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Marc Ribot
Tempo fa si notava come, a fronte di un'indiscutibile godibilità, i concerti in solo di Marc Ribot risultino sostanzialmente assai simili fra loro: medesima la ricerca, assodato il repertorio di suoni e di gesti. Per carità, piace sempre. Ma ciò non toglie una certa fissità dell'ascolto.
Tuttavia, per questo concerto organizzato dal Centro d'Arte di Padova, qualcosa è decisamente cambiato.
Mai disperare dunque: la ruota karmica gira sempre in maniera imprevista. O forse sin troppo prevedibile quando di mezzo ci si mettono i voli aerei…
Può capitare quindi che un chitarrista in volo da New York a Venezia con scalo a Madrid veda smarrirsi temporaneamente il proprio strumento. E quando il chitarrista in questione risponde al nome di Ribot - un tutt'uno col proprio strumento e col proprio suono, affinato nel tempo - il colpo rischia di essere duro.
Karma ha voluto che, viaggiando come bagaglio a mano, si sia salvata almeno l'acustica. Per cui a Padova s'è assistito all'inatteso: Ribot unplugged! Non un totale stravolgimento, certo, ma senza dubbio il livello d'attesa per un concerto non declinato secondo i consueti effetti, non confortato dall'invadente presenza di un suono elettrico inerpicato sulla schiena dello sperimentalismo, s'è innalzato predisponendo ad una maggior attenzione.
Alla resa dei conti, tuttavia, per come si è svolta quest'insolita prova rimane un dubbio: chi ha voluto (s)favorire la ruota karmica, il pubblico o Ribot?
Tutto prende il via con cauta circospezione: nello spazio rarefatto, orfano delle alchimie elettriche di cui in genere Ribot ama saturare il proprio intorno, le poche note in punta di dita - distinte, secche, scontornate - hanno una capacità d'imporsi all'ascolto quasi sconosciuta.
Musicista e pubblico sembrano sondare - insieme e ognuno secondo le proprie trepidazioni - un terreno che instilla una strisciante diffidenza, reso ambiguo dalla convinzione che non-dovrebbe-andare-esattamente-così: una sorta di surrealtà che attira e al contempo respinge.
I brani acustici che fanno generalmente parte del repertorio solistico di Ribot rappresentano la testimonianza più valida dell'umore (e)stran(e)o della serata. Le classiche languide tetreggianti ballate, gli omaggi alla memoria ayleriana vengono così ulteriormente scarnificate, mondate d'ogni emozione che distragga da un'esecuzione ancora più asciutta, obliqua, straziata. Le dita si irrigidiscono su disarticolate fissità, la trama musicale si comprime, si essicca e si accartoccia in un chiuso sordo rigore senza concessione alcuna allo stupore. Solo lucidissima impenetrabile concentrazione.
Non c'è tempo per abituarsi all'idea e rilassarsi nelle poltrone: scaldati gli strumenti e raggelato un poco la platea, Ribot rilancia l'azzardo e dichiara esplicitamente le proprie intenzioni, fomentando i dubbi su chi sia stato realmente colpito da cattivo karma.
Il lutto per la chitarra smarrita viene superato da Ribot approfittando dell'occasione inattesa per proporre in world premiere dei brani tratti un volume di composizioni che intendono essere esercizi per lo studio dello strumento (o meglio, come precisa, “esercizi per la futilità”). “Esercizi per chitarra”: ci sarebbe di che fuggire all'istante, ma com'è ovvio gli esercizi di Ribot nulla hanno a che vedere con i 120 arpeggi di Giuliani su cui generazioni di apprendisti chitarristi hanno macerato dita e pazienza.
Annunciato il programma, il chitarrista si lancia così in una lunga - è bene ribadirlo: lunga - serie di brani che difficilmente un qualsiasi spettatore giunto all'Auditorium Pollini per assistere a un ‘solo di Ribot' ha trovato accessibili, figuriamoci riconoscibili.
Improntati ad un'ostinata reiterazione, generalmente limitati allo sviluppo di un carattere specifico dell'esecuzione chitarristica, lontani anni luce dalla benché minima struttura narrativa o dinamica interna, gli esercizi di Ribot si sono rivelati né più né meno che esercizi: architetture emaciate e glabre orientate esclusivamente all'affinamento della tecnica dello strumentista, totalmente chiuse ad ogni condivisione espressiva.
E proprio quando il pubblico impreparato - ma i chitarristi in sala erano molti e tutti estasiati - rasenta lo stordimento, Ribot sfodera una brillante manciata di brani per uscire dall'isolamento e ricongiungersi con chi lo ascolta: blues tremolanti di un calore insperato, gli amati morbidi danzón risolti attorno alle stesse poche note, uno standard manuche condotto al fulmicotone. Il chitarrista s'invola leggero (dopo tanto esercizio passa finalmente all'opera), il suono s'impreziosisce di sfumature, di verve comunicativa (merito soprattutto di questa resofonica dall'improbabile colore canarino), il pubblico manifestamente torna a respirare.
A chiusura di un set che più duro e ostico non ci si poteva attendere, per quanto d'impagabile valore esegetico, lo stordimento massimo giunge sotto forma di un'infernale jam session in cui Ribot richiama sul palco il trio formato da Roberto Zorzi, Danilo Gallo e Zeno De Rossi che aveva aperto la serata all'insegna di un'improvvisazione radicale priva di timone, funestata dall'indecisione espressiva della chitarra di Zorzi che ha finito per sacrificare le idee dei compagni.
L'inserimento di Ribot non ha esattamente risolto il caos della situazione, ma ha indubbiamente contribuito a fornire un fuoco stabile attorno cui far ruotare il flusso sonoro, tra idee che continuavano a sfuggire di mano, reminiscenze del passato r&b e saturazioni rumoristiche fini a sé.
Non si può lamentare di aver assistito al ‘solito' solo di Ribot. Ma forse converrà prestare maggior attenzione a cosa attendersi in futuro: la ruota karmica è sempre in agguato. Per tutti.
Foto di Emiliano Neri
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