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La regola dei sentimenti. Intervista a Giorgio Vendola
ByLa mia formazione è onnivora, consumo, produco e suono cose anche apparentemente molto distanti tra loro (musica balcanica, d'avanguardia, improvvistata, jazz di tradizione, popolare, sperimentale eccetera)
Così è per il contrabbassista pugliese Giorgio Vendola, nato nel 1972.
In molta della sua produzione discografica, che vanta una quarantina di incisioni, Vendola compare spesso come co-arrangiatore, oltre che come musicista. Dal primo disco di stampo etno-jazz dei Movin Clouds (1998), Oltre confine, ad In a Shape of a Girl (progetto dedicato a Bjork appena pubblicato) della cantante Serena Fortebraccio, sono molti i dischi in cui il suo nome compare tra quelli che hanno contribuito alla produzione artistica.
Pur non avendo ancora prodotto un album o un progetto a suo nome, Vendola è molto attivo come co-leader soprattutto nel Synerjazz trio, con Mirko Signorile e Vincenzo Bardaro, nei Pinturas di Roberto Ottaviano, nei Minafrik di Pino Minafra e nel Kekko Fornarelli trio (progetti nei quali è attualmente impegnato).
Il diploma in contrabbasso, la militanza in gruppi di musica etnica (Ghetonia, Canzoniere Grecanico salentino), pop, popolare e rock, le incursioni nella musica balcanica, il teatro e le numerose e varie esperienze jazzistiche, da quelle tradizionali a quelle più sperimentali, le collaborazioni con importanti musicisti (Urban Society, Dave Liebman, Renè Aubry, Nasheet Waits, Josh Klinghoffer dei Red Hot Chilli Peppers, Ballaké Sissoko e Admir Shkurtaj, solo per citarne alcuni), hanno contribuito a rendere Giorgio Vendola un musicista tout court e un contrabbassista versatile, in grado di far coesistere tutti quegli elementi eteroprovenienti, che per accumulazione ha assimilato, e che gli consentono di indirizzare in maniera trasversale, con rigore e originalità creativa, il suo approccio alla musica, costituendo altresì la base e il punto di riferimento del suo impegno.
Se si ascoltano le sue composizioni, sparse nei vari dischi che ha registrato e spesso nate da esperienze extrajazzistiche ("Cirano," "Jupiter" o anche "Incerto," incisa anche nel disco in uscita di Luca Aquino), si rintracciano chiaramente i semi di un'indagine sulle potenzialità impressionistiche/evocative della musica. I suoi brani posseggono elementi intrinseci virtualmente avulsi al concetto di genere e, per quanto spesso suonati in contesti jazzistici, starebbero probabilmente a loro agio anche in altri ambiti sonori. Ma è da tempi lontani che abbiamo imparato che tutto può essere jazzificato, anche il "Miserere" di G. Verdi, soprattutto se a farlo è stato Jelly Roll Morton.
All About Jazz: Iniziamo parlando delle tue ultime incisioni.
Giorgio Vendola: Tra il 2012 e il 2013 ho realizzato, se non ricordo male, circa sette dischi, alcuni sono già sul mercato, altri usciranno nel corso di quest'anno. Sono dischi molto diversi tra loro, si passa dal jazz contemporaneo (Luca Aquino e Serena Fortebraccio) a musiche legate alla tradizione popolare. Vengo da una terra, la Puglia, fortemente caratterizzata dalla musica popolare legata al rito della taranta. Il mio coinvolgimento in queste esperienza, però, non è semplicemente di sostegno ad un'idea preesistente, anzi, lavoro in questi progetti (Ghetonia, Macurano Orchestra ad esempio) perché mi viene chiesto di partecipare creativamente alla messa in opera di un disco o di performance live, contribuisco a formare un'idea fonica. Ciò significa potermi esprime liberamente, portando la mia visione della musica (il mio suono, il mio approccio ritmico e melodico), in contesti anche extrajazzistici. Naturalmente cerco di farlo ovunque io mi trovi ad operare col mio contrabbasso.
AAJ: Qual è quindi in genere l'approccio che hai nel lavorare ad un progetto?
G.V.: La mia formazione è onnivora, consumo, produco e suono cose anche apparentemente molto distanti tra loro (musica balcanica, d'avanguardia, improvvistata, jazz di tradizione, popolare, sperimentale eccetera), ciò che faccio è vivere la musica come se io fossi in un territorio di confine, nel quale i vari linguiaggi si fondono, creando un'idioma unico. Vivo ciò che faccio senza dogmatismi, con un senso di apertura totale. Non mi interessa quella musica che richiede un esercizio di stile. In tutto ciò che faccio è presente il mio carattere, che è il risultato delle mie esperienze, così come quello dei musicisti con cui lavoro. Credo che sia questo il motivo che spinge gli altri musicisti a collaborare con me e viceversa. Qualsiasi cosa io faccia la intendo come se fosse mia. In genere non mi limito esclusivamente ad eseguire, propongo, stimolo dialetticamente gli altri, mi pongo in una dimensione di ascolto e di dialogo, imparando anche dalle visioni dei musicisti con cui suono.
AAJ: Per ascoltare alcune tue composizioni bisogna andarle a cercare in vari dischi. Da co-leader i tuoi brani sono presenti nel disco Synerjazz Trio (con Signorile e Vincenzo Bardaro) e nell'ultimo (in uscita per la Tuk) di Luca Aquino. Quando scrivi hai già un'idea di come suoneranno?
G.V.: C'è un mio pezzo ("Incerto") in entrambi i dischi da te citati; con il Synerjazz trio quel brano in un certo senso sapevo come avrebbe suonato, perché conosco l'approccio di Mirko e Vincenzo a quel tipo di scrittura e loro l'hanno reso per come in qualche modo l'intendevo. Quando Luca Aquino mi ha chiesto un pezzo per il suo disco, ho pensato subito a "Incerto" perché lo sentivo in sintonia con il suo modo di suonare. Quindi, in un certo senso so come suonerà ma so anche, anzi spero, che quel pezzo risulti sempre nuovo e sorprendente. Credo che sia questo che rende il jazz una musica sempre viva e diversa e mai troppo uguale a se stessa.
AAJ: Synerjazz Trio , l'album, è un disco che non si lascia incastonare in un filone preciso di jazz. È eterogeneo, tutti voi inserite vostri brani, suona molto "europeo". Credi che esista nel jazz una sensibilità più europea in genere?
G.V.: Si, di sicuro esiste una sensibilità europea, che diventa più evidente nel gusto per la melodia, la quale è il risultato di una sedimentazione di elementi peculiari di un territorio. Da un punto di vista antropologico emerge il mondo operistico, della canzone, della musica sinfonica o di tradizione popolare. Secondo me tutti questi elementi vengono alla luce inconsciamente in alcuni musicisti europei.
AAJ: I contrabbassisti vivono e vedono la musica da un angolatura per certi versi nevralgica, essi rappresentano il collante tra i vari strumenti di un ensamble e per tale ragione posseggono una visione registica della musica. Quando componi e scrivi per un gruppo quanto c'è nel tuo approccio compositivo di intimamente legato al tuo strumento?
G.V.: In genere penso alla melodia e alla sua potenza evocativa. Se canto una melodia e mi convince, quella diventa un brano. Naturalmente altri brani nascono da un'idea ritmico-melodica che scaturisce dal "basso".
AAJ: Puoi parlarmi delle tue esperienze più importanti dal punto di vista artistico e professionale?
G.V.: Pur avendo suonato con musicisti come, solo per citarne alcuni, Greg Osby e Dave Liebman - i quali hanno sicuramente contribuito alla mia crescita - considero le esperienze più importanti quelle con cui sono cresciuto e con le quali ho portato avanti un percorso continuativo di progettualità, quelle in cui ho avuto modo di sperimentare, mettere a fuoco determinati aspetti della musicalità e ricevere stimoli importanti, che nell'insieme hanno contribuito a formare il mio carattere musicale. Tra questi Synerjazz Trio, Urban Society di Gaetano Partipilo e Pinturas di Roberto Ottaviano, tutti gruppi con cui ho condiviso per anni esperienze artistiche e umane importanti.
AAJ: Ammesso che esista, a quale corrente del jazz contemporaneo ti senti più affine?
G.V.: Non seguo una corrente di riferimento.
AAJ: Hai suonato in progetti molto differenti tra loro. Sei passato dalla musica per il teatro al jazz, a quella balcanica. A quale contesto ti senti più affine?
G.V.: Ovunque io possa esprimere me stesso liberamente e al contempo conoscere cose nuove. Ad esempio l'esperienza teatrale in contrabbasso solo mi ha fatto sviluppare un certo senso narrativo. Lì per forza di cose dovevo raccontare una storia attraverso il contrabbasso e il suo suono, quindi anche io e il mio strumento avevamo un ruolo, eravamo inseriti nella struttura drammaturgica.
AAJ: In percentuale, per un contrabbassista, quanto è importante la componente creativa e quanto quella ritmica (da accompagnatore puro)?
G.V.: Per un bassista la pulsazione deve essere sempre presente. Parlando di me, le due cose si equivalgono . Nel senso comune il contrabbasso è legato all'idea di puro accompagnamento, in realtà la storia dello strumento è ricca di altre possibilità espressive, che passano dal repertorio classico all'avanguardia. Io cerco di far emergere tutte le potenzialità espressive insite nello strumento, senza schemi rigidi, quindi anche quella di accompagnatore puro.
AAJ: Quali sono stati i tuoi modelli di riferimento?
G.V.: In verità non ho modelli di riferimento legati solo al mio strumento, ma a musicisti in genere, tra questi ci sono anche contrabbassisti come Charles Mingus, Stefano Scodonibbio, Charlie Haden, Bruno Chevillon e Barre Philips. Come vedi musicisti in senso lato, anche tra loro diversissimi.
AAJ: In senso generale, qual è il riferimento estetico/stilistico della storia del jazz che ritieni ti abbia influenzato?
G.V.: Ho trasversalmente attinto da tutto. Eric Dolphy mi ha folgorato, facendomi interessare al jazz, poi, dopo aver ascoltato l'album Money Jungle, ho deciso di passare dal basso elettrico allo studio, anche accademico, del contrabbasso.
AAJ: Hai lavorato con Cristiano Godano (Marlene Kuntz), Rob Ellis (produttore e batterista di Pj Harvey), Josh Klinghoffer (Red Hot Chilli Peppers). Puoi raccontare quell'esperienza discografica?
G.V.: Dopo un conterto sono stato avvicinato da Rob Ellis che non conoscevo, il quale mi ha proposto di partecipare ad una sua idea: entrare in studio per realizzare un disco. Sono quindi andato in studio con Godano, Klinghoffer e Rob. Nessuno di noi, tranne Rob, aveva le idee chiare su cosa fare. Dopo aver regolato gli strumenti ed esserci preparati per registrare, Rob mi ha detto: "adesso suona quello che vuoi". Dopo le prime note è partita una session notturna di rock improvvisato che si è conclusa alle prime luci dell'alba. Quella session è su disco (Nun Lover) e suona ricco di suono, energia e incontro tra mondi musicali. Credo che il risultato sia molto interessante.
AAJ: Sei stato a suonare nei cinque continenti, come trovi il pubblico estero rispetto a quello italiano?
G.V.: Più giovane.
AAJ: Qualche anno fa sei stato negli Stati Uniti per una serie di concerti, com'è stata quell'esperienza?
G.V.: La prima cosa che mi ha colpito è stato vedere quanto New York sia una città eterogenea e multietnica. Si avverte questa diversità anche in musica. Quando ho suonato allo Stone ho vissuto un'esperienza importante. Il luogo era spartano nell'arredamento, ma chi era lì rispondeva solo ed esclusivamente al bisogno di fare e ascoltare musica. Da quell'esperienza sono usciti due dischi per la Ictus di Andrea Centazzo. In Italia non consco luoghi simili in cui far sperimentazione. Spesso qui da noi ci sono dei club in cui molti, non tutti per fortuna, vanno per fare salotto con un sottofondo di qualità.
AAJ: Cosa pensi dei festivals italiani?
G.V.: I direttori dei festivals dovrebbero essere più disposti a rischiare il malcontento del grande pubblico e dei politici, per favorire la creatività, che spesso è legata a nomi anche poco noti, ma di grande spessore artistico.
Foto di Dana Ram (la prima e l'ultima), Roberto Cifarelli (la seconda e la quarta) e Carmine Picardi (la terza).
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