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Jazz e oltre: intervista a Taylor Ho Bynum

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Nato a Baltimora, cresciuto a Boston, newyorchese d'adozione, Taylor Ho Bynum è musicista paradigmatico del nuovo jazz americano, e in particolare della nuova scena che ruota intorno a Brooklyn (anche se attualmente vive a New Heaven, nel Connecticut, a nord della Grande Mela). Paradigmatico per la varietà di progetti e situazioni nelle quali lo si trova implicato: dalle comparsate nei tanti gruppi del maestro Anthony Braxton (sotto l'ala del quale è cresciuto in quella fucina di talenti che è la Wesleyan University), alla militanza nell'orchestra di Cecil Taylor; dal duo con l'amico batterista Tomas Fujiwara, alla leadership di un meraviglioso sestetto; dalla fondazione e codirezione della big band Positive Catastrophe, alle decine di apparizioni in dischi altrui. Senza dimenticare la Thirteenth Assembly, il quartetto che lo vede a fianco di Mary Halvorson, Jessica Pavone e ancora Tomas Fujiwara, e le varie incarnazioni dello SpiderMonkey Strings, gruppo ad assetto variabile nel quale Ho Bynum dà libero sfogo alla propria vena compositiva (imperdibile Other Stories (Three Suites), su 482 Music).

Insomma, un'attività frenetica quella del prode Taylor, che oltre a essere un improvvisatore straordinario (giustamente celebri le sue esibizioni in solo, l'ultima italiana in quel di Botticino), ha pure il merito di aver cofondato la Firehouse 12, etichetta fra le più coraggiose del panorama discografico d'oltreoceano. Doverosa, dunque, una chiacchierata, anche perchè il ragazzo ha il "vizio" di raccontarsi, e raccontare il mondo che lo circonda, con dovizia di particolari e una rara intelligenza.

All About Jazz: In Europa e in Italia sei conosciuto soprattutto per la costante presenza nei gruppi di Braxton. Ti sei diplomato nel 2001 alla Wesleyan University e da allora hai cominciato a lavorare stabilmente con il maestro: in duo, in trio (Diamond Curtain Wall), nel sestetto, settetto e nel 12(+1). Quanto è stata importante la figura di Braxton nella tua crescita?

Taylor Ho Bynum: Potrei scrivere un libro sulle cose che ho imparato da Anthony, e su che cosa ha significato per me come insegnante, mentore, collaboratore e amico. Lo considero uno dei più profondi musicisti e filosofi dell'ultimo mezzo secolo. Ovviamente, molto di quel che sono, come musicista e compositore, lo devo a lui. Il concetto di affermare la propria individualità artistica ad ogni costo, l'idea che si possa crescere come improvvisatore attraverso lo studio della composizione e come compositore attraverso lo studio dell'improvvisazione, la filosofia della creatività "trans-idiomatica" al di là dei limiti imposti dai generi e dalle etichette: sono tutti insegnamenti suoi.

Inoltre, al di là delle centinaia di sue idee che mi hanno plasmato come uomo e compositore, la sua influenza è stata cruciale anche nella mia crescita come improvvisatore. È sempre una meravigliosa sfida confrontarsi sul palco con l'intensità delle sue esibizioni. Devo molto a Anthony, anche se in fondo mi piace pensare che la mia musica sia diversa dalla sua. Credo che il più grande tributo che possa fargli sia quello di non suonare come un clone di Braxton, ma di cercare di coltivare la mia individualità esattamente come lui ha fatto, e continua a fare.

Qualche settimana fa l'ho aiutato a organizzare e realizzare il suo nuovo progetto, Sonic Genome, a Vancouver, con sessanta musicisti che hanno suonato per otto ore consecutive, creando uno spazio vibrante e interattivo, dentro al quale il pubblico poteva muoversi. È stato semplicemente incredibile: sono state infrante tutte le regole di una tradizionale esperienza d'ascolto, cambiando il modo in cui pubblico e musicisti si rapportano di solito con la dimensione live. Il prossimo mese, invece, produrrò personalmente la prima registrazione in studio di una sua opera, Trillium E: Four Acts, per dodici cantanti, dodici musicisti-solisti e un'orchestra di quarantacinque elementi.

Adoro il fatto che Anthony riesca sempre a pensare in grande, senza porsi dei limiti. Segue semplicemente la sua musica, dovunque lo porti. Questa è la sua lezione più rivoluzionaria e importante.

AAJ: Restando in tema giganti, sei stato a fianco di Cecil Taylor nella sua big band per quattro anni.

T.H.B.: Cecil è un'autentica forza della natura. Ho avuto l'opportunità di suonare nella sua big band, anche se purtroppo non ne resta testimonianza discografica. Quell'ensemble era quanto di più vicino riesca a immaginare alla sua idea di musica per orchestra. I quattordici strumentisti in formazione sono rimasti gli stessi per quattro anni. Ogni sezione aveva sviluppato una propria precisa identità. Ciascuno di noi rispettava la musica di Cecil, ma allo stesso tempo riusciva a ritagliarsi uno spazio per coltivare la propria individualità, in una continua evoluzione degli esiti. Era come se la big band cercasse di trasformarsi nelle dieci dita di Cecil. E poi, duettare con lui è elettrizzante, come danzare con un tornado.

AAJ: Pochi lo sanno, ma tu hai iniziato suonando il piano, prima di studiare con il trombonista Bill Lowe. Quali sono i musicisti ai quali sei debitore oltre ai già citati Taylor e Braxton?

T.H.B.: Il piano l'ho suonato solo per qualche anno, da ragazzo (anche se in questi giorni ne sto cercando uno a parete da mettermi in casa per ricominciare da dove avevo lasciato). La mia identità di musicista è dunque legata agli strumenti a fiato.

Ho cominciato a studiare con Bill Lowe a quindici anni. È un musicista e un insegnante meraviglioso, con il quale collaboro tutt'ora, a vent'anni dal nostro primo incontro. Nella sua carriera ha suonato con Frank Foster e Thad Jones, con Henry Threadgill e Muhal Richard Abrams. Mi ha insegnato ad avere una mentalità aperta a qualsiasi genere e musica (dovete pensare che erano i primi anni Novanta, e i puritani dell'era post-Wynton regnavano sovrani nelle scuole e nei conservatori). Essere suo allievo mi ha cambiato per sempre.

Per quel che riguarda gli altri musicisti che mi hanno influenzato, ne ho una lista interminabile: dai soliti noti (Ellington, Miles, Trane, Monk, Mingus, Sun Ra, Ornette, l'AACM in generale), a quelli meno canonici per un jazzista (Charles Ives, Rex Stewart, Jimmy Giuffre, Prince, Henry Red Allen, Mongezi Feza, Astor Piazolla, Bjork, Willie Nelson e Morton Feldman). Bill Dixon e Leo Smith rimangono invece i due trombettisti imprescindibili.

E poi ci sono tutti quelli con i quali ho suonato e continuo a suonare: Jim Hobbs, Abraham Gomez-Delgado, Tomas Fujiwara, Jay Hoggard, Stephen Haynes, Evan O'Reilly, Kwaku Kwaakye Obeng e Jason Hwang. Da quindici anni li frequento ed è impossibile riassumere in poche righe quello che mi hanno dato, umanamente e musicalmente.

AAJ: venendo invece al Taylor Ho Bynum compositore, oltre a Ellington e Braxton, sento molto Threadgill nel tuo modo di scrivere (specialmente nel tuo sestetto, con due chitarre, come i Very Very Circus). Come ti definiresti come compositore? E che significa la sigla SpiderMonkey usata per i tuoi progetti con gli archi?

T.H.B.: Ovviamente, Ellington, Braxton e Threadgill sono tre fra miei più grandi eroi. È sempre difficile, in ogni modo, raccontarsi come compositore. Posso solo dirvi gli aspetti dello scrivere musica ai quali sono interessato. Ad esempio, esplorare le infinite possibilità di relazione tra la spontaneità dell'improvvisazione e quel che invece è pre-determinato. Il mio obiettivo è quello di creare dei mondi sonori strutturati all'interno dei quali ciascun musicista possa sentirsi libero di sovvertire le regole se lo ritiene opportuno, pur cercando di rispettare i miei intenti come compositore. Cerco di scrivere musica provocante, che spinga a pensare e ascoltare in un modo diverso, riuscendo però a far sentire chi la ascolta, e chi la interpreta, visceralmente e fisicamente connesso al suono.

Il nome SpiderMonkey è un omaggio alla mia passione per gli animali mitologici (e per la loro relazione con gli impulsi creativi). Il Re Scimmia cinese (Monkey King) e Anansi, il ragno (Spider) della tradizione africana, sono due dei miei preferiti.

AAJ: A proposito di SpiderMonkey, la tua ultima fatica s'intitola Madeleine Dreams, disco uscito di recente per la Firehouse 12 che ti vede a fianco di Jessica Pavone, Tomas Ulrich, Jason Kao Hwang, Joe Daley e Luther Gray, più la cantante Kyoko Kitamura e il chitarrista Pete Fitzpatrick.

T.H.B.: E mi sento davvero un privilegiato ad aver potuto realizzare quel disco e per averlo fatto con il gruppo di fantastici musicisti che hai elencato. Non è facile trovare ingaggi per una band composta da otto elementi e con una strumentazione così inusuale (tromba, tre archi, una chitarra, tuba, voce e batteria). Sono tutt'ora sorpreso del fatto che si sia riusciti a registrare il secondo CD a nome dello SpiderMonkey Strings.

Madeleine Dreams è diviso in due parti, la suite omonima e tre miei arrangiamenti di vecchi brani di Ornette, Ellington e Sun Ra. La suite si ispira a un racconto scritto da mia sorella, Sarah Shun-Lien Bynum, che s'intitola Madeleine is Sleeping. Amo quel racconto. Possiede una specie di magia onirica, combinata con un senso di scoperta, tragedia e una sottile vena di umorismo. Ovviamente non è stato facile collaborare con mia sorella. L'uso dei suoi testi (interpretati da una cantante sensibile e creativa come Kyoko Kitamura) ha però dischiuso nuovi orizzonti alla mia scrittura. Anche se il racconto è relativamente astratto, la sua forza narrativa ha forgiato le strutture musicali, il suono stesso delle parole ha influito sulla musica tanto quanto il loro senso.

E visto che la suite era qualcosa di estremamente personale, ho voluto bilanciare il disco inserendo alcune composizioni altrui. Anche se la mia è musica di confine, qualcuno direbbe di ricerca, non rinnego in tutto e per tutto l'idea di un "repertorio jazz," purché il concetto non sia inteso in maniera reazionaria. Agli occhi di molti SpiderMonkey potrà anche non sembrare e nemmeno suonare con una jazz band, ma quella è la musica che tutti noi amiamo, e penso che un gruppo possa essere originale e unico anche interpretando musica di repertorio.

AAJ. È uscito per la svizzera Hat Hut, invece, l'ultimo lavoro del suo sestetto, Asphalt Flowers Forking Paths, seguito al precedente The Middle Picture. Raccontaci qualcosa del progetto.

T.H.B.: Il disco è il frutto di anni di lavoro on the road e per questo, pur essendo molto frammentato, riesce a suonare estremamente unitario. Anche in questo caso ho inserito in scaletta una suite in tre parti, whYeXpliCitieS, costruita usando stili e generi diversi, come se fossero più gruppi a sovrapporsi mentre la suonano. È una specie di puzzle (sono un patito di Borges, non a caso i sentieri che si biforcano nel titolo).

AAJ. Completamente diversa la dimensione in solo, nella quale presti molto attenzione alla timbrica e al suono.

T.H.B.: Trovo che il suono sia importante tanto quanto, se non più, del ritmo, della melodia e dell'armonia. Se non riesci a produrre un suono "bello," tutto il resto conta poco o nulla. Come improvvisatore, cerco di estrarre la maggiore varietà possibile di suoni dai miei strumenti, provando a mantenere comunque una certa chiarezza e un certo ordine nell'esposizione delle idee.

È per questo che mi piace molto usare diversi tipi di sordine. Trovo tragico il fatto che così pochi trombettisti moderni usino le sordine. Inoltre, uno dei grandi pregi della tromba e della cornetta è la possibilità di manipolare, plasmare direttamente il suono. Credo che il be-bop, con l'estrema perizia tecnica che richiede suonarlo, abbia un po' messo ai margini l'attenzione per il suono, ma è proprio questo che amo del mio strumento.

Alla tromba preferisco però la cornetta. La differenza è sottile, ma è proprio il suono a farla. È vero, la tromba è più brillante e pulita, ma la cornetta ha una rotondità maggiore, qualità vocali che adoro. E poi è più flessibile. Forse non precisa come la tromba, ma senza dubbio più facile da domare e plasmare.

AAJ. Si parla sempre più spesso della nuova scena di Brooklyn. Che sta accadendo a New York in questo primo scorcio di secolo?

T.H.B.: Beh, a dire il vero adesso vivo a New Haven, nel Connecticut, a più di un'ora e mezza di strada da New York. Però quella scena esiste e me ne sento in qualche modo parte, se non altro perchè ho vissuto sei anni a Brooklyn e la maggior parte dei musicisti coi quali collaboro vive lì.

Credo che non ci sia nulla che rende speciale Brooklyn in quanto tale, se non il fatto che Manhattan è ormai troppo cara per chiunque. Se i prezzi a New York dovessero continuare a crescere a questo ritmo, prima o poi diventerà impossibile per un'artista sopravvivere. Non a caso negli ultimi anni molti si sono trasferiti nel Queens, nel Bronx oppure nel New Jersey o nel Connecticut. È in atto una sorta di diaspora dalla città, e più musicisti se ne vanno, più New York perde il suo ruolo di centro gravitazionale.

Geografia a parte, quel che è certo è che sta emergendo una generazione di jazzisti under 35 dal talento straordinario: Mary Halvorson, Tomas Fujiwara, Jessica Pavone, Matt Bauder, Nate Wooley, Harris Eisenstadt, Tyshawn Sorey, Peter Evans, Jen Shyu, Amir ElSaffar, Steve Lehman, Jonathan Finlayson, Matana Roberts, Darcy James Argue, Matt Welch, Reut Regev, per citare solo i primi che mi vengono in mente. C'è grande fermento. Ciascuno ha le proprie idee, scrive la propria musica, dirige le proprie band. Ci sono un sacco di connessioni e scambi. È come se si stesse realizzando l'idea di futuro "trans-idiomatico" profetizzata da Braxton.

Il dato frustrante è che non c'è alcun supporto per questi musicisti: ci sono pochi posti nei quali esibirsi, le fondazioni e l'industria musicale fanno poco e le istituzioni ancora meno. Stanno succedendo cose meravigliose, ma riuscire a farsi ascoltare è molto difficile.

AAJ: Da qui l'idea di metterti in proprio e fondare l'etichetta Firehouse 12?

T.H.B.: In parte si. Il mio socio in affari, Nick Lloyd, è un pazzo visionario. Ha trasformato una caserma dei pompieri abbandonata in uno studio di registrazione, nel locale più alla moda di New Haven e in un bellissimo appartamento per sé e per la moglie: lui è anche un ingegnere del suono straordinario, mentre sua moglie, Megan Craig, è un'artista e si occupa della grafica dei dischi. Cinque anni fa abbiamo deciso di fondare l'etichetta. Il numero uno del catalogo è toccato nientemeno che al cofanetto da 10 cd dedicato al 12(+1) di Braxton, 9 Compositions (Iridium) 2006. Un bel rischio come prima uscita.

Io mi occupo del rapporto con gli artisti e sono co-produttore di tutte le nostre uscite. A suo modo tutto funziona, anche se mi piacerebbe riuscire a dedicare più tempo e risorse all'etichetta. L'ideale sarebbe pubblicare almeno una ventina di CD all'anno. Ma cosa vuoi, io e Lloyd abbiamo anche altro da fare.

AAJ: Da pochissimo avete pubblicato il doppio di Bill Dixon Tapestries for Small Orchestra. Ancora più recente è il nuovo disco di Myra Melford, The Whole Tree Gone. Che altro state preparando alla Firehouse 12?

T.H.B., È stato un 2009 impegnativo, che ha visto l'uscita del mio SpiderMonkey e di Sided Silver Solid di Carl Maguire. Abbiamo chiuso l'anno passato con il doppio Dixon e credo che per il 2010 ci prenderemo una pausa, anche perchè Nick e Megan hanno appena avuto un bellissimo bambino. Saranno due i CD che pubblicheremo: The Whole Tree Gone di Myra Melford e Saturn Strings di Mary Halvorson. Il debutto di Mary su Firehouse 12, Dragon's Head, è stato un successo. Sentirete il nuovo.

AAJ: Tornando a te, uno dei dischi che ho ferocemente consumato negli ultimi mesi è Garabatos Volume One dei Positive Catastrophe, una big band di dieci elementi. Ci racconti la genesi del progetto?

T.H.B.: Il gruppo è nato da un'idea mia e di Abraham Gomez-Delgado, percussionista eccezionale che viene dalla tradizione salsa. Siamo molto diversi per formazione musicale e culturale: forse per questo la nostra partnership funziona alla grande. In realtà è un po' una follia allestire una band di dieci elementi di questi tempi, ma ci divertiamo, e tanto basta.

Per il primo disco io e Abraham ci siamo occupati delle composizioni (con un pezzo di Matt Bauder e Jen Shyu a completare la scaletta). Abbiamo cercato di coniugare la tradizione della grandi big band jazz con il meglio della salsa, aggiungendo qualche ingrediente originale all'impasto. Proprio in questi giorni stiamo lavorando a nuove composizioni a quattro mani, cercando di imitare quel che facevano Ellington e Strayhorn quando scrivevano spalla a spalla.

AAJ: Progetti per il futuro?

T.H.B.: Sono reduce da un periodo di attività molto intensa: l'etichetta, l'organizzazione del New Trumpet Festival e i vari progetti di Braxton. Appena registrata l'opera di Anthony mi prenderò un periodo di riflessione, cercando di concentrarmi sulla scrittura.

Discograficamente parlando, ci sono alcuni dischi che stanno per uscire e che mi vedono coinvolto a vario titolo: Stepwise, in duo con Tomas Fujiwara, Book of Three, in trio con John Hebert e Gerald Cleaver, Next, in trio con Joe Morris e Sara Schoenbeck, e Song/Dance, con il Convergence Quartet.

Poi, in aprile, sarò in Cina per la prima volta. Suonerò con musicisti dell'area di Hong Kong e Shanghai. In maggio, invece, sarò in tour in Europa con i Positive Catastrophe. Infine, in autunno, sto organizzando la prima edizione dell'Acoustic Bicycle Tour, due settimane a zonzo per il New England, ovviamente in bicicletta, suonando ogni sera con un gruppo diverso. Se l'idea dovesse funzionare, e se ne uscirò vivo, potrei anche provare a esportarla in California e magari in Europa. Chissà che non ci si incontri...

Foto di Claudio Casanova

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