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Intervista a Stefano Senni

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Stefano Senni è senza dubbio uno dei contrabbassisti più richiesti e apprezzati della scena italiana, vanta una lista interminabile di collaborazioni che spaziano da Oscar Klein a Tony Scott, da Cedar Walton a Chris Speed, da Tom Harrell ad Anthony Coleman, Enrico Rava, Stefano Bollani, ma, curiosamente, ha all'attivo una sola incisione da leader. Benché sul palco e nella vita abbia la signorilità di un lord inglese, il suo contrabbasso lancia traccianti sonori formidabili ed è in grado di agitare come pochi le acque di qualsiasi performance musicale. Ha una laurea bocconiana nel cassetto (guai a farlo sapere) ed è mente tra le più attive dell'etichetta collettivo El Gallo Rojo, una delle poche realtà italiane che sta cercando di cambiare le regole del gioco nella sempre più intricata e compromessa partita della produzione e della distribuzione musicale. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.

All About Jazz: Hai iniziato a studiare contrabbasso e avvicinarti al jazz a vent'anni, età alla quale emergono sempre più spesso giovani talenti. Come si spiega questo tardivo ingresso nell'agone jazzistica ?

Stefano Senni: Diciamo molto semplicemente perché non ho antenati musicisti in famiglia, né i miei genitori mi hanno spinto verso questa passione in tenera età, essendo stati per lo più interessati ad altre forme d'arte. A casa si ascoltava un po' la radio, ricordo più che altro i concerti di musica classica della domenica mattina, e tra l'esigua discografia di mio padre ho ben presenti tre dischi: Ray Charles, Fats Domino e Fausto Papetti! Quindi la passione per il contrabbasso si è sviluppata con l'età della ragione, forse anche più tardi, quando ho avvertito che questa esigenza stava diventando preponderante.

AAJ: C'è stato un elemento che ha acceso la scintilla del tuo interesse?

S.S.: Direi che è stata una crescita graduale, oltre al fatto che essendomi trasferito a Milano a vent'anni colsi l'occasione per iscrivermi alla Civica Scuola di Jazz, diretta da Cerri e Intra, che frequentai per tre anni. Ciò mi permise di suonare subito con musicisti di livello, e di colmare in qualche modo il gap anagrafico. Anche se a volte mi trovavo in situazioni per le quali reputavo di non essere ancora pronto, ero praticamente in prima linea! Ecco, devo dire che i corsi, più che sotto l'aspetto teorico, mi hanno sollecitato dal punto di vista dell'esperienzia, consentendomi di tessere la prima rete di contatti, di suonare con i miei stessi insegnanti e con grandi musicisti. E per questo motivo mi reputo sostanzialmente un autodidatta.

AAJ: Ironia della sorte, insegni al Conservatorio di Rovigo e ti sei appena definito autodidatta. Conservatorio o jazz club ?

S.S.: Domanda da un milione di dollari! L'argomento dell'insegnamento del jazz nei conservatori è molto delicato, anche perché è ancora in divenire. Io credo che buona parte della riuscita dei corsi e della preparazione degli allievi dipenda dall'onestà intellettuale dell'insegnante che deve muoversi tra normative un po' ambigue e ampi spazi di autonomia decisionale. Da un canto insegnare al conservatorio è un'esperienza elettrizzante perché hai a disposizione una struttura organizzata che ti mette nelle condizioni ottimali per poter lavorare sulla musica. Dall'altro talvolta riscontro un po' di "passività" e di mancanza di curiosità negli allievi che si aspettano... la "soluzione del problema," senza considerare che in questa musica la gestione del materiale è quanto mai multiforme e aperta a svariate possibilità, spesso tutte valide. Per rispondere alla domanda direi... entrambe le esperienze, con una predilezione per il club! Nella formazione di un musicista non si può prescindere dalla pratica con gli altri, ti costringe da subito a misurarti con quelli più bravi e maturi di te, e questo è un grande momento di crescita.

AAJ: A proposito di crescita ci sono stati dei musicisti di riferimento stilistico ed umano nei tuoi primi passi da musicista?

S.S.: Ho chiaramente delle preferenze e dei gusti ma ti dirò che non c'è stata una molla in particolare o un artista che ha cambiato la storia della mia vita. Amo e sono influenzato da tutti quei musicisti che mi arrivano dritti al cuore e che hanno una certa magia nel suono.

AAJ: Nel tuo percorso professionale balzano immediatamente all'occhio due aspetti: il primo è la lista infinita di collaborazioni a fronte di un solo disco da leader, il secondo è la loro trasversalità: si va dal jazz tradizionale (Oscar Klein), ai giganti del mainstream (Steve Grossman, Cedar Walton...), all'ondata dei musicisti creativi d'Oltreoceano (Chris Speed, Anthony Coleman, Ron Horton, Michael Blake...) e legati a El Gallo Rojo o a Improvvisatore Involontario.

S.S.: Ho fatto un solo disco a mio nome perché... è molto più semplice fare il sideman (risata!). C'è da dire che il mio strumento (considerato il principe dell'accompagnamento) ti porta più spesso a suonare la musica degli altri. La qual cosa mi piace moltissimo, è una sfida stimolante riuscire a dare il tuo contributo a musicisti sempre diversi mantenendo la tua voce personale e riconoscibile. Anche la trasversalità delle mie partecipazioni è legata a questo desiderio di misurarmi continuamente con artisti e in contesti anche molto distanti tra loro. L'importante, ripeto, è riuscire a conservare una voce personale. E poi il contrabbasso rispecchia molto il mio carattere. Non mi sento un leader o un trascinatore di compagnie ma se trovo la spalla giusta mi scateno. Il contrabbasso raramente suona in prima linea ma dalle viscere della musica incide in maniera decisiva sull'organizzazione e sullo svolgimento di quello che succede sul palco. Insomma... meglio regista che attore protagonista.

AAJ: Lavori in modo particolare per ottenere il suono che ti contraddistingue?

S.S.: Non ho mai pensato troppo razionalmente a come ottenere un certo suono piuttosto che un altro. E sono anche convinto che perdere troppo tempo sul set-up non dia grandi frutti. Molto semplicemente devi averlo in testa, e il corpo troverà il modo di tradurlo sullo strumento. Il mio suono deriva dagli ascolti che ho fatto e da quello che mi piace. Alla base riflette il tono caldo e la cavata possente dei primi bassisti afroamericani, ma poi guarda al periodo e agli orizzonti attuali. Amo molto l'idea del dramma nel suono. Il contrabbasso deve essere teatrale nel bene e soprattutto nel male (maestro in questo è Charlie Haden).

AAJ: Visto che hai all'attivo una sola registrazione come leader vogliamo parlare dei tuoi Saul Bass e del disco Psychocandy?

S.S.: E' stata una lunga gestazione, alcuni pezzi risalgono a parecchio tempo fa. E poi sono molto lento nella scrittura. L'idea guida è stata quella di inserire una melodia semplice in un contesto disagevole. Uno dei gruppi fondamentali nella mia formazione è stato proprio The Jesus and Mary Chain, che ho voluto in un certo senso omaggiare prendendo a prestito il titolo del loro primo, clamoroso album. Disco nel quale usavano cellule melodiche estremamente semplici e cantabili e le circondavano con una tempesta sonora che apparentemente sembrava danneggiarle, ma in realtà creava un contrasto di straordinaria efficacia.

AAJ: E l'idea di un quartetto con la presenza di due chitarre elettriche?

S.S.: Avevo in mente il suono del progetto, così ho cercato di allestire la miglior formazione che potesse avvicinarsi a quell'idea. E l'accoppiata tra Enrico Terragnoli e Dario Volpi si è rivelata particolarmente felice, perché nonostante siano molto diversi tra di loro si fondono in maniera perfettamente funzionale alla musica. Psychocandy non si può etichettare come disco di jazz, ma è proprio quello che avevo in mente e lo trovo molto divertente e stimolante.

AAJ: La scena veronese è da qualche anno particolarmente vivace e intraprendente, e catalizzatore di questi fermenti è il collettivo/etichetta El Gallo Rojo, realtà ormai dalla grande visibilità che si contraddistingue per l'alta qualità delle sue proposte e della quale sei tra i fondatori...

S.S.: E' meglio sfatare una presunta idea di rinascita veronese del jazz! Anzi da quando circa dieci anni fa mi sono trasferito, questa città si è gradualmente assopita, molti teatri rimangono inutilizzati e diversi club hanno chiuso i battenti. Verona è come una bella signora di mezza età che però dorme. Tanto è vero che diversi musicisti se ne sono andati (Francesco Bearzatti, Renato Chicco, Paolo Birro, Zeno De Rossi per citarne alcuni). El Gallo Rojo è una realtà che prescinde la connotazione geografica del nord-est, per carità. Semplicemente un gruppo di musicisti tra loro affini ha deciso di organizzarsi in una struttura che permettesse loro di veicolare la propria musica al meglio possibile, e ciò è accaduto in questa particolare zona del territorio italiano.

AAJ: Come membro del collettivo El Gallo Rojo, realtà in prima linea su questo problema, quali pensi possano essere le strategie da attuare per potere sopravvivere in un mercato in continua e velocissima evoluzione?

S.S.: E' molto difficile a dirsi. E' un problema che emerge anche nelle nostre discussioni interne. Personalmente, e forse utopisticamente, penso che sia una questione da risolvere solo dal punto di vista musicale. L'unica arma che noi musicisti possiamo utilizzare è la qualità e la sincerità d'intenti del nostro lavoro.

AAJ: Cosa stai ascoltando in questo periodo?

S.S.: Un po' di tutto, random, come sempre. Cito un nome perché è l'ultimo ascolto fatto: il chitarrista danese Jakob Bro, molto interessante, dalla vena melodica vicina a quello che sto cercando in questo periodo. Ma ascolto molto la radio in auto, quando viaggio, forse mosso dal gusto dell'orrido anche se ogni tanto ci si imbatte in qualche sorpresa interessante.

AAJ: A proposito di ascolti, che atteggiamento hai nei confronti dei tuoi colleghi? Vai a sentire i loro concerti?

S.S.: Appena posso, assolutamente sì. E devo riconoscere che molte delle cose più interessanti che ho sentito di recente non arrivavano da gruppi o nomi stranieri altisonanti ma piuttosto da amici e colleghi, o comunque musicisti che mettono in campo grinta, cuore, originalità, voglia di rischiare.

AAJ: E la laurea in Economia?

S.S.: E' da sempre appesa al muro... Mi ricordo che il giorno della discussione della tesi ero preoccupatissimo di finire il prima possibile perché avevo un aereo da prendere per andare a suonare in Sicilia!

AAJ: Un sogno nel cassetto?

S.S.: Comporre un nuovo Trillo del Diavolo! Mi piacerebbe fare un sogno come quello del violinista Giuseppe Tartini, svegliarmi improvvisamente nel corso della notte e trascrivere la melodia più bella della mia vita!

Foto di Claudio Casanova.

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