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Massimo De Mattia, la professionalita' di un non professionista

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Mi divora da sempre una idea, un ideale, un'utopia: la musica come simposio di pensatori liberi, tale che chiunque possa alzare la mano e dire la sua...
Massimo De Mattia, flautista, improvvisatore e compositore di Pordenone, è uno dei numerosi musicisti di valore usciti dalla fucina friulana. Artista radicale - predilige, anche se non si limita a, l'improvvisazione totale - e autore negli ultimi dieci anni di lavori di grande complessità e interesse, da Schiele ai più recenti Mikiri+3 e Black Novel, passando per La parte (o)scura e numerosi lavori in formazioni ristrette, come il recente The Jazz Hram Suite, con Giovanni Maier e Zlatko Kaucic. Abbiamo dialogato con lui per capire meglio la sua personalità artistica.

AAJ: Iniziamo da una domanda apparentemente banale: suoni il flauto e solo il flauto, strumento non diffusissimo nel jazz, specie come strumento esclusivo. Come sei giunto a questa scelta?

Massimo De Mattia: Il flauto è stato il mio strumento d'elezione fin da bambino, non ho mai avuto "deviazioni". Le ragioni di questa predilezione stanno forse nella mia storia generazionale: tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, quando cioè ho cominciato a interessarmi alla musica, il flauto imperversava nel pop, nel rock, nel progressive. Non ho mai immaginato di dedicarmi ad altro, anche perché questo strumento richiede una dedizione assoluta. In realtà, ci sono tanti musicisti che sono stati anche, ma non solo flautisti, e l'hanno fatto molto bene; tuttavia il flauto è uno strumento esclusivo e difficile, non perdona digressioni. Se non hai sufficienti energie, attenzione e tempo da dedicargli non puoi sfruttarne le infinite potenzialità. Puoi impiegarlo come strumento complementare, visto che nel jazz spesso viene richiesto, e va benissimo; ma per me, per l'amore che nutro nei suoi confronti, non è assolutamente possibile.

AAJ: Non hai però una formazione classica.

M. D. M.: Infatti, sono un autodidatta, anche se ho sempre frequentato e studiato da solo il repertorio e la letteratura classici. Per il flauto sono state scritte pagine musicali straordinarie nei secoli passati, e nel Novecento ha assunto un ruolo di autentica avanguardia: negli ultimi decenni è stato indagato da compositori come Berio, Sciarrino, Donatoni, Ferneyhough, anche grazie alle loro ricerche questo strumento è ora in continua evoluzione a livello tecnico, di materiali e di linguaggio. Parallelamente, un'altra forte emancipazione si è registrata nel jazz, a partire da Eric Dolphy. In particolare, le ultime tracce flautistiche di Dolphy - penso ad esempio al suo assolo su You Don't Know What Love Is in Last Date - sono talmente "oltre"...!

AAJ: Questa indistinguibilità e superamento dei generi si sente anche in tutta la tua musica: fin dalle prime cose che ho ascoltato di te - penso ad esempio a Schiele - ho sempre avuto grande difficoltà a dire se si trattasse di jazz o d'altro...

M. D. M.: Prescindendo dalle etichette, vivo con vorace interesse tutta la musica, che ha sempre rappresentato uno strumento di emancipazione e di liberazione: non a caso negli anni '60 e '70, nelle cantine e i ritrovi d'Italia e del mondo, si suonava ogni tipo di musica! Tutti imbracciavano uno strumento e si davano da fare! Io ho seguito un percorso piuttosto articolato: prima la classica, il rock, il progressive, il jazz rock; quindi la scoperta del jazz, da Roland Kirk e da Eric Dolphy... Sono rimasto immediatamente folgorato da Out to Lunch!. Contemporaneamente scoprivo però anche le cose più ardite della musica contemporanea: ricordo alcune coraggiose interpretazioni di Severino Gazzelloni, un vero pioniere, e composizioni di Roman Vlad, Edgar Varése, Luciano Berio, Luigi Nono... E, ancora, certe promiscuità tra jazz e musica classica e moderna, come le orchestrazioni di Gil Evans e George Russell. Ecco, certamente mi hanno influenzato questi sguardi al futuro, questi intrecci stilistici e culturali. Il jazz ha una sua magica prerogativa: scioglie certi freni inibitori rispetto ad altri territori sonori. Spesso offre libero accesso a luoghi che, con il retaggio di altre culture, ti sarebbero preclusi. Oggi tutto ciò diventa determinante, perché nella musica del presente e del futuro le libertà conquistate dal jazz diventano indispensabili. Nuove forme di pensiero musicale si profilano grazie a queste conquiste.

AAJ: Ho però sempre osservato che, nelle tue opere, inserisci anche un elemento in più: il riferimento, assai frequente almeno nel "concetto" dei lavori, ad altre forme d'arte, in particolare alla pittura. Come arrivi a pensare un'opera musicale a partire dall'arte figurativa?

M. D. M.: Deriva da una forte passione giovanile: da ragazzo avrei voluto iscrivermi al liceo artistico e frequentare poi l'Accademia, ma è rimasta una velleità, senza però che la passione per l'arte figurativa venisse mai meno. Inoltre mi divora l'amore per la lettura. Credo poi che la musica, senza dover essere necessariamente "concettuale," debba comunque sempre esprimere pensiero. E sono convinto che, limitandosi a indagare il solo ambito musicale, la ragnatela della forma ti possa intrappolare: il musicista rischia di involvere invece che evolvere, di restare concentrato sulle mani. Il pericolo che stiamo correndo oggi è forte: il panorama, italiano e internazionale, purtroppo mette in evidenza musicisti con preparazione tecnica straordinaria e inimmaginabile venti o trent'anni orsono... ma la musica ha rallentato, non cresce.

AAJ: Infatti, ogni giorno escono decine di dischi - spesso di musicisti sconosciuti - e risulta difficile trovare un lavoro che sia tecnicamente scadente; il problema è che la maggior parte sono privi di un progetto originale, già sentiti, quindi noiosi...

M. D. M.: Se cerchi oltre, se non ti accontenti di una musica che sia consolatoria, energetica, estetizzante, fai davvero fatica a trovare qualcosa nella produzione odierna. Secondo me, anche a scapito del risultato "estetico" - che è importante, perché la forma deve essere sempre curata - l'aspetto più importante è quello dei contenuti. Specie oggi che si produce con facilità e perciò si pubblica molto, forse troppo e si consuma tutto con grande rapidità.

AAJ: Guardando le formazioni con cui realizzi i tuoi progetti balza agli occhi che tu privilegi assolutamente il piano umano. Certo, lavori sempre con eccellenti musicisti, ma è anche chiaro come siano anche e forse soprattutto persone con cui hai rapporti che vanno oltre il lavoro di musicisti. Raramente, insomma, si trova nei tuoi lavori il musicista "ospite".

M. D. M.: Credo molto nella crescita del rapporto umano parallelamente a quello artistico. Sento che non è facile sostenere le conseguenze di certe scelte con persone che conosci poco o non ami abbastanza. Sono abituato a relazionarmi con persone prima ancora che con musicisti; non credo possa esserci bella musica o progresso artistico senza buon grado di conoscenza e di empatia.

AAJ: Per te questo è decisivo?

M. D. M.: Sì, fondamentale. Ho la consapevolezza di non avere una preparazione solida e per poter essere in grado di sostenere le mie rinunce ho bisogno di persone che mi offrano grandissimo conforto. Confesso candidamente le mie lacune: ho una capacità di lettura lenta, non so scrivere arrangiamenti strutturati, compongo in modo personale, ho idee piccole, sviluppo appunti. Fortunatamente devo dire che qui in nel Nord Est c'è una buona predisposizione per la musica più libera. Non so perché, forse per la proiezione verso l'Europa, forse perché viviamo in una zona di transito... Fatto sta che ho la fortuna di frequentare artisti liberi e di grande valore - Daniele D'Agaro, Giovanni Maier, Zlatko Kaucic, Claudio Cojaniz, Giorgio Pacorig. Maier ad esempio ha coltivato con grande coraggio le risorse del territorio, relazionandosi alla pari con musicisti più giovani e agevolandone spesso la maturazione. Svolge una importantissima missione didattica. Così come Kaucic, che sa condividere il palco anche con ragazzi giovanissimi e sa donare le proprie conoscenze con una generosità commovente.

AAJ: Dicevi di un percorso non tradizionale: ma tu oggi sei un musicista "professionista"?

M. D. M.: No. Praticamente io non suono mai in pubblico e non sarei in grado di sopravvivere con la mia musica; non ho qualifiche né qualità per poter insegnare, negli anni ho solo raccolto riconoscimenti artistici. Qualcuno amabilmente ha voluto eleggermi migliore flautista jazz italiano 2011: in verità sono il più disoccupato; forse è una tragedia, forse una fortuna. E purtroppo mi trovo anche in un momento particolare della mia vita: visto il momento drammatico che stiamo vivendo, devo dosare i miei impegni, anche solo per poter continuare a studiare, l'altro lavoro mi devasta. D'altronde, però, essere un non professionista offre anche vantaggi: ti consente infatti di tirare diritto, di fare solo ciò che vuoi, senza incertezze.

AAJ: Oltre alla libertà di scelta, forse ciò ti spinge a mantenere la barra nella direzione del rigore, a tenere alta l'attenzione, perché sei consapevole di poter facilmente mettere un piede in fallo. E questo può fare la differenza: quante volte si vedono grandi musicisti, dalle qualità tecniche assolutamente indiscutibili, realizzare il "compitino" di routine, per mestiere e sopravvalutazione! Ancor più evidente e deprimente quando suonano assieme più "stelle" e il risultato, invece che il prodotto di una somma, va in sottrazione.

M. D. M.: Hai affermato una cosa importante: va in sottrazione. È un caso molto frequente nel jazz italiano, spesso la filosofia del produttore è di mettere il "bollino" dell'ospite illustre, invece che prestare attenzione e cura al progetto. Probabilmente anche perché i produttori e gli organizzatori di festival sono alla ricerca più dell'"evento" - che il grande nome agevola - che dello spessore artistico. Una cosa che invece sta molto a cuore a direttori artistici più sensibili, come ad esempio Flavio Massarutto, che è sempre alla ricerca del nuovo, dell'inedito, del prezioso, che ha spirito organizzativo creativo e coraggioso.

AAJ: A proposito di Massarutto, è parte proprio di Jazz Loft, progetto particolare che da tempo attende di vedere la luce.

M. D. M.: Siamo amici da diversi anni e più volte è stato partecipe, suggeritore, generatore di eventi che mi hanno coinvolto. In questo caso (Jazz Loft) è l'ideatore di un'opera che prevedeva la composizione di musiche per la sceneggiatura di una storia noir a fumetti realizzata da Massimiliano Gosparini. Musiche e gruppo sono condivisi con Bruno Cesselli. Il tutto verrà pubblicato come allegato speciale della rivista Musica Jazz nei prossimi mesi.

Flavio è una persona molto preparata e coscienziosa; il nostro pensiero viaggia parallelo, ci sentiamo molto vicini artisticamente e politicamente, ci consultiamo spesso. Non ci risparmiamo critiche. Siamo liberi e siamo lottatori, determinati.

AAJ: Tornando al tuo lavoro storico mi piacerebbe capire se c'è una proposta artistica che progressivamente si evolve o se si tratta di progetti cangianti all'interno della medesima idea di musica.

M. D. M.: In realtà mi divora da sempre un'idea, un ideale, un'utopia che il tempo aggiusta, evolve alla luce di ispirazioni, degli incontri, delle epifanie - come dicevo spesso extramusicali - che di volta in volta ne arricchiscono il senso. La musica come simposio di pensatori liberi, tale che - con assoluta compostezza, serietà, ironia e rispetto - chiunque tra chi viene coinvolto possa alzare la mano e dire la sua, anzi, abbia libertà di farlo anche senza alzare la mano. La musica come massima espressione della democrazia, con un buon grado di ribellione all'ovvio. Sono rimasto elettrizzato da certe letture di Artaud, Genet, Bataille.... Se leggi bene tra le mie note questi riferimenti li ritrovi, così come ritrovi Pasolini, sempre. Poi, dicevamo, la pittura: io la musica la "vedo," frequentemente le mie suggestioni musicali sono suggestioni pittoriche. Libertà sì, ma affrancata dal caso: la musica libera deve essere sempre pensata, anche se istantanea; sempre consapevole del passato. La composizione immediata è una disciplina rigorosa, nella quale non si bluffa: la valuti subito: o è oro, o è merda.

AAJ: Da che cosa lo capisci?

M. D. M.: Dal fatto che percepisci se quello che hai appena improvvisato è già diventato scultura, nel senso che ha manifestato tutti i criteri di sviluppo non di una composizione in senso tradizionale, classico, ma comunque di un disegno che inizia e va a chiudersi. Per agevolare questo processo puoi anche adottare tecniche e pratiche insolite che mimino la scrittura. Ad esempio, lavorare sulla durata, sulle dinamiche, sull'intensità...

AAJ: Quanto ti influenza la composizione del gruppo, l'ampiezza, il tipo di strumenti?

M. D. M.: Amo la solitudine strumentale e ne ho bisogno; è una disciplina che porta a un grado di consapevolezza altissimo ma richiede molta concentrazione e coraggio. Tuttavia non invidio gli anacoreti, prediligo la condivisione.

AAJ: Resta il fatto che hai dei compagni di viaggio privilegiati.

M. D. M.: Certo, Denis Biason e Bruno Cesselli, una conoscenza quasi quarantennale. Sono musicisti eccelsi e persone amabili. Denis è un chitarrista straordinario, pochi mi hanno emozionato come lui. Bruno ha grande sensibilità, esperienza e conoscenza [leggi le recensioni dei CD in duo con Biason, Duel e Duel 2]. Sono in tanti a dovergli molto. Poi Luca Grizzo, vocalist, percussionista e performer: la sua presenza scenica è sempre emozionante, intensa, vitale. Tre artisti che meritano maggiore visibilità e attenzione.

AAJ: Forse non è un caso che abbiate stretto un sodalizio quasi stabile. Magari ci vorrebbe qualcuno che "tiri"...

M. D. M.: Forse sì, se qualcuno di noi fosse un po' più intraprendente... E poi ci sono i più giovani, Alessandro Turchet e Luca Colussi, meravigliosi. E, adesso, gli incontri più recenti - e determinanti - nella mia vita: il vibrafonista Luigi Vitale e il sassofonista Nicola Fazzini.

AAJ: Musicisti presenti nei due ultimi lavori, Black Novel e, appunto, Jazz Loft.

M. D. M.: Black Novel rappresenta un punto di svolta, un momento molto importante nel mio percorso, una sintesi. Il fatto che Massimo Iudicone l'abbia voluto per Rudi Records, etichetta giovane già molto apprezzata, mi rende entusiasta. Massimo è coraggioso, appassionato, concede fiducia, rischia; oggi sento la Rudi come una nuova casa. È un disco di musica completamente libera. Talvolta sembra affiori della scrittura, ma in realtà tutto è improvvisato. Gioca un ruolo molto importante il vibrafono di Luigi Vitale, che adoro per la sua capacità di ridurre ogni intervento all'essenziale.

Jazz Loft invece è un'opera nella quale mi sono davvero messo in gioco. Come dicevo, tutto parte da una proposta di Massarutto, che - volendo mantenere un determinato legame con il progetto grafico e narrativo, conoscendomi bene e sapendo quali stimoli solleticare - ha avanzato anche precise esigenze tematiche relative al copione. A quel punto ho ritenuto indispensabile condividerne la realizzazione con Bruno Cesselli. Non è mai facile scrivere a quattro mani, anche quando c'è grande empatia con il tuo partner artistico, ma in questo caso le idee si intersecavano spontaneamente, sempre in sintonia. Un'esperienza molto bella.

In Jazz Loft la scrittura è davvero rilevante: ci sono strutture, arrangiamenti e perfino la rilettura di una song - "Tea for Two," come da sceneggiatura. Ovviamente la quota free è importante, ma, lo sottolineo, il sapore jazz è intenso. Il sestetto - Vitale e Fazzini, accanto a me Bruno, Turchet e Colussi - funziona in modo entusiasmante.

AAJ: L'idea è illustrare le tavole del fumetto?

M. D. M.: In parte; in realtà tracciamo dei capitoli. Flavio ha condiviso la sceneggiatura con Gosparini; le tavole sono capolavori, vere piccole preziose opere pittoriche; parallelamente ha indicato i momenti che secondo lui dovevano essere tradotti in suono, indicazioni che abbiamo rispettato. Devo dire che, alla fine, siamo tutti entusiasti dell'interazione testo-immagine-musica. Ne attendiamo la pubblicazione a cura della storica rivista Musica Jazz.

AAJ: Arrivati in fondo due progetti come questi e fermo restando il momento delicato che stiamo attraversando, a cosa stai guardando?

M. D. M.: Sto portando a termine una nuova opera discografica in trio con Cesselli e Turchet; si intitolerà Trilemma, musica molto, molto, astratta. Come sempre affermo di un nuovo lavoro: il migliore, il più avanzato. Siamo entrati nel suono liberi da ogni volontà. Poi ci sarebbe, o meglio c'era e resta sospesa, un'idea ambiziosa cui terrei molto.

AAJ: Di cosa si tratta esattamente?

M. D. M.: Di un impegno sulla musica di Julius Hemphill, musicista che ha influenzato fortemente il jazz contemporaneo e tuttavia rimane trascurato e negletto. Proprio per il livello straordinario dell'intellettuale e dell'artista si tratta di un progetto che richiederebbe molto tempo e lavoro accurato; fin dall'inizio l'ho immaginato come una esperienza da condividere con Bruno Cesselli. Avremmo l'ambizione di arruolare un ensemble piuttosto ampio - inizialmente pensavamo anche alla presenza degli archi. Hemphill si è mosso in tante direzioni, ha scritto molto e in modo molto diversificato ma perseguendo sempre una sua poetica. Ci siano dovuti fermare presto, perché senza ingaggi o una commissione di produzione non è pensabile allestire questo progetto. Anche se comunque ci si dovrebbe interrogare su quanto sia giusto mettere mano a una musica così alta e perfetta, se non sia più giusto limitarsi a divulgarla diffondendola così com'è....

AAJ: Tuttavia dedicarsi ad un autore, anche grandissimo come Hemphill, ha un valore anche per la crescita artistica personale di chi ci lavora, oltre che per la ricerca e la realizzazione di musica nuova e originale.

M. D. M.: Sì, è vero, in un approccio a Hemphill non c'è solo o principalmente una ricerca estetica. La bellezza di certa musica ti colpisce e ti stupisce, ma la spinta a lavorarci sopra viene da altro, dal desiderio di conoscerla a fondo, di misurarsi con lei, di riuscire a metabolizzarla per dire altre cose, le proprie...

Foto di Luca D'Agostino (la prima, la quarta e la nona), Nada Žgank (la seconda), Massimo Poldelmengo (la terza) e Tatiana Brusadin (la quinta, la sesta, la settima e l'ottava).

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