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Lavori in corso: intervista a Roberto Ottaviano
ByNon faccio dischi per presenzialismo, ma quando è necessario commentare una tappa del mio percorso.
All About Jazz: Sarai in Iraq per rappresentare il jazz italiano in un progetto di cooperazione e pace per conto del Ministero degli Affari Esteri. Di cosa si tratta?
Roberto Ottaviano: È un progetto un po' particolare, legato ad altre situazioni di scambio culturale di vario genere. Ci saranno, oltre a me, un gruppo di musicisti e istituzioni, tra i quali Antonio Sparagna, il teatro Carlo Felice di Genova, il Ravenna Festival e faremo degli incontri con gli artisti locali. Mi hanno chiamato per rappresentare l'area jazzistica, e sarò presente come partnership di Puglia Sounds. Sono situazioni delicate, speriamo di essere blindati come ci hanno garantito.
AAJ: Ti è già capitato di andare a suonare in Paesi così culturalmente lontani dal nostro?
R.O.: Il posto più lontano è stata l'Africa, ma solo perché in alcune zone il jazz non è mai stato presente, come per esempio in Tanzania, anche se poi c'è un filo conduttore che lega l'intera musica afroamericana. Viceversa, la prima volta che sono stato in Isreale mi sembrava che fosse un contesto molto lontano, mentre lì a Tel Aviv c'è una folta comunità che segue il jazz.
AAJ: Ti senti un jazzista italiano o avverti l'appartenenza a una tribù più vasta, diciamo globale?
R.O.: Sì, anche perché non ho mai creduto alla storia del jazz italiano. Ognuno porta nella propria musica la sua storia. Lo stile di ogni musicista ha dei connotati che lo riguardano, ma in fondo l'improvvisatore che poi si riconosce in questo contesto musicale lo fa anche perché si riconosce in una comunità molto ampia. Quando ho iniziato a muovere i primi passi nel jazz mi sentivo molto più a casa in contesti legati al mondo anglosassone che in quelli relativi alla mia terra. Questa è stata una chiave d'accesso importante per quella che dovrebbe essere la vera globalizzazione.
AAJ: «Il jazz mi ha portato ad essere una persona dinamica, che rischia». Lo hai detto tu in un'intervista. Nel tuo caso la musica ha forgiato il modo di essere, o per suonare il jazz bisogna avere un determinato atteggiamento nei confronti della vita?
R.O.: A un certo punto del proprio cammino una persona riconosce determinati elementi della sua personalità. Io li ho trovati nel jazz e ho scoperto di avere dentro di me, grazie al jazz, determinate caratteristiche; è stata una presa di conoscenza e attraverso questo riconoscimento c'è stata la capacità di mettersi in gioco con maggiore cognizione di causa, con più voglia di fare determinate cose. Questo mi dà la sensazione di una vita vissuta, e non semplicemente essere una pedina non attiva nel contesto.
AAJ: Tra l'altro nella tua carriera artistica ti sei spesso dedicato ad aspetti organizzativi. Questo aspetto ha sottratto molto al tuo essere musicista?
R.O.: Sicuramente sì, perché occuparsi di organizzazione, per un musicista che pone attenzione a una serie di particolari che ai più sfuggono, toglie tempo per potersi dedicare appieno alle proprie cose, alla propria ricerca. Questo mette a rischio anche determinati equilibri, perché bisogna essere molto attenti alle relazioni interpersonali, doversi in qualche modo cimentare con giochi diplomatici, rapporti con le istituzioni che francamente alla lunga un po' pesano sul carattere di alcune persone. Tanti musicisti si sono occupati di questo o hanno deciso di autoprodursi, mi vengono in mente Charles Mingus o Evan Parker, che mi raccontava che prima di salire sul palco staccava i biglietti all'entrata del teatro dove suonava. Per un musicista, soprattutto vivendo in determinate realtà ambientali, occuparsi di organizzazione diventa una necessità, altrimenti nessuno lo fa per te.
AAJ: Sei stato direttore artistico di Bari in Jazz.
R.O.: Ho rassegnato le dimissioni quest'anno, a meno che non ci siano dei cambiamenti - nel rapporto con le istituzioni e nella gestione organizzativa - importanti. Le difficoltà sono veramente molte, ho dovuto operare una scelta di questo genere perché ho raggiunto un momento critico.
AAJ: Quest'anno avevate in cartellone anche il trio di Keith Jarrett. Quanto è fondamentale per una manifestazione avere in programma nomi così di prestigio?
R.O.: Non credo che avere nomi altisonanti in cartellone sia un obiettivo così importante. Già molti anni fa organizzavo concerti con personalità straordinarie, ma credo che sia più importante per una comunità culturale far capire alla gente quello che c'è di nuovo in giro per il Pianeta. Se i concerti molto importanti non vengono correlati con la partecipazione di artisti sconosciuti, ma che determinano il linguaggio nuovo, si opera una rivoluzione a metà.
AAJ: La Puglia, culturalmente parlando, sembra diventata un importante epicentro. È proprio così?
R.O.: In questi anni la Puglia ha dimostrato di essere un bacino straordinario di talenti musicali. Abbiamo passato il testimone a generazioni più giovani, che hanno dimostrato di saper affrontare le situazioni con maggior sicurezza, vedi per esempio Gianluca Petrella. L'ho visto crescere e con il tempo è diventato un musicista straordinario, insieme a tanti altri, come se in Puglia ci fosse un dna favorevole per il jazz. Solo negli utlitmi anni c'è stata un'attenzione particolare per questa musica da parte di piccole organizzazioni che si stanno rendendo conto come la sensibilità del jazz sia un fattore importante e competitivo. Mi auguro che le iniziative si moltiplichino in modo da fare uno spot per questa regione, quasi come se fosse la New Orleans italiana.
AAJ: Hai raccontato di aver conosciuto il jazz per caso, trovando un disco in casa quando eri molto piccolo. Oggi in che modo un ragazzo può venire a contatto con questa musica dal momento che sta radicalmente cambiando il modo di fruirne e si stanno perdendo per sempre determinati punti di rifreimento, come ad esempio i negozi di dischi?
R.O.: Paradossalmente oggi le possibilità di entrare a contatto con la musica sono quasi infinite, basti pensare a You Tube dove si può trovare praticamente di tutto. La documentazione è sterminata, ma per andarsela a cercare c'è bisogno di una spinta, di uno stimolo. Credo che come in passato - sotto certi aspetti - sia cambiato poco, nella vita di ogni persona sono importanti gli incontri, dai quali scaturisce la voglia di indagare, di scoprire cose nuove. È un viaggio personale che si compie attraverso le amicizie e gli incontri che tracciano percorsi personali. Questo è necessario, come è importante frequentare ambienti, entrare a contatto con le persone. Una ricetta non c'è, le scuole sono dei supporti fondamentali, ma se manca lo stimolo, se non scatta la scintilla è poi difficile avere voglia di percorrere la strada del musicista.
AAJ: Tu insegni al conservatorio. Quando e in che modo ti accorgi di avere davanti un allievo che ha qualcosa da dire più degli altri?
R.O.: Quando non si accontenta di rifare il verso a qualcuno, ma cerca di andare oltre le regole, di andare avanti. Ci sono stati dei ragazzi che mi hanno posto delle questioni e degli interrogativi totalemte nuovi per me, quindi mi hanno costretto a pormi in discussione. Quello è il momento in cui mi rendo conto di avere di fronte un'intelligenza che ha necessità di mettere in discussione delle verità che diamo per certe.
AAJ: C'è un aspetto dell'attività di insegnate che qualche volta ti ha fatto venire voglia di smettere?
R.O.: Sì, a parte i guai e le lacune della scuola italiana che naviga in acque pessime per colpa di leggi sbagliate e mancanza di fondi che consentano alle strutture di valorizzare al meglio la sitauzione. Al conservatorio, a volte, si pensa di emulare un modello televisivo, come per esempio X Factor - programmi che non hanno nulla a che vedere con la capacità di elaborazione del talento - , quindi se i ragazzi arrivano imbevuti di una realtà sbagliata, pensando al conservatorio come a un'istituzione presso la quale ottenere un servizio, senza voler lavore sulla parte artigianale del rapporto tra allievo e maestro, allora lì sento venir meno il mio ruolo. Per fortuna questa è una sensazione altalenante, perché a volte si riescono a creare situazioni elaborate e si fanno progetti che poi danno frutti ineressanti.
AAJ: C'è stata una figura che ti ha ispirato all'inizio e che ancora tieni ben in mente?
R.O.: Una serie di persone che mi hanno portato qualcosa che avevano conosciuto e sono grato a molti amici, anche non musicati, che mi hanno fatto scoprire cose importanti, anche legate alla stagione del rock progressive, del free e della musica contemporanea. Stranamente sono stati incontri casuali e non con musicisti che ho incontrato per motivi di rapporti di lavoro. Alcuni musicisti mi hanno catapultato al nocciolo della questione, come Andrea Centazzo, batterista di un quaretto di Gaslini, che alla fine degli anni Settanta organizzava dei seminari molto interessanti. Attraverso queste opportunità ho iniziato a frequentare l'ambiente dell'improvvisazione europea e dell'ambiente del jazz.
AAJ: La discografia a tuo nome è ferma a Un Dio Clandestino del 2008, anche se da poco hai pubblicato un disco in duo con Andrea Centazzo, In a Rainy Day.
R.O.: Sì, anche se in realtà sono stato in studio altre volte. In questi giorni sto per mettere a punto una serie di cose delle quali non parlo per scaramanzia. Sto lavorando a un paio di progetti personali che dovrebbero venire alla luce a inizio 2013. Ci sono delle novità interessanti, non faccio dischi per presenzialismo, ma quando è necessario commentare una tappa del mio percorso. Mi piace stimolare progetti, come quello dell'anno scorso, con una cantante che ha reinterpretato il repertorio di Ornette Coleman con dei testi originali (Lisa Manosperti: Where the West Begins: Voicing Ornette Coleman, N.d.R.).
AAJ: Mentre sei molto attivo sul versante live.
R.O.: Sì, di recente ho partecipato a una serata dedicata a Steve Lacy fatta al The Stone di New York, il locale di John Zorn, nella quale ho riscosso un successo personale importante. Karl Berger mi ha invitato a far parte di un suo gruppo; mi sto muovendo molto come freelance e inoltre a breve tornerò negli Stati Uniti per registrare con dei musicisti americani.
AAJ: Oltre alla musica, nella tua vita, cosa occupa maggiormente il tuo tempo?
R.O.: Sono interessi che a loro volta nutrono il mio modo di fare musica: l'arte visiva e il cinema, sono un cinefilo di vecchia data. Sono molto importanti per me, vuoi anche per gli studi che ho fatto in passato. Ho frequentato circoli del cinema dove negli anni Settanta arrivavano cose impossibili, come la Corazzata Potëmkin con i sottotitoli scritti in cirillico, non ci si capiva nulla ed era un'atmosfera straordinaria (ride, N.d.R.). Il linguaggio cinematografico lo seguo nei particolari, anche nella parte tecnica. Mi interessa anche la natura, e appena posso dedico la mia vita agli spazi all'aria aperta.
Foto di Samarcanda Documenti Sonori (la prima, la terza, la quarta, e l'ultima).
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