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Jimmy Katz & Luciano Rossetti: Il Doppio Ritmo Della Fotografia Jazz

Jimmy Katz & Luciano Rossetti: Il Doppio Ritmo Della Fotografia Jazz

Courtesy Silvia Pedrini

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Jimmy Katz e Luciano Rossetti sono due dei massimi fotografi di jazz di oggi. I loro non sono scatti di cronaca, ma quel tipo di istantanee e ritratti che portano alla mente il famoso detto "Un'immagine vale più di mille parole." Amici di lunga data, Katz e Rossetti hanno spesso collaborato a livello didattico ed espositivo. Ultima in ordine di tempo, la loro mostra Dual Rhythms. Jazz, from Faces to Stages che si è tenuta a Brescia presso il Centro della Fotografia Italiana in collaborazione con Estensioni Jazz Club Diffuso, ha offerto l'opportunità di mettere a confronto due stili fotografici distinti ma complementari. Ne abbiamo approfittato per chiedere ai due fotografi di condurre una "intervista incrociata."

Luciano Rossetti: Che cosa ti ha portato a diventare un professionista della fotografia jazz?

Jimmy Katz: La fotografia mi ha affascinato fin da piccolo. Ricordo di aver iniziato a fare foto quando avevo sei anni, durante delle lunghe camminate con mio padre sui ponti che portavano a Manhattan. Era per me come una grande avventura.

Dopo aver ascoltato Thelonious Monk e Art Blakey alla Carnegie Hall nella mia tarda adolescenza ho iniziato a collezionare dischi jazz e a vent'anni ne avevo più di 4.000. Alla fine degli studi universitari mi sono trasferito nell'ovest americano per dedicarmi allo sci alpino. Iniziai a usare la mia macchina fotografica per ottenere finanziamenti e promuovere le spedizioni che organizzavo in giro per il mondo, Bolivia, Argentina, Nuova Zelanda...

Dopo aver incontrato mia moglie Dena ho deciso di abbandonare lo sci e ci siamo trasferiti a New York così da poter fotografare la musica che amavo, il jazz, che è sempre stato il mio interesse principale.

Ben presto iniziai ad avere degli ingaggi per servizi fotografici per riviste e case discografiche. Ma, allo stesso tempo, ne approfittavo per fare foto che interessavano a me, scatti che concepivo con l'idea di volerle riguardare in futuro...

Sono nato a New York, e credo che New York rimanga un luogo essenziale per il jazz. Quando mi chiedo cosa vorrei vedere del musicista con cui lavorerò tra 30 anni, la risposta è spesso chiara: voglio vederlo nel contesto in cui vive e crea. New York è anche una città in continuo cambiamento, quindi le mie fotografie sono una testimonianza di un periodo specifico della storia della città. Voglio ritrarre gli artisti jazz come una parte indelebile della scena creativa di New York.

JK: Che cosa ti affascina nel fotografare il jazz?

LR: Quando ho cominciato a fotografare, alla fine degli anni '70, sono rimasto immediatamente affascinato dalla fotografia di spettacolo, non solo il jazz, anche il teatro, la musica classica, la danza.

Mi ha sempre affascinato il buio della scena, anche se, specialmente a quei tempi, da un punto di vista tecnico era molto complicato fotografare in condizioni scarse di luce. Negli stessi anni ho iniziato ad ascoltare jazz, quindi è stato naturale cominciare a fotografarlo, anche perché non era difficile poter essere ammessi anche al sound-check, situazione che mi ha sempre affascinato. Le immagini del grande fotografo francese Guy Le Querrec sono sempre state per me una grande fonte di ispirazione.

JK: Quando entri in una sala concerti, come ti poni rispetto ai soggetti che decidi di fotografare?

LR: Con le mie foto cerco di raccontare delle storie. Mi sento come un giornalista, ma scrivo con le immagini, e cerco di raccontare il jazz. Nel farlo cerco di guardare oltre il palco, esplorando tutto quello che c'è prima e dopo una performance, davanti e dietro il palco. Sono affascinato da quello che di solito il pubblico non vede, quindi cerco sempre di seguire le prove, il sound check, frequentare il backstage, mostrare attraverso le immagini i musicisti in tutti gli aspetti della loro vita musicale, non solo il momento del concerto.

LR: Perché hai deciso di recente di dedicare il tuo tempo al progetto Giant Step Arts?

JK: Ho sentito l'esigenza di sdebitarmi nei confronti della comunità jazz. Ho pensato di poterlo fare attraverso una organizzazione no profit, come appunto è Giant Step Arts, dedita a supportare la scena, in particolare attraverso l'organizzazione di concerti e la pubblicazione di dischi dal vivo, registrati in locali molto intimi di New York.

Per me la cosa fondamentale era assicurare che i musicisti mantenessero i loro diritti sui master. La mia carriera nella fotografia jazz è iniziata documentando centinaia di sessioni di registrazione, per la maggior parte con grandi etichette discografiche.

Ascoltando quelle sedute di registrazione mi chiedevo sempre come sarebbe stata quella band dal vivo, e se gli ascoltatori a casa si sarebbero riusciti a godere il disco registrato, come se fossero nella prima fila di un jazz club. In fondo si trattava di una problematica simile a quella che affrontavo come fotografo mentre cercavo di immortalare in uno scatto le sensazioni che percepivo dal vivo, cercando di rendere possibile per chi guarda le mie foto "percepire" il sudore sulla fronte di Dr. Lonnie Smith o "sentire" il rumore dei piatti di Elvin Jones.

Quindi, nel 2018, quando ho fondato Giant Step Arts ho fatto esattamente questo: ho raccolto fondi, progettato e prodotto progetti di registrazione jazz "live" in luoghi intimi, dove i musicisti mantengono il controllo totale sulla loro musica. Il mio obiettivo è liberare i musicisti dalle pressioni commerciali e lasciare che la loro arte prosperi, senza ostacoli da parte delle richieste del mercato. È stata un'esperienza molto gratificante: da un lato, restituire qualcosa a una forma d'arte e agli artisti che amo, e dall'altro dare ai musicisti gli strumenti per prendere il controllo della loro produzione artistica. Durante la pandemia, Giant Step Arts ha anche finanziato più di 35 concerti gratuiti organizzati a Central Park.

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