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Intervista a Roberto Bonati

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La carriera di Roberto Bonati, parmense DOC, classe 1959, si avvia ormai a raggiungere la boa dei trent'anni. Se come contrabbassista ha collaborato con vari leader, in primis Giorgio Gaslini e Gianluigi Trovesi, in qualità di compositore e arrangiatore di notevole spessore ha ideato e diretto vari progetti personali. Docente presso il Conservatorio Arrigo Boito di Parma nei corsi di jazz, tredici anni fa ha inaugurato il festival Parma Jazz Frontiere, del quale è tuttora il direttore artistico e all'interno del quale ha sempre ideato produzioni originali ed esclusive, tese a incrociare linguaggi e musicisti di diverse origini.

Il 31 ottobre, in apertura della tredicesima edizione del festival, ha presentato una coproduzione col Festival di Ankara: il suo gruppo Musica Reservata e il sestetto turco ABIS, diretto da Cenk Guray, si sono integrati in un percorso concatenato, in cui le diverse culture si sono affiancate, alternandosi, sovrapponendosi, compenetrandosi in un intimo dialogo e con soluzioni a volte dialettiche.

A Bonati abbiamo posto alcune domande proprio per cercare di approfondire in primo luogo la natura dell'incontro musicale e umano fra le due componenti di questo progetto inedito. Sono stati poi affrontati altri aspetti della sua attività musicale, recente e futura.

All About Jazz: Roberto, partiamo della genesi di questa collaborazione: come è nata e si è sviluppata?

Roberto Bonati: Tutto è iniziato nel febbraio di quest'anno, da un invito di Francesco Martinelli (che condivide quindi con me "oneri e onori" della paternità di questo progetto) il quale ci ha proposto un tour in Turchia che prevedeva un concerto all'Università di Istanbul, un altro al festival di Izmir e il progetto "Jazz Mix Culture" al festival di Ankara con il gruppo Abis.

Al festival di Izmir abbiamo tra l'altro tenuto un workshop di quattro giorni, che è sfociato in un concerto finale. In questa occasione un ensemble di studenti è stato coordinato in piccoli gruppi da Mingiardi e Luppi, mentre Dani ha lavorato con un ensemble di batteristi e io ho tenuto un altro piccolo gruppo e lavorato con un'orchestra laboratorio intorno al mio brano "Dirge a Pier Paolo Pasolini". Ci è sembrato interessante poter confrontare le nostre esperienze con dei musicisti di una diversa provenienza geografica e culturale e così è iniziata l'avventura.

Da quando il concerto è stato deciso abbiamo riflettuto a lungo, insieme a Cenk, su come poteva essere strutturata la musica e ci siamo inviati reciprocamente cd e partiture. Arrivati ad Ankara abbiamo provato per due giorni con questi musicisti e si è subito instaurata una positiva e profonda atmosfera di lavoro, una bella sintonia. Gli Abis hanno una concentrazione e una profondità molto particolare, una grande intensità durante il lavoro e ci siamo sentiti "a casa" per aver ritrovato un'intenzione comune.

AAJ: Mi sembra appunto che l'incontro di Parma sia stato affrontato con grande rispetto reciproco.

R.B.: Il problema centrale di questi incontri è che spesso risultano delle accozzaglie di suoni, una specie di catalogo turistico di geografia musicale, i musicisti si incontrano al pomeriggio e alla sera ognuno sul palco fa la sua cosa. L'idea da cui siamo partiti è stata invece quella di fare in modo che i diversi linguaggi e le molteplici tradizioni riuscissero a convivere all'interno di una stessa forma musicale ri-generandosi reciprocamente, e proponendo quindi una musica che fosse il risultato dell'incontro, non solo l'incontro. Ciò ha fatto sì che i brani si compenetrassero l'uno con l'altro e ognuna delle "zone" d'improvvisazione fosse concepita in una diversa funzione drammaturgica ed emotiva attraverso la coesione o il contrasto dei linguaggi.

AAJ: Nei temi di Cenk Guray, soprattutto nella prima parte del concerto, sono prevalse melodie lente e arcaiche ed un'esposizione quasi dimostrativa degli strumenti della tradizione turca, mentre nei tuoi brani sono emerse strutture e dinamiche occidentali. Un ruolo fondamentale quindi per compenetrare le due componenti l'hanno avuto i preventivi accordi verbali e gli arrangiamenti. Mi puoi chiarire come hai/avete affrontato questo aspetto?

R.B.: In molte tradizioni musicali extra europee il concerto inizia con una specie di introduzione (l'alap della musica indiana) durante la quale gli strumenti, per così dire, si presentano e ci fanno ascoltare le note essenziali del modo musicale su cui sarà basato il brano. Nello stesso tempo questo "spazio" introduttivo serve a far sì che musicisti e pubblico possano "entrare" nella musica. Una specie di porta verso il concerto, una separazione dal quotidiano per entrare in una diversa dimensione.

Cenk è uno studioso di musica sacra turca e le sue melodie sono un riflesso del suo essere. Uno degli aspetti fondamentali delle musiche extra europee è la conservazione degli antichi valori spirituali, la musica ha un aspetto rituale, è un soggetto che si mescola, si incarna alla vita, non è solo un oggetto di contemplazione estetica. Anche in Occidente è stato così per molto tempo ed è tuttora così per gli artisti autentici, quelli che desiderano rivelare il senso delle cose e il loro mistero. Questa è per me l'unica necessaria motivazione al fare artistico in continuo rapporto con la tradizione e le modificazioni dei linguaggi. Così si sta in continuo dialogo tra lo stupore primordiale e la consapevolezza della complessità linguistico-grammaticale.

Ho un'attenzione particolare per quelle che sono le motivazioni originarie dell'essere musicista o artista, sia per quelle mie personali, sia per quelle che storicamente hanno portato un uomo nella notte dei tempi a dipingere animali in una grotta e ad ascoltare dei rumori con l'intenzione di ricevere un'informazione emotiva e religiosa. In quel momento e da quel momento le cose hanno avuto un sapore di magia del tutto particolare.

Credo che qui a Parma abbiamo dimostrato di essere giunti a un buon risultato.

AAJ: L'intreccio fra le due culture è stato altrettanto evidente nel concerto del duo di chitarre Vincenzo Mingiardi e Sarp Maden. In questo caso si è assistito quasi ad un ribaltamento dei ruoli, nel senso che Mingiardi da sempre guarda con profonda competenza alle culture orientali, mentre Maden, cresciuto a Istanbul, è fortemente interessato alla musica occidentale, jazz e non solo. Trovo che un esempio come questo possa indicare una strada percorribile per un intreccio fra culture autentico e auspicabile, non superficiale, nel nome di un linguaggio musicale universale.

R.B.: Senz'altro hai colto nel segno per quanto riguarda questi due musicisti. In Vincenzo sono molto presenti le tradizioni musicali orientali (indiana, e centroasiatica in particolare) e un forte interesse per le musiche di cultura islamica, mentre Sarp ha un percorso in qualche modo inverso; ma così come in Mingiardi sono presenti l'occidente e la tradizione afroamericana, Maden ha assimilato e continua ad approfondire (come ha fatto durante il suo workshop al Conservatorio di Parma) le tecniche microtonali proprie della tradizione turca.

Sono convinto che un profondo intreccio tra le culture sia uno dei fondamenti della contemporaneità. Se si parla di un linguaggio musicale universale il discorso si fa complesso. Credo sia importante che non ci sia omologazione ma convivenza e reciproco scambio nella differenza, nel ricordo di antiche tradizioni che convivono con quelle che saranno le nuove tradizioni. La conoscenza reciproca deve portare ad uno scambio fertile, a una lingua comune fatta di linguaggi nei quali possa essere viva la memoria dei rispettivi passati.

AAJ: D'altra parte la contaminazione fra culture è un processo inevitabile, vecchio come il mondo; negli ultimi decenni però è diventata una prassi più esplicita e consapevole da parte degli artisti e quasi una categoria di pensiero, un'etichetta da parte dei critici. Rischia sempre più spesso di trasformarsi in una moda, una maniera, un riferimento di comodo. Fra l'altro della "velenosità" della contaminazione si parla anche in un dibattito recentemente pubblicato su AAJ. Secondo te in quali condizioni l'atteggiamento concettuale e operativo della contaminazione presenta caratteri deteriori?

R.B.: Non amo il termine contaminazione, mi sa di malattia, d'infezione virale. Come accennavo poco fa, molti dei progetti "etnici" sono una specie di menu musicale internazionale, un supermercato di suoni: un po' di oud, un pizzico di sitar, un'arpa celtica, non dimentichiamo anche le launeddas e il ney. Una cosa è accostare i suoni, i nomi dei musicisti, altra cosa è inserire in un'idea compositiva e strutturale forte e autentica le possibilità che i linguaggi e le diverse pratiche musicali ci offrono. Le operazioni a cui si riferisce Salo sono solitamente operazioni commerciali, ci si incontra e si suona, e si suona anche bene in molti casi, ma quello che si sente denota troppo spesso una mancanza di spessore, un'assenza di necessità artistica. Diventa ancora una volta accademia, l'accademia della world music. Certo sono cose che funzionano dal punto di vista del mercato, ma credo che ci sia bisogno di un po' più di cuore, di profondità, di riflessione e di ricerca quando ci si accinge al lavoro artistico.

AAJ: Con Mingiardi, Riccardo Luppi, Roberto Dani ed altri hai instaurato una collaborazione pluriennale; mi pare che abbiate avviato una sorta di laboratorio permanente, un cenacolo di idee, forse anche perché, insegnando tutti al Conservatorio "Arrigo Boito" di Parma, avete modo di incontrarvi spesso. Puoi confermare questa mia impressione?

R.B.: Intorno a ParmaFrontiere, al festival e al Conservatorio lavora un gruppo di musicisti legato da una storia e da un percorso comuni, dalla condivisione di tante avventure musicali e anche da una profonda stima e amicizia. A mio parere sono tutti musicisti differenti tra loro e con una cifra linguistica speciale. Credo che sia importante coltivare le unicità, le particolarità di ognuno. Molti sono musicisti che ho invitato a collaborare ai miei progetti a cominciare dalla ParmaFrontiere Orchestra, per poi arrivare all'Haiku Ensemble e infine ai piccoli gruppi.

C'è un profondo scambio creativo, un confronto appassionato e anche acceso alle volte; un grande desiderio di proposta, un interrogarsi sulle possibilità linguistiche dell'oggi; una grande apertura verso le molteplici realtà musicali che costituiscono la scena contemporanea. Un lavoro quindi che per tutti questi motivi personalmente trovo molto interessante.

AAJ: Puoi chiarire il vostro metodo di lavoro?

R.B.: Lavoriamo da una parte sulla scrittura e dall'altra sull'improvvisazione, poi sul rapporto reciproco tra queste due strade, che secondo me è estremamente stimolante. Sicuramente, come tu hai detto, si tratta di un laboratorio permanente e il fatto di collaborare alla costruzione di un importante polo didattico nella "bottega" del Conservatorio di Parma è una grande opportunità, resa possibile anche dalla lungimiranza del direttore M° Emilio Ghezzi. L'idea didattica di fondo è proprio quella di far vivere una bottega di tipo rinascimentale, mettendo gli studenti a continuo confronto con il fare musicale, creando per loro occasioni importanti all'interno del festival e della programmazione concertistica della scuola. La cosa più importante è rifuggire il pericolo ormai dilagante dell'"accademia del jazz," di dare un senso attuale alla storia e alle tradizioni. Il pensiero forte è quello di partire dal fare per attraversare il sapere e ritornare al fare.

AAJ: Devo dire però che la vostra visibilità in Italia, a livello concertistico e discografico, non è pari all'originalità della vostra ricerca. Da cosa dipende? Da un'insufficiente promozione da parte vostra, dalla mancanza di spazi e occasioni o da cos'altro?

R.B.: Questa è una domanda da mille punti che forse andrebbe rivolta agli organizzatori, alle etichette discografiche, ai direttori artistici. La risposta a questa domanda potrebbe rischiare di suonare come una "lamentatio" e non mi piace questo atteggiamento.

Può darsi che ci sia un'insufficiente promozione da parte nostra, con la conseguente scarsa informazione su quello che stiamo facendo e può darsi anche che le cose che si propongono non trovino ancora la loro collocazione. Personalmente cerco di dedicare la maggior parte del mio tempo alla musica e questo può essere uno dei motivi della "insufficiente promozione". Sai, le strade sono tutte diverse, ognuno ha i suoi tempi; mi ritengo comunque molto fortunato ad avere quello che ho, ad avere la possibilità di fare tante diverse esperienze e a disporre dell'energia personale per poterle vivere con pienezza.

Forse, come dici tu, la scarsa visibilità dipende proprio dall'originalità della proposta. Esaminando la situazione con molto realismo, si può osservare che la scena italiana è estremamente omologata, i cartelloni presentano quasi tutti le stesse proposte. Manca la committenza di qualità: si è creata una politica culturale dell'"evento," basata più sul nome che sui contenuti. C'è una specie di repulsione e di timore per tutto ciò che cerca di rappresentare le strade, a volte impervie, della contemporaneità. C'è un'insana politica culturale dell'entertainement, del divertimento a tutti i costi, del disimpegno. E, ovviamente, non è un discorso solo musicale ma riveste tutti gli aspetti del nostro vivere sociale. Si è presa l'abitudine di voler ottenere profitto, e un profitto immediato, con gli "eventi" culturali. Trovo quest'atteggamento molto pericoloso, perché non porta con sé l'idea fondamentale di investire per il futuro, di commissionare opere, di fare germogliare nuovi fiori nel giardino della nostra musica.

Da una parte c'è l'intrattenimento e dall'altra l'accademia del jazz. La grande tradizione di quest'ultimo - come di tutte le grandi musiche - ci insegna invece il rischio, il coraggio di proporre, di trovare una propria strada, la bellezza dei diversi percorsi. Non ci insegna solo a rifare malamente cose che sono meravigliose e irripetibili già nell'originale.

AAJ: Torniamo al festival ParmaJazz Frontiere, del quale sei l'ideatore e direttore artistico: che bilancio puoi fare dell'edizione 2008 da poco conclusa?

R.B.: Sono molto soddisfatto delle proposte artistiche e del livello qualitativo dei concerti. Anche quest'anno siamo riusciti, nonostante i problemi finanziari aumentino anziché diminuire, a presentare un programma di altissimo livello e di grande particolarità, oltre che di grande autenticità, con molte nuove produzioni e coproduzioni internazionali. Si è consolidato un fertile rapporto con il Conservatorio, ponendo la dovuta attenzione all'incontro tra i diversi linguaggi artistici (danza, pittura, arte contemporanea, fotografia). Sono anche molto contento per la pubblicazione del libro fotografico "ParmaJazz Frontiere. The book is on the table" con gli scatti di Pietro Bandini, che ha testimoniato con grande poesia questi primi dodici anni di vita del festival.

AAJ: Tornando da dove siamo partiti, a proposito della collaborazione fra il tuo quartetto Musica Reservata e il sestetto turco ABIS, prevedi tappe future? E, come è avvenuto per molti altri tuoi progetti passati, pensi che sarà documentata su CD?

R.B.: Siamo rimasti tutti molto contenti dell'esperienza e ci auguriamo di poter ripetere questo progetto. Ci potrebbe essere una possibilità di rifarlo in Turchia attraverso i contatti di Francesco Martinelli e di Cenk Guray. Anche la registrazione mi sembra buona, quindi è molto probabile che il concerto sarà pubblicato su Cd. Vorrei anche pubblicare "Fiori di Neve," il lavoro sugli Haiku che ho presentato lo scorso anno e che è stato recentemente trasmesso da Pino Saulo a RadioTre Suite.

AAJ: Sempre guardando ai prossimi mesi, hai in cantiere altri progetti tuoi o collaborazioni con musicisti italiani o stranieri?

R.B.: Ho diverse registrazioni che non sono state ancora pubblicate: Musica Reservata, il Trio con Mingiardi e Dani, Haiku Ensemble. Vorrei anche riprendere a suonare in solo e dare alle stampe il disco sul quale sto lavorando da molti anni e di cui ho già una parte registrata dal vivo a Milano, in occasione del festival Ah-Hum dello scorso anno. Il solo si è allargato per un periodo a duo con una cantante e mi piacerebbe riprendere la cosa. In cantiere c'è anche un duo con Roberto Dani.

Il 21 dicembre dirigerò i Sacred Concerts di Ellington con l'orchestra del Conservatorio e un grosso coro, di cui fanno parte il coro del Conservatorio di Parma e il coro della Civica Scuola di Musica Jazz di Milano [per leggere la recensione di questo concerto clicca qui]. Si tratta di una grossa produzione del Conservatorio di Parma che abbiamo già presentato lo scorso anno e che adesso riprendiamo.

Sto inoltre dedicandomi a un nuovo progetto per la ParmaFrontiere Orchestra, con la quale vorrei davvero poter avere una maggiore continuità di lavoro. Ho appena terminato infine un duo per mezzosoprano e contrabbasso su un testo di David Maria Turoldo, che abbiamo eseguito pochi giorni fa.

In generale sono molto felice di suonare con i musicisti con cui collaboro. Ci siamo scelti con attenzione; credo quindi che continueremo ancora a lungo a fare musica insieme. Sono aperto al molteplice, ma le collaborazioni vanno pensate in profondità. Possono esserci incontri "straordinari," ma in generale ci si deve conoscere e avere un'idea di fondo comune, soprattutto per quanto riguarda l'atteggiamento nei confronti della musica.

Per concludere, oltre a tutti i progetti fin qui elencati, ho in mente di ampliare le potenzialità espressive dello strumento: adoro il suono acustico e la fatica che si fa per produrlo, ma mi piacerebbe inserire l'elettronica in uno dei futuri lavori: magari nel solo o nel trio con Mingiardi e Dani.

Foto di Luciano Rossetti (la prima), Pietro Bandini (la terza), Danilo Codazzi (la quarta).

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