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La dirimpettaia
La dirimpettaia
La signora del piano di fronte aveva un pappagallo blu, le unghia laccate, il naso aquilino ed una vestaglia nera come l'inchiostro.
La signora del piano di fronte stava sempre in casa, non usciva mai.
La signora del piano di fronte anche d'estate indossava delle lise calze di nylon nere, tutte bucherellate.
Spesso le acconciava a suo modo, stiracchiandole sul davanti con impazienza per il fastidio, non senza una sorta di funzionale pudore, a causa di quelle dita scoperte e laccate di rosso, brutalmente di rosso.
La trovavo molesta, non brutta, ma repellente; tuttavia non potevo fare a meno di guardarla, di cercarla, di molestarla col mio sguardo spietato, di tormentarla con la mia insolenza, nel silenzio del mio appartamento in cui riuscivo a mimetizzare la mia proverbiale timidezza.
Dalla mia finestra, con la scusa della sigaretta che brandivo con spocchia quale pretesto agito per i miei insani pruriti, mi scoprivo a scrutare per le stanze adiacenti al terrazzino. Da lì la osservavo attentamente sfaccendare senza lena per la casa: la fissavo mentre stendeva la biancheria, la scrutavo quando strofinava i pavimenti, la concupivo durante i suoi sfoghi, allorché sbottava sommessamente per qualche intoppo al suo indefesso lavorio.
Nelle stagioni belle il vento di maestrale portava il suono delle sue ciabatte assieme agli odori delle melenzane fritte e del pomodoro cotto in sughi che profumavano di basilico e peperoncino, specie con il calar della sera, col farsi della salsa e di quei bei tramonti accesi, folate che erano accompagnate dell'immancabile "pastasciutta! paaa-stasciù-tta!," ribadito ossessivamente e con voce baritonale dal pappagallo blu - probabilmente a imitazione di quella del defunto marito -, anche quando trattavasi di parmigiana alle melenzane, di pesce azzurro fritto, o di insalata di pomodori rossi e cipolla calabra, vere e proprie delizie del palato che turbavano per veracità le mie emulazioni culinarie fatte di spaghetti scotti ed insalate di tonno e fagioli in scatola.
Quella roca esclamazione, bassa ma prorompente, giungeva di botto, come una schioppettata sulla pigrizia delle cose, sulla indolenza dei panni stesi, sulla declinazione delle prime stelle, scombussolando il ronzio della periferia placida che pareva in quel frangente irrigidirsi e fremere, come un gigantesco insetto stordito: era per la recluta guardona il segnale di adunata carnascialesca. Torcendo di quel poco il collo, la vedevo allora accorrere premurosa in uno schioppettar di ciabatte, a dire il vero già discinta e costipata a causa della ebollizione dei cibi, con in mano il mestolo di legno maculato di rosso. Era il segnale prestabilito: la vedova prendeva allora a vezzeggiare il pennuto e a fargli delle moine, con la mano libera accarezzandolo fra le piume, con tenerezze, canticchiando in dialetto vecchie filastrocche, indi grattando fin sotto le ali, che poi lui, da consumato attore, dispiegava con fare uccellesco in armonia con la zampetta sinistra tenuta con gran vezzo, a mò di contrappeso sul trespolo color rosso ciliegia, in una posa coreografica perfetta.
In quei frangenti, in quell'addensarsi di becchi e di nasi aquilini, Picone, così si chiamava l'uccello, pareva la protesi esterna del sesso della cinquantenne pruriginosa - a quell'epoca così si mostrava al mio desiderio morboso -, ed era allora e solo in quegli attimi di tastamento a Picone che lei si accingeva a fissarmi con quegli occhi neri e sfavillanti come quelli di un corvo affamato.
Giusto poche grattate, quelle necessarie a scuoiare e scorticare la mia anima, sfilarne la buccia e succhiarla per bene con le iridi, prima di gettarla nel pattume assieme alle scorze beccate e scartate da Picone.
Ed io detestavo lei e quell'uccellaccio blu, ma al contempo trepidavo per quel chimerico innesto, per quella sovrapposizione di desiderio animalesco e postribolare che mi tormentava. Avvampavo di un istinto passionale violento, gelidamente, nell'implosione di un anelito impraticabile, borghese, a volerla dir tutta, come altrimenti definire quella mia miserabile incapacità di espormi, di ammettere che fremevo dalla voglia di possedere quell'essere così sciatto, volgare e di basso ceto? Ma ovviamente v'era qualcosa nella rusticità di quella donna, come una indecenza, una indolenza tramutata in lussuria, che faceva tracimare il mio decoro verso una muta e abissale spirale di tumulto erotico, ed alcuni gesti banali, quali quel suo modo farraginoso e spiccio di riassettare la tavola, che durante la giornata seguivo con distrazione partecipata, divenivano bestiale e provocante gioco seduttivo che mi rosolava a posteriori, sovente prima di prender sonno...sì era qualcosa di animalesco...come desiderare d'accoppiarsi con una donna-rapace, con una massaia-tropicale.
Il gioco durava dunque pochi interminabili attimi, poi la signora fuggiva via e correva, con quei suoi passettini svelti, da insetto, ad abbassare le tapparelle della casa - tutte -, in maniera convulsa, con la repentinità di chi avesse contezza di un imminente e misterioso pericolo. Il palcoscenico passava allora a Picone che, con insolita veemenza, a quel cambio di scena, riprendeva a fare il verso alle stelle con il reiterato mantra di "pastààààààààsciùùùùùttàààààà!!," per almeno una buona mezz'ora.
Col definitivo calar della sera poi, il silenzio, finiva col piombare come una mannaia, secco, a spegnere ogni cosa sul terrazzino di fronte, persino la voce di Picone, che finiva disparendo, sempre più roca negli ultimi rantoli della notte: un fioco ma fastidioso controcanto ai primi guaiti dei cani.
E così ogni giorno, almeno per i primi mesi.
Cosa del resto combinasse quella donna e perché poi mai cucinasse tutta quella roba, cosa avesse da riordinare senza tregua in quella casa, con furie di frette sconsiderate, francamente non l'ho mai compreso. A mia memoria non ricordo le volte in cui l'abbia vista seduta ad oziare, e tra di noi era come se fosse stato stipulato una sorta di tacito accordo, di masochistico gioco di seduzione senza parole.
Non ci salutavamo, non ci conoscevamo, né del resto avevamo intenzione di farlo. Io la guardavo, lei continuava a friggere melenzane, ed a ciabattare per il terrazzino come se io davvero non esistessi.
In alcune giornate, il mio tormento erotico giungeva come una grandinata, e sentivo dentro di me forte il desiderio di saltare su quel terrazzo per stracciarle di dosso quei logori panni neri...per farla finita una buona volta...ma poi subentravano le ragioni del contesto e delle opportunità, con tutto quello che ne consegue e che potete facilmente dedurre.
Accadde invece che un giorno, ciò dopo i primi mesi dal mio trasferimento in quell'appartemento di Via della Spiga 35, cominciai a realizzare di essere osservato da Picone, cosa che dapprima non avevo mai notato. Sono di quelle cose che ci colgono alla sprovvista, cui non facciamo caso abitualmente, ma che ad un certo punto si conclamano nella loro oscena evidenza. Presi a focalizzare con la coda dell'occhio quell'uccellaccio blu e pian piano verificai di essere spiato a mia volta. Quei suoi occhi gialli, di un giallo tisico, mi fissavano adunchi con tanto di becco...a volte mi voltavo di scatto, ma Picone era lesto nel farsi cogliere del tutto preso a pizzicarsi col becco sotto l'ala.
Era inquietante.
Ciò fu il preludio della esperienza terribile che mi vide disgraziato spettatore soltanto pochi giorni dopo.
Col calar della sera, una di quelle sere, non mi ricordo bene di qual giorno, al solito "pastasciutta," Picone con un colpo di becco sfregiò per sempre la mia dirimpettaia che era accorsa premurosa come sempre, cavandole un occhio.
Non potrò mai dimenticare le urla di quella donna per quel cielo terso, lo stridore del sangue nei rispetti di quel blu intenso del pappagallo con un occhio nel becco.
Era come essere osservato da tre occhi nel blu feroce e scarnificato, vivido, della crudeltà, uno squarcio blasfemo sull'insondabile presente, un sacrificio operato sul brutale sagrato della Natura.
Né potrò rimuovere la tristezza di quella donna guercia, che da quel giorno prese a guardarmi dall'occhio, attendendo una compassione che non poteva esserci, mentre io affondavo la testa fra le mie carte e sovente accostavo le persiane pur di sottrarmi a quella penosa richiesta di attenzione, per la vergogna di quell'onta, per quel mio averla bramata che adesso stonava, lei, così oscenamente sfigurata e sciatta.
La benda la rendeva adesso simile al pappagallo e ad un suo ipotetico pirata.
Picone rimase al suo posto, non venne soppresso per volere stesso della signora.
V'era in ciò una qualche forma di sacralità, in questa capacità dico, di rimettersi alle necessità ed alla purezza della barbarie, di tributare omaggio comunque, un che di saggio che non potevo tollerare, né comprendere all'epoca.
Il pappagallo continuò a scrutarmi per qualche mese.
Mi parve quasi di vederlo sogghignare durante il mio trasloco.
Da allora odio gli uccelli, l'acqua del mare, le donne con gli occhi azzurri, il cielo terso, le penne, i becchi, tutto ciò che è adunco, Superman, i film "China Blue" e "Blue Velvet," il romanzo di Tom Robbins: "Feroci Invalidi di ritorno da un paese caldo," i fiocchi blu sul grembiule da maschietto, la bandiera dell'Onu.
Foto di Claudio Casanova
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