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Microscopic Septet: un incontro casuale col futuro

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Intervista di Gordon Marshall

Il Microscopic Septet è sinonimo di swing: ma non si pensi a qualcosa di stantio e relegato nelle pagine del tempo. Il loro approccio alla musica degli anni Trenta e Quaranta è troppo colto per essere etichettato come retrò, e troppo sentito per essere sdoganato come un polveroso insieme di pezzi da museo. I Micros si muovono su quel frenetico ottovolante che è la scena musicale di Manhattan, che negli anni ha visto nascere e svilupparsi ogni sorta di esperienza Jazz, da Thelonious Monk a Charlie Parker, Sun Ra e Albert Ayler.

Come altri degni rappresentanti della realtà musicale Newyorchese, i Micros sono stati definiti, ridefiniti e ridisegnati da quella frenesia che caratterizza New York. Al contempo, la loro musica gioca con la storia della metropoli e la ridefinisce. In questo modo, hanno costruito un futuro, e lo hanno sempre fatto, a partire dagli esordi, poiché volta dopo volta hanno trasformato i loro incontri con icone e monumenti in modi di reinventare se stessi e il loro tempo.

Tra questi incontri non si può non citare il periodo trascorso da Joel Forrester, pianista e co-leader, con Thelonious Monk a metà degli anni Settanta. Presentato a Monk dalla Baronessa Pannonica de Koenigswarter, la famosa mecenate del Jazz, Forrester si esibì regolarmente per Monk, nell'arco di alcuni mesi, nella casa della Baronessa a Weehawken, in New Jersey. Durante le performance Monk se ne stava sdraiato a letto, ma ascoltava attentamente Forrester che suonava nella stanza a fianco—sbattendo la porta con il piede quando non gradiva ciò che ascoltava...

Forrester capì in fretta ciò che piaceva a Monk: gli piacevano le cose nuove, creative e differenti. Non gradiva affatto i tentativi di derivare un brano dai suoi stessi pezzi, o che questi venissero imbellettati solo per impressionarlo—o il ripetersi balbettante delle stesse frasi. Il frutto di questa esperienza ha costituito la linea guida del Settetto sin dalla sua creazione nel 1980 ad opera del co-leader, Phillip Johnston (sax soprano), e che ancora lo ispira sin dalla sua rifondazione, dopo una lunga pausa, a metà degli anni Duemila.

Innovativi e prolifici, Forrester e Johnston hanno composto più di 180 brani, tra le quali hanno accuratamente selezionato i 34 che compongono i loro primi quattro dischi (Take the Z-Train, Let's Flip! Off Beat Glory e Beauty Based on Science (the Visit) ristampati nei due doppi CD History of the Micros vols. 1 and 2: Seven Men in Neckties / Surrealistic Swing). Questa capacità di creare un gran numero di brani per poi selezionarne solo l'essenziale è una delle caratteristiche distintive dei Micros. Sono riusciti a decifrare il DNA del Jazz, ad esplorare i legami che persino gli stili di musica creativa più free e più eccentrici hanno con i mostri sacri come Jelly Roll Morton e Duke Ellington; e a perpetuare quei fiotti sonori anche se si dividono e si riproducono, si combinano e ricombinano, sgorgando da un passato che non si esaurisce per dissetare il futuro. Ritroviamo tutto questo nel CD di recente pubblicazione Friday the Thirteenth, dedicato al repertorio di Monk.

All About Jazz: Thelonious Monk ha un ruolo molto importante nella vostra storia e nel vostro lavoro. Quando eseguite un suo brano, tendete a mostrarlo sotto una luce nuova, o piuttosto provate a mostrare voi stessi sotto quella luce?

Joel Forrester: Dovendo scegliere tra queste due opzioni, direi che cerchiamo una sintesi che mostri la nostra gratitudine per il fatto che Monk sia esistito... e la gioia di riuscire ad esprimere noi stessi.

Phillip Johnston: Beh, è una risposta molto più articolata di quella che ti do io, vale a dire nessuna delle due cose. Ci piace la musica, punto!

J.F.: Sono d'accordo.

AAJ: Nel recente articolo di Ken Dryden apparso sul New York City Jazz Record, fornite due versioni contrastanti circa il vostro primo incontro: che mi fanno dire che di voi due Joel sia quello dotato di immaginazione e Phillip sia quello che si basa sui fatti...

J.F.: No—io sono il bugiardo spudorato, quello con poca memoria!

P.J.: Vivevamo entrambi sulla Decima Strada. Joel viveva tra la Prima Avenue e Avenue A, mentre io stavo tra la Prima e la Seconda Avenue. Joel stava passeggiando e mi sentì suonare "Well, You Needn't" di Monk; venne su e entrò nel mio appartamento.

AAJ: Quindi è successo davvero così.

P.J.: Certamente. L'unica cosa su cui non siamo d'accordo è il mio indirizzo preciso!

AAJ: Parliamo dei vostri dischi: ce ne sono quattro in circolazione: i due doppi per la Cuneiform con le ristampe dei vostri primi quattro dischi, History of the Micros vols. 1 and 2: Seven Men in Neckties / Surrealistic Swing, e poi i nuovi dischi Lobster Leaps In del 2008 e il recente Friday the Thirteenth. Cosa è successo tra quei due periodi?

P.J.: Ci siamo sciolti nel 1992: Joel suonava con il suo quartetto, mentre io registravo con il Transparent Quartet e con i Big Trouble, oltre a comporre musica da film. Quando la Cuneiform ripubblicò i nostri vecchi LP degli anni Ottanta, ricomponemmo la band per promuovere l'uscita dei dischi. Oramai già vivevo in Australia, a Sydney. Ma ci divertimmo così tanto che decidemmo di non smettere, e almeno un paio di volte l'anno torno per esibirmi e per incidere.

J.F.: Era bellissimo suonare di nuovo insieme. Così abbiamo messo in croce Phillip al punto di costringerlo a tornare.

AAJ: L'aspetto più affascinante dei vostri dischi più recenti è l'abbondanza di fraseggi e la leggerezza che traspare dai pezzi, mentre nei dischi precedenti c'era una sorta di oscurità, di difficoltà celata sotto la superficie. Come se ve la passaste meglio oggi di allora—negli ultimi dischi sembrate proprio più felici. È davvero così?

P.J.: Io non vedo tutta questa differenza, anche se probabilmente ora siamo un po' più in pace con noi stessi. Mi sorprende che questo si noti nei dischi, ma se davvero è così, ne prendo atto. Quanto a me, mi sento in pace, ma non in pace con me stesso.

J.F.: E per quanto mi riguarda, non sono mai stato in pace con me stesso, ma di certo sono molto più in pace con il Microscopic Septet di quanto lo sia mai stato prima... E durante la pausa di cui parlavamo prima mi è capitato di suonare per accompagnare dei film muti, a Parigi. E forse il mio attuale stato di pace nei confronti del Microscopic Septet deriva dal considerare la band come se fosse un meraviglioso film muto che accompagno con la mia musica.

AAJ: Sei l'ego della band...

J.F.: Il super-ego... Phillip è il vero leader della band, io ne sono solo l'eminenza grigia.

AAJ: Parlando di Freud, che ruolo gioca l'intuito, il "processo primario," nel vostro flusso creativo—contrapposto alla teoria musicale in senso stretto? So che siete artisti molto puntigliosi oltre che abilissimi con gli strumenti, ma i vostri titoli sono ricchi di giochi di parole, di modi di dire—quando componete un pezzo lo pensate più dal punto di vista teorico o è più un fatto spontaneo?

J.F.: Personalmente posso dire che raramente parto da un'idea. Di solito accade così: mi salta in testa una melodia, e se riesco a immaginarmela suonata dal Microscopic Septet, allora finisce che la suoniamo davvero.

P.J.: Per me è vero il contrario: parto da un'idea e cerco una melodia che la possa esprimere.

J.F.: Siamo agli antipodi!

P.J.: Due facce della stessa medaglia... Ma penso che la gestalt, la forma della melodia sia una cosa molto intuitiva: la nascita dell'idea con la "I" maiuscola—idea e intuizione, ragione e emozione, non sono concetti distinti, sono l'una componente dell'altra. E separarle porta a una dicotomia artificiosa, fasulla. L'idea è come un fulmine emotivo, intuitivo, sul quale in un secondo tempo devi costruire razionalmente tutto ciò che serve per farla funzionare a dovere.

J.F.: Sono totalmente d'accordo con l'analisi di Phillip, e ti dico che spesso ho la sensazione—e so benissimo che è un'illusione, anche se è certamente determinante—che la melodia che ascolto esista sul serio, fatta e formata, magari altrove, e che il mio compito sia tradurla in qualcosa di vero, reale.

AAJ: Nella vostra musica siete saldamente al volante, ma pestate anche sull'acceleratore per fare una bella scorribanda. Un funky, che non implica per forza quel ritmo fortemente sincopato alla James Brown, quanto piuttosto uno swing che pervade il pezzo.

J.F.: Per me funky è sinonimo di basilare, di fondamentale. Sia io che Phillip siamo persone emotive, e questo è vero per chiunque, in fondo.

AAJ: Orientati alle radici delle cose?

J.F.: Poco complicati, elementari direi.

P.J.: La musica è composta da svariati elementi. E questo è uno. E direi che certamente è uno dei più importanti.

J.F.: Diciamo che facciamo in modo che la ragione stia fuori dai piedi.

P.J.: Se manca quello swing, o se, a seconda dello stile della melodia, non gira, allora va tutto in malora.

AAJ: La vostra musica trae molta ispirazione da Duke Ellington... si può dire che sia il riferimento principale? O questo va piuttosto cercato nelle Big Band?

P.J.: Beh, Ellington certamente; Monk e Ellington—e forse Mingus: sono tre figure molto importanti nella definizione del sound della band.

J.F.: Mettiamoci anche Jelly Roll Morton e i suoi ensemble. Consideriamo tutti e quattro.

AAJ: E riguardo al nome della vostra band: è come se metteste il lavoro di una Big Band al microscopio per vedere come lavora a livello microscopico, cellulare...

J.F.: Acuta, come definizione.

P.J.: Il mio ideale di nome per una band è quello che può essere interpretato a diversi livelli. Ad esempio, secondo me uno dei migliori nomi per una band è Material, una band rock degli anni Ottanta. Material ha così tanti significati, che abbiano a che fare con la musica o meno... Quanto a Microscopic Septet—in parte gioca sulla contrapposizione alla dimensione delle Big Band: una Big Band è grande per definizione, noi siamo microscopici. Ma dopo un po' ti accorgi che esistono anche altri significati che emergono solo col tempo.

AAJ: Surrealistic Swing (Cuneiform, 2006) è il titolo di una delle vostre riedizioni in doppio. Chi si è inventato quel titolo?

P.J.: Non siamo stati noi, è stato qualcuno in una recensione. Quando lo abbiamo ripubblicato non sono riuscito a ritrovare quella recensione, era comunque della metà degli anni Ottanta, e mi sembrava un'ottima descrizione di ciò che avevamo fatto. E lo stesso vale per Seven Men in Neckties (Cuneiform, 2006).

AAJ: In generale i vostri titoli sono spesso surreali. Alcuni sembrano persino anagrammi. Che mi dite ad esempio di "Pack the Ermines, Mary"?

J.F.: Quella è una citazione di William Burroughs. Vuol dire "lasciamo la città, immediatamente!"

AAJ: Leggete letteratura surreale? È una fonte di ispirazione per voi?

P.J.: Mi piace, ma in generale nella musica ci si mette di tutto—cose personali, film, libri, televisione, musica Pop, Jazz—e tutto viene poi fuori in qualunque cosa tu faccia.

J.F.: Sono d'accordo con Phillip e aggiungerei una cosa, riguardo ai surrealisti: che io sappia, sono stati i primi ad organizzare un movimento basato sull'idea del sogno. E influenza noialtri che siam venuti dopo... Badiamo ai nostri sogni, ma cerchiamo anche di trovare i nostri sogni nella vita reale.

P.J.: Vuoi dire che siamo "post-surrealisti"?

J.F.: No, non credo che ci possiamo collocare in alcun movimento.

AAJ: La vostra musica è in grado di comporre un puzzle—mettendo insieme elementi provenienti dalle grandi Big Band del passato—Monk, Charles Mingus, Ellington, Fletcher Henderson, persino Sun Ra—se foste un pezzo del puzzle che rappresenta la musica di domani, dove vi collochereste?

J.F.: Credo che esistano solo due possibili definizioni: una definizione restrittiva e una liberatoria, che include anche il futuro. La prima forma non può prescindere dai concetti. Ma dato che non esiste alcun concetto del futuro, noi speriamo di fare un tipo di musica che vive adesso e che vivrà in futuro.

P.J.: In giro si legge spesso un'ovvietà, vale a dire che il Jazz ad un certo punto ha smesso di evolversi perché le sue nuove espressioni non somigliavano più alle evoluzioni che si erano verificate nel passato. La storia della musica, sia Jazz sia Classica, è avanzata al ritmo di questa marcia funebre dalla tonalità all'atonalità: quando ci siamo trovati Schoenberg da una parte e John Cage dal'altra, o Albert Ayler e la musica improvvisata come si intende in Europa, allora s'è detto che il viaggio finiva lì. E chi analizza lo sviluppo del Jazz non ne vede più perché ormai quel viaggio è finito. Ma non sono assolutamente d'accordo, e penso che gli ultimi 30 o 40 anni siano stati i più interessanti, anche se i meno studiati e meno apprezzati, nella storia del Jazz.

Queste vie poco battute, tralasciate dalla folle corsa verso l'atonalità, sono adesso riscoperte da chi prova a combinare esperienze e integrare influenze degli ultimi 30 o 40 anni, ottenendo una musica decisamente sorprendente.

J.F.: E quando siamo davvero in forma, non ci occupiamo del futuro, ma del futuro del futuro.

AAJ: Il concetto di ricombinare elementi del passato e del presente mi fa pensare a John Zorn, che ebbe un ruolo nella vostra band in passato. Che contributo diede Zorn? Perché lo avete voluto nella band?

P.J.: John era uno dei miei migliori amici d'infanzia. L'ho voluto nella band perché era qualcuno con cui avevo già suonato. Io e Joel avevamo già suonato parecchio con John prima di costituire i Micros. Avevamo formato un trio e un altro gruppo —insieme a Wayne Horvitz, Marty Ehrlich, Elliott Sharp e Bobby Previte. Suonavamo in questo posto chiamato "Studio Henry" con quei musicisti e con altri: eravamo parte di un gruppo di persone che condividevano l'interesse per il Jazz, che cercavano di far evolvere questo tipo di musica, esplorando diverse direzioni. E la nostra è una di quelle. Mentre altri si avviarono in altre direzioni.

J.F.: E per rispondere alla domanda su cosa Zorn ha portato alla band, direi che ha portato tutta la sua "Zornicità"!

P.J.: Agli esordi dei Micros non avevamo la più pallida idea del tipo di band che saremmo stati. Sperimentavamo, e alla fine decidemmo che la cosa migliore da fare fosse fare la nostra musica. E John contribuì con un arrangiamento dal tema di Barney Miller, un arrangiamento di "Tico Tico" e altri basati su canzoni di Sonny Clark. Ma già quando ci dedicammo al nostro primo disco eravamo già molto concentrati sulla nostra musica originale, e lasciammo cadere il discorso degli arrangiamenti.

AAJ: Parlando di arrangiamento e composizione, mi sembra vi siate divisi i compiti abbastanza equamente. Su di un singolo brano, rimane questa divisione o ci sono delle responsabilità condivise?

J.F.: Quando Phillip compone qualcosa, cerco di ascoltarla immediatamente e di dare il mio contributo; e lui fa lo stesso se a comporre sono io. E adoro quello che Phillip riesce a dare alle mie composizioni. In più, quando compongo un pezzo non penso soltanto agli ottoni e a quel che possono dare al brano, ma mi preoccupo di inserire un momento appositamente studiato per dare a Phillip la possibilità di dire la sua.

P.J.: Quando componiamo lavoriamo separatamente e forniamo due contributi distinti. Ma per quanto mi riguarda è ovvio che sento l'influenza di Joel, e c'è comunque uno scambio di idee, anche se grossolane.

J.F.: E anche la band contribuisce a plasmare le composizioni.

P.J.: Siamo aperti a qualunque contributo... Ricordo una volta in Ohio, avevo scritto un brano che pensavo gli sarebbe piaciuto davvero. Mi disse, "Io e John l'avremmo scritto proprio così!"

AAJ: Che musica vi piace ascoltare? Solo Jazz, o anche Rock, o Classica—cosa c'è nel vostro iPod?

J.F.: Non so bene cosa sia un iPod! Comunque in questo periodo sto ascoltando molta musica Carnatica (tradizionale del Sud dell'India), e un sacco di musica pre-Barocca, medioevale e rinascimentale.

P.J.: I miei interessi spaziano parecchio, pur essendo abbastanza specifici. Ascolto musica classica del ventunesimo secolo, musica elettronica, Jazz d'avanguardia, musica improvvisata— e adoro anche il Jazz degli anni Venti.

AAJ: Joel, sembra che tu sia il concettuale, mentre tu Phillip sei il tecnico... è così?

P.J.: Direi che io son quello pedante, che mi deriva dall'aver insegnato musica per 10 anni.

AAJ: Che mi dici della tua formazione e del tuo strumento, il sax soprano?

P.J.: Se ho scelto il sax soprano lo devo all'ascolto di Sydney Bechet, ma anche di Johnny Hodges e Steve Lacy. Quanto a Coltrane (e so di dire un'eresia), lo apprezzo da un punto di vista intellettuale, ma non ha mai catturato veramente il mio interesse. Diciamo che non mi ha interessato la direzione che ha preso. Ma mi piace Evan Parker.

J.F.: Finora non ho sentito alcun Coltrane nel tuo modo di suonare, Phillip.

P.J.: Non so se ne sarei capace!J.F.: Ma d'altra parte avevo quel libro di Slonimsky, Scales and Melodic Patterns, sul quale avrebbe studiato anche Coltrane.

AAJ: Come riuscite a darvi una disciplina quando suonate? C'è qualcuno che fa il "cane da guardia"?

J.F.: In questa band ci preoccupiamo di comporre musica appositamente per i sassofonisti. Gli diamo ciò che vogliono, e loro non si ribellano. E nelle nostre composizioni non ci sono assoli che durino più di un minuto per volta. Devono soddisfare il proprio ego in altri modi.

AAJ: Gli assoli, seppur brevi, sono accuratamente studiati e finemente elaborati: in uno ci senti Lester Young, in un altro Albert Ayler, proprio un bel mix.

J.F.: Grazie.

P.J.: Le persone che ci piacciono, che vogliamo nella band hanno, come noi, molteplici interessi che riescono ad esprimere attraverso il loro modo di suonare. Credo sia questo che ci unisce come musicisti.

AAJ: Un'altra caratteristica evidente nei vostri brani sono le citazioni, che possono spaziare da "I'll Remember April" fino a "Hey Jude." Sono casuali, spontanee o studiate a tavolino—e appaiono nelle composizioni nella loro interezza, come motivi o temi ricorrenti, o in modo un po' disordinato?

P.J.: Di tutto un po.' Ogni membro della band ha il suo background di classici del Jazz, oltre al resto, che si fa strada nel modo di suonare, spesso in modo arguto, dato che parliamo di solisti molto capaci—ma talvolta siamo io e Joel ad inserire delle citazioni opportune nella trama degli arrangiamenti (è una cosa che ci piace fare). Un buon esempio di ciò è "Lobster Parade" (Seven Men in Neckties (Cuneiform, 2006)), con la citazione di "Hey Jude."

J.F.: E addirittura nel mio arrangiamento di "Pannonica" (Friday the Thirteenth (Cuneiform, 2010)), obbligo il sax tenore di Mike Hashim a citare un pezzo dei Cream. Quel riff mi ballava nella testa.

P.J.: "Sunshine of Your Love."

J.F.: Lo volevo sentire proprio lì. E Mike lo suona, ma lo fa controvoglia—si sente proprio!

AAJ: Insomma, sai anche essere un despota. Hai una tua visione, e vuoi che venga realizzata.

J.F.: Loro possono giocarci, ma solo fino a un certo punto...

AAJ: A proposito Phillip, come hai conosciuto Zorn?

P.J.: Ci siamo incontrati a San Francisco, al Golden Gate Park. Stavo andando al concerto dei Jefferson Starship quando lo sentii suonare il sax, e da quel giorno cominciammo a suonare insieme... Poteva essere il 1974.

AAJ: Quando hai iniziato col sax?

P.J.: Da bambino ho preso lezioni di piano, e alle Superiori decisi di cominciare con il sax; così ne presi uno in affitto, mi comprai il libro di Jimmy Dorsey, "Saxophone Method" e cominciai a suonare. Per i primi cinque anni non presi alcuna lezione, anche se vorrei averlo fatto.

AAJ: Il fatto di essere autodidatta può aver contribuito all'unicità del tuo stile?

P.J.: Nel bene e nel male...

AAJ: Joel, qual è il tuo background musicale?

J.F.: Da bambino, a Pittsburgh, avevo un insegnante di pianoforte molto stravagante, si chiamava Henry A. Volz. Mi faceva suonare le sue composizioni. E lo maledii quando, adolescente, incontrai altri pianisti più in gamba di lui. Ma d'altro canto mi preparò davvero alla vita da musicista Jazz. Ad esempio, le lezioni non erano semplici lezioni, dovevo fare un inchino, sedermi al pianoforte ed esibirmi. E alla fine applaudiva.

E si accordò anche con la mia scuola elementare affinché io suonassi nelle varie riunioni. In effetti, ora me ne rendo conto, è stato un modo per lui di farsi pubblicità, ma mi ha abituato a suonare di fronte ad un pubblico. Non solo, lui insisteva molto sull'interpretazione. Non gli importava se sbagliavo, ma voleva che suonassi col cuore.

AAJ: Perché nel 1992 vi siete sciolti?

P.J.: Principalmente per il fatto che in quel periodo, tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, ci fu un'ondata di musicisti Newyorchesi, più di avanguardia, che firmavano per le grandi etichette, erano lì lì per pubblicare un disco e poi il progetto naufragava all'ultimo momento, e noi non riuscivamo a pubblicare i nostri. Devo dire che era una cosa davvero frustrante.

In più volevo cominciare a far qualcos'altro con strumenti diversi ed ero anche molto impegnato con l'attività legata alle colonne sonore in quei primi anni Novanta.

J.F.: Dal mio punto di vista, la decisione di sospendere l'attività della band per un decennio fece sì che il mio futuro potesse cominciare.

Discografia selezionata

The Microscopic Septet, Friday the Thirteenth (Cuneiform, 2010)

The Microscopic Septet, Lobster Leaps In (Cuneiform, 2008)

The Microscopic Septet, Surrealistic Swing (Cuneiform, 2006)

The Microscopic Septet, Seven Men in Neckties (Cuneiform, 2006)

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA

Foto di Claudio Casanova (la quarta e la nona), Gordon Marshall (la sesta) e Lars Klove (la penultima).

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