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Intervista a Stefano Pastor

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Dalla musica classica all'improvvisazione jazz passando per la musica italiana, questo è l'inusuale percorso artistico del violinista genovese Stefano Pastor. Dopo l'esordio con Una notte italiana è da poco uscito Transmutations per la casa discografica inglese Slam Records, un disco in cui Pastor ha ripescato composizioni di Ornette Coleman e John Coltrane rivelandosi come un musicista cui stanno strette le categorizzazioni.

All About Jazz Come hai conciliato il tuo passato di violinista classico con quello attuale di improvvisatore?

Stefano Pastor Suono jazz e quindi musica improvvisata sin da quando ero ragazzo. L’inizio della mia formazione teorica e tecnica risale agli anni giovanili anche per quanto riguarda l’improvvisazione. Tuttavia per anni questa sfera è rimasta sopita. Ho suonato molto in orchestra e per sette anni in quartetto d’archi. L’incontro con Piero Farulli, con cui io e gli altri componenti del mio quartetto abbiamo studiato due anni, è stato determinante nell’indirizzarmi verso una ricerca del suono talvolta estrema. I tanti ascolti dei dischi del mitico Quartetto Italiano, formazione di cui Farulli fu la viola, mi restituivano spesso, oltre al rigore interpretativo e alla straordinaria qualità dell’impasto sonoro, un’impressione di trasfigurazione del suono degli archi in qualcosa d’altro.

Fu in quel periodo che cominciai a sperimentare e a usare sistematicamente suoni che si avvicinassero al suono dell’organo o del flauto. Quando capii che il jazz era la musica che più desideravo suonare cominciai a studiare le registrazioni dei grandi musicisti che avevo eletto a punto di riferimento stilistico e si trattava di saxofonisti.

Non desideravo suonare il violino come i grandi violinisti jazz ma suonare la musica di Trane, Bird, Ornette. Il suono del violino mi riusciva sempre inadeguato per questa musica (non miravo tanto al modo di usare il violino di Ornette che probabilmente non sarebbe così funzionale alla sua musica se non fosse supportato da quello che riesce a esprimere col contralto). Il percorso di trasfigurazione del suono cominciato negli anni di quartetto poteva essere un punto di partenza per avvicinarmi a quella musica che faceva fieramente a meno dei violinisti.

Ho lavorato anni per snaturare il suono del mio strumento, imparando a simulare l’attacco del sax, il fiato che emerge dalle note fantasma, l’intonazione particolare di alcuni sopranisti, la tensione che comunicano certi tenoristi quando usano il registro superacuto. Allo stesso tempo ho cercato di eliminare tutte le caratteristiche dello strumento che non trovavo compatibili con quella musica: tipo di vibrato, portamenti, fraseggi in arcate sciolte ecc. Tutto ciò non era orientato alla mera emulazione di modelli ma all’assimilazione profonda di un linguaggio resa faticosa all’ostacolo di uno strumento per così dire “estraneo”. Il confronto con la potenza degli strumenti a fiato mi ha anche costretto a cercare di ottenere un suono il più robusto possibile attraverso la ricerca di materiali e la messa a punto dello strumento.

Un esempio su tutti per far capire quanto questa ricerca si sia spinta lontano e come abbia tentato anche le soluzioni più bizzarre: tre corde su quattro tra quelle che uso sono per chitarra e non per violino in quanto queste ultime le ritengo troppo morbide. Ho dovuto non solo imparare moltissimo ma anche disimparare ciò che ormai emergeva quasi istintivamente. A tale proposito credo siano stati determinanti sei lunghi anni senza suonare, sei anni in cui ho insegnato e mi sono avvicinato al mondo del vino divenendo anche un degustatore ed un autore di testi per l’editore Slow Food di Carlo Petrini.

AAJ: La canzone italiana ti ha ispirato per il tuo primo disco, cosa c`è dietro? In che rapporto ti trovi con questo tipo di tradizione?

Stefano Pastor: Il motivo principale per cui ho cominciato a trasporre in jazz canzoni italiane è quello di offrire a un pubblico eterogeneo e non necessariamente esperto di jazz, presente in molti locali in cui ho suonato, una chiave di lettura per avvicinarsi alla mia musica.

Con la canzone ho un rapporto di piacevole quotidianità: ascolto molta musica popolare brasiliana ma anche canzoni italiane e di altri paesi e poi il repertorio jazz standard è fatto di canzoni. Nei dischi a mio nome sto progressivamente aumentando lo spazio in cui canto canzoni. Il mio nuovo CD, registrato in solitudine e di prossima pubblicazione, conterrà ben cinque tracce cantate e una canzone scritta da me a partire da un racconto di Sartre. Mi affascina comunque lavorare sulla parola e infatti sta per uscire un lavoro (ma un frammento di esso è già pubblicato sul n. 5 della rivista con CD “Suono Sonda”) scritto a quattro mani con la poetessa Erika Dagnino che si intitolerà Cycles (sulla rivista “Cicli”).

Una Notte in Italia, il lavoro a cui ti riferisci, è una serie (certo largamente incompleta) di canzoni italiane che ho amato e che faccio rivivere attraverso le tracce più profonde che esse hanno sedimentato in me.

AAJ: Da Venuti e Grappelli in poi il jazz ha riconosciuto un ruolo per il violino, seppur saltando la rivoluzione del bop. Riappare poi nel jazz-rock con Ponty, Urbaniak e Goodman e nel free con Leroy Jenkins e Billy Bang; ora lo ritroviamo con musicisti giovani come Jenny Scheinman, Sam Bardfeld o Eyvind Kang. Ci puoi darne una tua interpretazione di questo percorso?

Stefano Pastor: Non credo di poter dare una spiegazione assoluta ma posso tentare alcune ipotesi. Il vuoto che il violino lascia nel periodo bop è un aspetto significativo per la storia di questo strumento: è opinione comune che tutto il jazz contemporaneo si basi sulla rielaborazione del linguaggio bop e i violinisti che vogliono costruirsi un bagaglio tecnico non hanno modelli da seguire per quel che riguarda quello stile.

La prima domanda che mi pongo è “Perché questa assenza?” Credo che alcuni fattori concomitanti abbiano sfavorito il violino in quel periodo. In primo luogo il suono debole costringeva all’uso dell’amplificazione, molto scomoda in un'epoca in cui era determinante partecipare spessissimo alle jam sessions che si svolgevano da un locale all’altro. La scarsa potenzaha anche impedito lo sviluppo di un fraseggio che Jamey Aebersold, in uno scritto a carattere didattico, definisce “rilassato, legato e levigato” e che è il tipo di fraseggio che normalmente si adatta meglio al jazz moderno. Un fraseggio che si sviluppa in agilità più che in forza ma se non hai uno strumento potente, che ti permette leggerezza, non viene fuori quello che suoni, non si sente. Anche l’enorme range di cui dispongono i fiati è determinante per il tipo di accentazione bop e anche qui il violino parte svantaggiato. L’amplificazione risolverebbe il problema ma credo che ci sia l’enorme complicazione di come il violinista percepisce il proprio strumento a rendere più difficili le cose.

Una differenza esemplare di come la percezione del proprio strumento sia condizionante sta nel fatto che se chiedi a uno strumentista a fiato di improvvisare qualcosa fortissimo spesso risponde con note lunghe o con frasi articolate ma legate, il violinista per trarre il massimo della forza andrà a cercare probabilmente un tremolo con l’arco. Ora, il bop si è sviluppato privilegiando alcuni strumenti piuttosto che altri ed è quindi normale che il tremolo non sia praticamente presente in nessun disco bop. Credo che il violinista jazz moderno debba sentirsi uno straniero che impara una nuova lingua e nuove abitudini che non gli erano mai appartenute prima e che debba rivolgere la propria attenzione quindi a quegli strumenti che quella lingua l’hanno sempre parlata.

Per quanto riguarda i nomi che hai citato direi che, indipendentemente dallo stile, Billy Bang e Leroy Jenkins sono i “musicisti” più intensi e capaci di comunicazione profonda. Non credo sia un caso che poi si tratti di musicisti animati da moti politico-sociali e personali di rilievo: l’artista, come l’intellettuale, dovrebbe essere anche coscienza critica ma in Occidente sembra che degli artisti e degli intellettuali si possa fare a meno, a vantaggio di un comodo intrattenimento e di una informazione preconfezionata.

AAJ: Il jazz-rock ha portato per un pò in auge il tuo strumento, hai mai seguito questo tipo di espressione artistica?

Stefano Pastor: Si tratta di musica interessante che ha nella potenza e nella compressione estrema i suoi punti di forza. L’ambientazione sonora è decisamente elettrica e questo mi tiene un po’ a distanza perché io suono uno strumento acustico. In realtà uso sempre l’amplificazione che di fatto caratterizza molto il mio timbro ma credo che si tratti di un timbro naturale, che si avvale dell’amplificazione senza rivelarla, mantenendo una apparente dimensione acustica. Non è un caso che in quel tipo di musica si usi prevalentemente il basso elettrico. Il contrabbasso, anche se col pick up, capta in modo eccessivo i suoni del palco compromettendo la pulizia del suono. Al violino acustico amplificato succede lo stesso. Del resto non sono interessato ad uno strumento elettrico proprio perché il mio suono si fonda principalmente su quello che il mio strumento può dare prima di essere amplificato e che determina fortemente il risultato finale.

AAJ: Passiamo ai tuoi dischi, dalla musica italiana ad Ornette e Trane.

Stefano Pastor: Il primo disco credo sia un buon esempio di come riarrangiare e riscrivere canzoni, senza scadere in soluzioni banali ma rielaborando ritmo e intervalli, cambiando scenari espressivi o esasperando i contenuti emotivi dei brani originali. In “Transmutations” ho voluto che ci fossero brani miei e che fosse un disco più jazz nel senso che il sound e la gran parte dei materiali fossero inequivocabilmente identificabili come jazz.

Vi sono molti elementi che caratterizzano questo progetto. Di certo amo tentare di ideare progetti coerenti per i miei CDs in modo tale che l’impianto generale venga a costituire una sorta di racconto, in musica ma anche in parole visto che mi dedico anche personalmente alla stesura delle note di copertina. Non amo dunque i dischi dedicati al grande di turno senza che questi scaturiscano da una motivazione profonda e specialmente detesterei farli negli anni in cui ricorre la nascita o la morte di qualcuno. Mi sembra che si possano trovare pretesti migliori per parlare di qualcosa o di qualcuno, senza dover fare indigestioni per poi digiunare per cinquant’anni.

Transmutations è, in primo luogo, una raccolta di brani miei che hanno in comune il fatto di non essere melodie di fantasia ma di essere elaborazioni, trasmutazioni appunto, di materiali di partenza vari, talvolta anche minimi come una semplice cellula melodica. L’idea di usare materiali diversi, dalla canzone italiana ai ritmi sudamericani allo swing e ancora al blues e perfino a Mozart, rivela il mio intento di affermare quanto il jazz sia una musica in continua evoluzione, capace di contaminarsi e di fagocitare i materiali più diversi e di restituirli in forma sempre nuova. Questo disco si riferisce fortemente ad alcune avanguardie storiche non solo per il fatto che vi sono delle interpretazioni di brani come “Bird Food” di Ornette e di “Crescent” di Trane ma anche perché tutto il CD è orientato verso direzioni, nelle improvvisazioni ma anche nella scrittura, che tali avanguardie hanno indicato. La grande qualità dei musicisti che vi hanno partecipato ne ha fatto un disco moderno, free per lunghi tratti e tuttavia molto facile all’ascolto, anche per orecchie non esperte di avanguardie.

AAJ: Puoi darci qualche anticipazione relativa ai tuoi prossimi impegni?

Stefano Pastor: Oltre al già citato lavoro per violino solo, che rappresenta un’operazione ambiziosa e, credo, inedita e che ho preparato con grande cura, vi è questo Cycles, scritto con Erika Dagnino, cui ho già accennato, che dovrebbe uscire a breve. Le immagini fotografiche saranno ancora una volta di Federico Brondi Zunino, l’autore delle riuscite immagini di Transmutations. Sono felice di lavorare con questi due artisti su un progetto così impegnativo come Cycles che, in definitiva, è una profonda meditazione sulla transitorietà dell’esistenza.

Il materiale è tutto pronto: testi, musica e immagini; ognuno di noi ha interpretato il tema in modo doloroso e intenso: l’immagine di copertina non lascia aperture alla speranza; testi e musiche sono imperniati su di una ossessività falsamente consolatoria. Poi ci sono un paio di CD, uno live ed uno in studio, che usciranno entro l’anno e che documentano un periodo di concerti e di incisioni in Inghilterra, con alcuni interessantissimi musicisti dell’area dell’avanguardia britannica come Harry Beckett, George Haslam e Paul Hession tra gli altri. Si tratta di due dischi grintosi e in stile free che non mancano però di una certa, “facile”, godibilità all’ascolto.

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