarmi. Sono stato fortunato ad avere ottimi insegnanti. E molti di loro, oltre ad avere una formazione classica, erano molto attivi nella musica popolare, musica ballabile, musica Latino-Americana eccetera.

Gli piaceva suonare musica popolare, e penso che il Jazz gli fosse molto affine in tal senso. Mi hanno fatto da guida e mi hanno fornito del materiale su cui lavorare, persino dei testi su cui studiare.

Comunque anche a scuola avevo qualche riferimento. Alle superiori, ad esempio, uno dei miei insegnanti aveva avuto David Sanchez come allievo—all'incirca otto anni prima di me. E in quel periodo David suonava già con Dizzy Gillespie [nella sua United Nations Orchestra] e faceva dischi, e quindi in un certo senso avevo un punto di riferimento. Quell'insegnante mi diceva, "OK, ti darò lo stesso materiale che avevo dato a lui, magari potrà esserti d'aiuto." Ma non ricevetti alcun tipo di educazione formale al Jazz fintanto che non arrivai alla Berklee.

AAJ: E a quel punto si aprì un mondo?

M.Z.: Oh, sì, fu una cosa incredibile. Quando decisi che la mia strada era la musica, fu chiaro fin da subito che doveva essere il Jazz. Non volevo suonare altro. E sapevo di dover andare alla Berklee. Volevo studiare, continuare a studiare, sapevo di dover studiare.

Ci volle un po' per arrivarci, passò un anno e mezzo dalla fine delle superiori—perché provenivo da una famiglia modesta, che non aveva i mezzi per aiutarmi, così dovetti fare tutto da solo, dal biglietto aereo alla retta, che mi guadagnai esibendomi in qualunque occasione si presentasse.

E quando riuscii ad andare alla Berklee, fu uno shock, sebbene positivo. Fu come raggiungere la Terra Promessa. Trovarmi circondato da ragazzi che, come me, volevano solo suonare, ascoltare musica e parlare di musica. Con insegnanti che mi dicevano, "OK, sei sulla strada giusta, fai così e cosà e ci sei." Insomma, trovavi le persone capaci di indirizzarti al meglio. Ho avuto davvero ottimi insegnanti.

Ma la cosa più importante alla Berklee era essere circondati da coetanei più capaci di me e che ne sapevano di Jazz molto più di me, che mi hanno ispirato in mille modi. In più essendo a Boston ho avuto l'opportunità di conoscere il pianista e compositore Danilo Perez, il sassofonista George Garzone e il batterista Bob Moses.

AAJ: C'è qualcuno in particolare che, per quel che ti ha trasmesso o che ha detto, ti ha fatto capire che la musica sarebbe stata la tua via?

M.Z.: Sì. Danilo Perez, senza dubbio. Quando ero ancora a Porto Rico e mi stavo avvicinando al Jazz, David Sanchez era il mio punto di riferimento, dato che condividevamo così tante esperienze. Poi scoprii la musica di Danilo e di molti altri autori Latino-americani che suonavano il Jazz, pur mantenendo una loro identità Latino-americana.

Quando arrivai a Boston lo cercai subito; ricordo che una volta andai a un concerto e saltai sul palco appena ebbe finito di suonare per presentarmi. Una cosa che non sono solito fare, assolutamente.È stato molto cordiale e mi ha davvero aiutato. Andavo a casa sua ogni settimana e mi insegnava, praticamente gratis, moltissime cose: suonavamo e discutevamo di musica. Mi è stato davvero di aiuto e come hai detto tu mi ha fatto capire che ce l'avrei potuta fare. Potevi vedere la sua passione, lo vedevi crescere e migliorare e lavorare così duramente. E miglioravo anche io. Una grande ispirazione.

Lo stesso capitò conoscendo David, e il sassofonista Steve Coleman e altri, personaggi cui ispirarsi. Quando incontri qualcuno che tieni in grande considerazione e questi è addirittura meglio di quel che ti aspettavi, è una cosa che ti dà una carica incredibile. Sì, posso dire che Danilo sia stato il primo, una volta che mi sono trasferito negli Stati Uniti, a darmi quella spinta.

AAJ: Si può dire che tu abbia avuto il supporto giusto al momento giusto: la comunità di musicisti, la famiglia che ha appoggiato la tua idea di dedicarti all'arte...

M.Z.: Sì. Anche se devo dire che la mia famiglia non mi ha supportato all'inizio.... c'è voluto un po' di tempo. A scuola andavo molto bene, e prima di scoprire la musica volevo far qualcosa legato alla matematica o alle scienze. Ero già stato accettato in una rinomata scuola di ingegneria a Portorico quando andai da mia madre e le dissi, "Non voglio più fare l'ingegnere: voglio suonare." Il che ovviamente fu uno shock per lei.

Ma poco a poco vide quanto ero appassionato e si convinse che avrei fatto di tutto per riuscire. Quando mi trasferii a Boston fu dura, specialmente il primo anno. Ricordo che mi scriveva e mi mandava, che so, venti dollari per comprarmi da mangiare. Dopo un po' cominciai ad esibirmi e ad ingranare, e anche lei capì che avrei potuto guadagnarmi da vivere suonando. E più le cose migliorarono, più si convinse.

AAJ: Quando hai capito di avere qualcosa di tuo, di particolare, da esprimere con il tuo sassofono?

M.Z.: Non lo so. Davvero difficile a dirsi. È difficile identificare un momento preciso. Ho sempre pensato che il mio compito fosse quello di colmare le mie lacune, in termini di conoscenza sia della tradizione sia del linguaggio del Jazz. Era il mio obiettivo. Una volta giunto a Boston, volevo imparare il più possibile, migliorare e conoscere meglio la musica e i musicisti venuti prima di me—ascoltando i dischi, discutendo, imparando i classici eccetera.

Il passaggio dallo studio alla creazione di un mio stile è avvenuto senza soluzione di continuità: la mia personalità come musicista deriva dall'essere stato ispirato da chi mi ha preceduto e dalle loro opere, dall'averle studiate così attentamente. Si tratta di un processo ancora in divenire—ci sono aspetti ai quali tengo particolarmente che credo mi possano rappresentare bene come musicista, ma sono tutte cose che arrivano da altrove.

AAJ: Quello che descrivi è un aspetto ricorrente nell'ambito del Jazz: fare proprio tutto ciò che è venuto prima—i musicisti, la tecnica—per rielaborarlo e sublimarlo nel'arte dell'improvvisazione. Partire dalle basi rielaborandole in maniera originale e personale.

M.Z.: Sì. Nel mio caso si è trattato di capire quali fossero le priorità. Quando ero studente a Boston avevo certe priorità, che sono cambiate radicalmente quando mi sono trasferito a New York e ho cominciato a frequentare alcuni dei miei idoli e a suonare con loro. E sono cambiati anche i miei obiettivi. Credo che si debba innanzi tutto capire quali doti servano per riuscire a comunicare qualcosa con l'improvvisazione, e farlo in maniera sempre più semplice e spontanea. Da un lato bisogna padroneggiare lo strumento, dall'altro bisogna riuscire a capire il tipo di linguaggio con il quale si ha a che fare; che è diverso dall'essere semplicemente capace di far uscire del suono dal proprio strumento. Ma queste non sono sempre state le mie priorità—si sono presentate mano a mano che progredivo come musicista, così che ho cominciato a capire cosa dovevo fare per migliorare.

AAJ: Che ruolo ha avuto lo studio, sia in termini di apprendimento sia per quanto riguarda il tuo desiderio di insegnare?

M.Z.: Come studente non ho mai avuto problemi: andavo bene a scuola e mi sentivo a mio agio. Non solo nella musica. Ho sviluppato un metodo di studio e di approccio all'apprendimento che mi ha permesso di imparare e di migliorare: metodo che ho applicato a scuola e al college.

Ho fatto molte esperienze, come quella con i Jazz Ambassadors, ho partecipato a seminari, ho fatto l'insegnante privato, e altro—situazioni differenti con un fine comune, vale a dire comunicare idee e modi di pensare agli altri in modo pratico, ragionevole. Dovevo imparare a spiegare. E facendolo non solo si migliora il modo di esporre i concetti, ma in un certo senso si imparano le cose in maniera più profonda—parlo di nozioni già acquisite—per il solo fatto di doverle spiegare ad altri. E all'inizio non fu facile. Ci sono cose difficili da spiegare a parole. Ma sono riuscito a far passare i concetti ugualmente, rendendo l'esperienza dell'insegnamento e dell'apprendimento più efficace, sia per me, sia per chi mi ascoltava.

AAJ: I Caravana Cultural sono frutto di queste esperienze?

M.Z.: I Caravana Culture cui fai riferimento nacquero non tanto dal desiderio di educare, quanto da quello di tornare alle basi, all'essenza della musica. Volevo tornare alle origini, a come mi sentivo quando cominciai a suonare, a quando non pensavo certo di farne un modo di sbarcare il lunario. Volevo divertirmi per quel che facevo, senza pensare ad altro che alla musica—niente prezzi dei biglietti, pubblicità eccetera.

Insomma, volevo ritrovare quelle sensazioni, e in questo mi ispirò un documentario su una rock band Islandese, i Sigur Ros, che li vedeva protagonisti in una serie di concerti gratuiti fatti per ringraziare il loro pubblico del sostegno. Per me era una cosa bellissima. Molto informale, la gente assisteva e si godeva lo spettacolo. Tenevano il concerto in una scuola, in un campo, in una fabbrica. Molto bello.

Pensavo che sarebbe stato bellissimo fare una cosa simile a Portorico con il Jazz. L'idea mi venne proprio quando ottenni la borsa dalla McArthur, per cui adesso sarà possibile farlo—ora ho i mezzi necessari per farlo.

Il progetto sta prendendo forma e si articolerà in una serie di concerti. Ci sono un paio di fondazioni a Portorico che mi danno una mano ad organizzare la logistica, e l'idea è di tenere questi concerti, ovviamente gratuiti, per la maggior parte nelle aree rurali di Portorico, dove le attività culturali—di qualsiasi genere, non solo musicali—scarseggiano. Voglio portare la musica laddove di solito non arriva, tentando di sradicare i preconcetti sul Jazz e su quelli che si ritiene debbano esserne i fruitori.

Penso che sia a Portorico sia altrove si pensi che per ascoltare il Jazz occorra una preparazione specifica di un certo livello. Questa musica si porta dietro dei tabù. Che secondo me non hanno senso. Invece voglio che le persone abbiano l'opportunità di giudicare da sole, di assistere ad un concerto, ascoltare quel tipo di musica—che si tratti di Charlie Parker o di altri, poco importa, e che decidano se questo tipo di musica gli piace o meno, e in caso affermativo apprezzarla per quello che è.

In questo senso lo considero un investimento culturale per il mio Paese. E più sto lontano da Portorico, più mi trovo coinvolto con progetti che hanno a che fare con Portorico—legati non solo alla musica, ma anche a cose che non c'erano a Portorico quando ero giovane e che ritengo debbano esserci.

AAJ: Come hanno risposto a quegli eventi?

M.Z.: C'è stata una risposta molto positiva. Abbiamo già tenuto due concerti nel 2011, uno a febbraio [incentrato sulla musica di Miles Davis] e uno a giugno [incentrato sulla musica di Charlie Parker]. E credo che, senza nulla togliere al primo, quello di Giugno sia andato meglio, perché ero meno stressato e ho suonato con più attenzione.

Ho avuto la sensazione che la gente abbia pensato "OK, è la prima volta che ascolto questo tipo di musica e mi piace, punto. Non mi è familiare, ma mi piace lo spettacolo, mi piace quell'interazione che vedo sul palco." Una situazione nella quale offri qualcosa di diverso, una novità per quel pubblico, ma capisci che la accettano, e lo fanno in un modo molto naturale perché è qualcosa che sentono dentro. Davvero un'esperienza molto, molto speciale.

Il SFJAZZ Collective

AAJ: Sei il solo, tra i promotori originari, a far ancora parte del SFJAZZ Collective: cosa ti tiene ancora così legato a questo progetto?

M.Z.: Hai detto bene. Sono rimasto il solo perché gli altri, per un motivo o per l'altro, vi partecipano in maniera saltuaria. Per quel che mi riguarda, mi sono unito alla band nel 2004, invitato dagli altri co-fondatori, Joshua Redman and Randall Kline. E ricordo che pensai ad uno scherzo, visto il calibro degli altri membri: il vibrafonista Bobby Hutcherson, il trombettista Nicholas Payton e il batterista Brian Blade. Per un bel po' sono stato il più giovane del gruppo, e mi dicevo, "Devo approfittarne finché dura perché è davvero un'opportunità unica." Insomma, volevo solo che non finisse. E mano a mano che altri si sono uniti alla band sono passato da matricola a veterano. E intanto la dinamica della band cambiava e progrediva.

E paradossalmente con il passare degli anni è cresciuto lo spirito di uguaglianza tra tutti i membri della band, forse perché la band ha sviluppato una propria personalità, attirando chi vi si riconosceva appieno. Il che è molto diverso dallo spirito dell'esordio. Ed è stato molto bello seguire questo percorso—vedere i progressi dall'interno, sostenendoli. Mi piace poter contare sulla band, sia come solida base per comporre, sia per la possibilità di provare e confrontarsi. Sto bene con gli altri, e spero che questo duri. So che le cose cambiano, ma finora sono assolutamente soddisfatto.

AAJ: Il fatto che nessuno venga considerato un sideman significa che ci si aspetta che ognuno contribuisca componendo, arrangiando e influenzando lo spirito generale della band?

M.Z.: Sì. E questo è chiaro a tutti sin dal primo momento. E a prescindere da queste aspettative, è ovvio che ci voglia un leader. Che sia uno spettacolo o una prova: qualcuno deve prendere delle decisioni.

E in molti sono in grado di farlo. Ma devono anche essere capaci di fare un passo indietro ed essere semplicemente uno dei membri della band. Non tutti si sono trovati a proprio agio nel farlo, quando è toccato a loro.

Come membri della band dobbiamo essere capaci sia di accettare questo dualismo sia di ricordarci che comunque siamo un collettivo, guardando a cosa siamo capaci di fare insieme. Meglio ci riusciamo, migliore sarà la musica e l'affiatamento.

AAJ: A te viene naturale passare da un ruolo all'altro, assecondare i desideri degli altri oppure dirigerli?

M.Z. Sì, non mi crea nessun problema, anzi. Non mi sono dedicato alla musica per avere una mia band o per suonare la mia musica. L'ho fatto per suonare insieme ad altri. Mi piace ascoltare quel che gli altri hanno da dire, senza preoccuparmi di dover dirigere o decidere io. Certo, talvolta ci piace essere leader, ma mica tutto il tempo!

AAJ: Trovi più semplice comporre per la tua band, grazie alla frequentazione più assidua, o per il SFJAZZ Collective?

M.Z.: Non vedo grandi differenze. All'inizio è stato più difficile con il SFJAZZ Collective perché devi gestire più strumenti, e allora avevo molta meno esperienza: non avevo mai composto per vibrafono o per quartetti di fiati: devi capire la dinamica degli strumenti, sapere come suonano i diversi musicisti eccetera.

Il punto di forza della band è l'essere sempre riusciti a coinvolgere le persone giuste. Ci basiamo sulle segnalazioni, e ne riceviamo parecchie; e insieme le discutiamo e scegliamo. E di solito sono musicisti che conosciamo bene e con i quali già suoniamo: come ad esempio il sassofonista Mark Turner, il pianista Edward Simon e il trombettista Avishai Cohen, che si sono uniti un paio di anni fa. Li conoscevamo bene, sapevamo quanto bene suonavano.

E quando qualcuno si unisce alla band, è come se diventasse una band diversa. Ma non penso che questo condizioni il mio modo di comporre, perché sai che non ti dovrai preoccupare del fatto che sapranno suonare una certa cosa o meno. Sai che stai coinvolgendo persone che suonano ad un livello tale da riuscire a suonare al meglio qualunque cosa, garantito.

Guidare una Band

AAJ: Quanto conta per te e per la tua musica il poter contare su una formazione così stabile?

M.Z.: È molto importante per quanto riguarda il mio ruolo di leader e il tipo di musica che voglio suonare nei miei gruppi. Una cosa che ho imparato suonando in altre band e interagendo con gli altri è che la chimica conta tantissimo. Così come è importante avere intorno persone con le quali ti trovi bene, amici con i quali sei in sintonia—cose fondamentali per me, per poter far musica insieme per così tanto tempo.

Mi ritengo anche fortunato perché ho conosciuto persone con cui sono andato d'accordo, condividendo la passione per la stessa musica e con le quali è stato un piacere suonare insieme. In più credo di essere riuscito a tener fede al mio ruolo di leader e di compositore, esaltando le doti di questi musicisti attraverso la mia musica.

E credo sia davvero una fortuna, un regalo del cielo, essere riuscito a suonare per così tanto tempo con le stesse persone. E non ho in animo di cambiare le cose. Non sono uno di quelli che, progetto dopo progetto, pensano "OK, per questo progetto, scelgo questo o quello. Facciamo il disco e poi basta, per il prossimo troverò qualcun altro." Io voglio mantenere il gruppo aggiungendo elementi mano a mano.

Penso sempre a quel che succederà quando suoneremo. Suoneremo come un quartetto, come una band. La musica si sviluppa tra di noi, e poi saremo noi a suonarla. Questa è il mio primo pensiero: cosa succederà quando ci esibiremo? E per star bene devo avere intorno persone con cui mi trovo bene.

AAJ: Come sei riuscito a mantenere la coesione del gruppo, considerando tutti i progetti che hai al di fuori della band?

M.Z.: Bella domanda. Siamo tutti molto presi, e anche io non suono soltanto con la mia band, avendo molti altri progetti in parallelo; e mi piace farlo. Allo stesso modo, mi rendo conto di essermi circondato di persone sulle quali posso contare perché so che danno priorità alla band, pur avendo anche loro altri progetti attivi. Quindi non ho preoccupazioni del tipo, "accidenti, se non trovo un ingaggio, questo poveretto non avrà di che pagare l'affitto."

E il SFJAZZ Collective funziona pressappoco allo stesso modo. Le persone danno la disponibilità per determinati periodi, e per il resto del tempo sono libere di seguire i propri progetti. Tutto si basa sulla correttezza e sul rispetto degli impegni presi. E sono fortunato a lavorare con persone molto corrette da questo punto di vista.

La Musica di Portorico

AAJ: Parliamo dei dischi nei quali esplori la musica di Portorico: il primo sulla musica Jibaro, intitolato appunto Jibaro (Marsalis Music, 2005), il secondo sulla musica Plena, dal titolo Esta Plena (Marsalis Music, 2009) e adesso quello sul repertorio Portoricano intitolato Alma Adentro: The Puerto Rican Songbook. Hai seguito un criterio particolare?

M.Z.: No, non c'è dietro un piano preciso. In generale mi piace pianificare a lungo termine, ma in questo caso non l'ho fatto. Ognuno è nato per un motivo diverso. I progetti sulla musica Jibaro e su quella Plena nascono dalla mia voglia di conoscere meglio la musica tradizionale. E per farlo mi sono documentato comprando libri e dischi e parlando con i musicisti.

E ho potuto usufruire di alcuni finanziamenti: per il disco Jibaro grazie al New York Council for the Arts, e per Esta Plena grazie alla Guggenheim Fellowship. Questo mi ha dato una marcia in più e mi sono detto, "OK, devo scavare più a fondo, per imparare di più: posso fare un disco, comporre qualcosa." Ecco come è andata. In entrambi i casi si tratta di musica tradizionale folkloristica.

Certo non ho esplorato tutto lo scibile subito, perché voglio seguire un metodo. Prendo un aspetto, lo studio con calma, per un po,' lo documento e poi passo ad un altro. Nel caso di Alma Adentro: The Puerto Rican Songbook ho seguito un metodo simile: ma era musica che non avevo composto io, quindi è stato più un lavoro di arrangiamento di musica popolare Portoricana. Non musica tradizionale, ma popolare, e per questo molto conosciuta. Ho pensato, "OK, voglio rappresentare la mia musica, voglio saperne di più sulle sue origini e sul suo significato per me, per la mia cultura e per la gente di Portorico e dell'America Latina." È stata un'esperienza diversa, filtrata da qualcosa di preesistente, mentre negli altri due dischi ho creato la mia musica a partire da alcuni ingredienti.

AAJ: Quindi nei primi due progetti ti sei mosso all'interno di uno stile preciso. Ti sei detto, "voglio contribuire a questo stile."

M.Z.: Esattamente. Mentre questo disco mio ultimo disco è un mio tributo, la mia rielaborazione di una serie di classici.

AAJ: Come si è diffusa la musica popolare a Portorico? In America è stato grazie alla radio, al cinema e al teatro. Broadway è stato un ottimo trampolino. Come è andata a Portorico?

M.Z.: È abbastanza semplice da spiegare. Molti di quei compositori—per lo meno i cinque sui quali ho concentrato le mie ricerche per il disco—hanno passato molto tempo lontani da Portorico, specialmente a New York che è stata per un lungo periodo, diciamo dagli anni Venti agli anni Settanta, un centro importante per la musica Latino Americana, non solo Portoricana.

Quindi compositori Portoricani quali Rafael Hernandez o Pedro Flores hanno composto la maggior parte della loro musica all'estero. E questa è arrivata a Portorico perché in America avevano trovato valide case discografiche con le quali incidere. E la radio ha fatto il resto. Ma se fossero rimasti a Portorico, forse non sarebbe stato possibile.

Lo stesso vale per altri compositori come Bobby Capo e Tite Curet Alonso, che sono vissuti all'estero per alcuni periodi e lì hanno composto. Rafael Hernandez ha vissuto anche a Cuba e in Messico. Si può dire che fosse una star internazionale, al punto che c'è chi lo crede Cubano e chi Messicano.

Insomma, come altrove è stato merito dei dischi e della radio. Ma quegli artisti facevano parte di un movimento nato e cresciuto a New York: un movimento Latino Americano composto da musicisti Portoricani, Cubani e anche Americani—il Mambo, il Tango e tutto il resto. E gli artisti Portoricani ne erano protagonisti, ed è per questo che la loro musica si è potuta diffondere. Ora, io sto mettendo insieme tutta la loro musica in un unico corpus, ma in realtà vanno considerati individualmente. Non componevano in termini di musica Portoricana, scrivevano musica ognuno per un motivo differente. Insomma, oggi parliamo di musica Portoricana solo perché erano tutti originari di Portorico e tendiamo a generalizzare, ma in realtà non è corretto.

AAJ: Dicevi che a Portorico c'è altra musica che ti piacerebbe studiare. Hai già cominciato? Ci sono altri tesori da scoprire sull'isola?

M.Z.: Sì, c'è ancora molto da scoprire e da imparare. Altri stili che vorrei approfondire. Uno ad esempio, si chiama Bomba, rappresentativo della cultura Africana di Portorico. Molto presente e diffuso. È solo un'idea, ma mi piacerebbe mettere a confronto la Bomba di Portorico con gli altri generi simili che si sono sviluppati in tutta l'America Latina, i Caraibi e il Sud America, per seguire e ritrovare le comuni radici Africane. È un progetto che ho in mente da un po' di tempo e che prima o poi svilupperò.

Al momento sono impegnato in un progetto che non ha strettamente a che fare con la musica Portoricana, ma che piuttosto esplora le identità Portoricane, i Portoricani negli Stati Uniti e nello specifico a New York: se questi si considerino Portoricani, Americani o "Portoricano-Newyorchesi" e come ciò influenzi le loro vite e il modo in cui si è sviluppata la città, alla luce della cultura Latino Americana in questo Paese.

Ho intervistato dei Portoricani di seconda generazione nati negli Stati Uniti o a New York, e uso le interviste come base per dei brani. Ci lavoreremo a Febbraio, con il patrocinio della Montclair State University del New Jersey.

AAJ: La maggior parte degli stati Afro-Caraibici—hai citato Cuba e Portorico, ma potremmo aggiungere anche Trinidad & Tobago e la Giamaica—sono piccoli e poco popolati, ma la produzione di musica pro-capite è incredibile. Come mai?

M.Z.: Mi sono fatto l'idea che a Portorico, a Cuba e nelle altre nazioni Latino Americane la musica occupi un aspetto dominante nella quotidianità, molto più che altrove. Forse ciò è legato al retaggio delle tradizioni Africane, è un aspetto legato alla cultura di quelle popolazioni.

Quasi tutti suonano un qualche strumento, tutti cantano, insomma la musica è nel quotidiano.

AAJ: Fa parte della vita di tutti i giorni, è arte popolare piuttosto che arte elevata, che non si può separare dall'esperienza di ognuno.

M.Z.: Esatto. Ci sono certi elementi della musica folkloristica che quando li senti—anche se non li comprendi, e questo è vero specialmente se è musica folkloristica che arriva dalla terra, dal profondo—ti prendono improvvisamente anche se non hai mai sentito prima quel tipo di musica, perché è così umana. E come dici tu, è musica che viene dalla gente—non cala dall'alto. Semplicemente esiste. E chiunque può afferrarla; non devi neanche saper suonare. È qualcosa che ti accoglie.

Siamo davvero contenti per l'uscita di questo nuovo disco e di avere l'opportunità di suonare questa musica. Spero che molti ne vengano attratti, così da riuscire a presentare la musica Portoricana—e tutti questi suoi autori—agli abituali fruitori di Jazz e a chi non abbia ancora avuto l'opportunità di conoscere questi compositori e la loro musica. Spero di gettare un seme, di far conoscere al grande pubblico la musica di Portorico ed i suoi autori.

Discografia Selezionata

Miguel Zenón, Alma Adentro: The Puerto Rican Songbook (Marsalis Music, 2011)

SFJAZZ Collective, Live in New York Season 8—Music of Stevie Wonder (SFJAZZ, 2011)

Antonio Sanchez, Live in New York at the Jazz Standard (CAM Jazz, 2010)

Miguel Zenón, Esta Plena (Marsalis Music, 2009)

Guillermo Klein, Filtros (Sunnyside Records, 2008)

SFJAZZ Collective, Live 2007 4th Annual Concert Tour (SFJAZZ Records, 2007)

Miles Okazaki, Mirror (Jazz Engine Records, 2006)

Miguel Zenón, Jibaro (Marsalis Music, 2005)

Charlie Haden, The Land of the Sun (Verve, 2004)

Kendrick Oliver & The New Life Jazz Orchestra, Welcome To New Life (Sphere, 2003)

Quite Sane, The Child of Troubled Times (Rykodisc, 2002)

Miguel Zenón, Looking Forward (Fresh Sound New Talent, 2001)

Either/Orchestra, More Beautiful Than Death (Accurate, 2000)

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA.

Foto di Claudio Casanova (tutte tranne la quarta e la sesta per gentile concessione di M.Zenon).

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