Home » Articoli » Interview » Intervista a Marco Fusi intorno a John Cage e i suoi "Fr...
Intervista a Marco Fusi intorno a John Cage e i suoi "Freeman Études"
BySimilmente agli Études Australes per pianoforte, nei Freeman Études Cage rappresenta "la praticabilità dell'impossibile," intesa come risposta all'idea che la soluzione dei problemi politici e sociali del mondo sia impossibile.
All About Jazz: Non si può negare che il repertorio di John Cage per piano sia infinitamente più noto di quello che compose per altri strumenti. Anche i Freeman Études paradossamente non scappano a questa legge. Per parlare di quest'opera si parte inevitabilmente dagli Études Australes per piano e se vogliamo anche da Erik Satie.
Marco Fusi: L'indubitabile notorietà dell'opera pianistica di Cage è legata all'introduzione della preparazione dello strumento, dagli effetti che sono a volte così sorprendenti da fissarsi per sempre nella memoria al primo ascolto. I Freeman (insieme agli Etudes Australes) rifuggono qualunque tipo di preparazione dello strumento, confinando le possibilità compositive all'interno di categorie timbriche e tecniche conosciute e ampiamente codificate.
Il legame con gli Études Australes è viscerale (le stesse mappe stellari hanno dato origine ai due cicli). Nella prima stesura dei Freeman figura l'intestazione "Études Australes for violin"; i processi compositivi sono quasi identici, le questioni poste al lancio delle monete simili. Sicuramente si tratta di due partiture gemelle con la notevole differenza della destinazione strumentale.
La vicinanza alla poetica di Satie è invece un tratto comune alla maggior parte della produzione cageana, quindi non mi sentirei di voler forzare una particolare correlazione tra i Freeman e la musica di Satie.
AAJ: La genesi compositiva dei Freeman Études non può essere scissa da quella esecutiva. Questo conferisce un fascino del tutto particolare all'opera. I primi études (I-XVI) vengono sviluppati con la collaborazione (o su sfida?) del violinista Paul Zukofsky tra il 1977 e il 1980, poi ripresi tra il 1989 e il 1990 in un secondo quaderno (XVII-XXXII). Hai voglia di ripercorrere l'intera vicenda?
M.F.: La vicenda è particolarmente suggestiva per molti aspetti; la cronaca della composizione è effettivamente legata ad una collaborazione che si interrompe, lasciando degli strascichi di partitura tesi verso il loro completamento. È legata ad un tacito accordo con l'esecutore del ciclo completo, cui viene concessa una libertà di interpretazione necessaria all'esecuzione stessa; ma è soprattutto profondamente connessa alla poetica di Cage, al suo voler essere estraneo al processo creativo, alla sua ingenua e profonda coerenza con il principio di astensione. Poco sarebbe servito per smussare gli spigoli contro i quali si spezzò il legame con Zukofsky, ma quel poco sarebbe stato letale per la coerenza ideale del ciclo.
In effetti non ho ripercorso l'intera vicenda, mi sono permesso una divagazione su quello che di profondo vedo nel brusco arresto compositivo di quei dieci anni; spero non me ne voglia!
AAJ: La ricostruzione dell'intero ciclo di James Pritchett è molto importante. Secondo te è esaustiva? Tiene conto di tutti gli aspetti dell'opera, di Cage e della sua personalità e delle reali difficoltà avute con Zukofsky?
M.F.: In effetti Pritchett non ha collaborato (a suo stesso dire) che molto marginalmente nel completamento dell'opera, ricostruendo la serie di "questioni" che Cage poneva al lancio dell'I Ching, decifrando assieme a lui gli incomprensibili quaderni di schizzi e possibilità strumentali. Trovo quindi che la sua partecipazione sia stata estremamente utile, ma che non abbia in alcun modo avuto a che fare con il lato artistico o umano del caso-Freeman.
AAJ: Per comporre quest'opera Cage ha usato la tecnica della "controlled chance," tracciati di mappe stellari per determinare il ritmo e l'I Ching per tutti gli altri aspetti della musica, come lo stile, la dinamica, la durata, i microtoni ect. Hai studiato qualcosa sull'argomento?
M.F.: Ho letto quanto scritto da Pritchett riguardo i Freeman; lo stesso Cage dedica molta attenzione a questi processi che descrive chiaramente sia in Lettera ad uno sconosciuto che nella sua corrispondenza con Pierre Boulez (lettura assolutamente illuminante, che sembra stigmatizzare i due volti chiave del secondo novecento in due scuole di pensiero che si allontanano poco alla volta, una lettera dopo l'altra).
AAJ: Nelle composizioni di Cage 16 è un numero importante. Che importanza ha in particolare nei Freeman Études?
M.F.: La numerologia rientra senza dubbio tra le caratteristiche del pensiero cageano; in effetti rientra tra le caratteristiche di una enorme percentuale di musica composta negli ultimi secoli, da Machault a Webern, passando per Bach e molti altri! Cage intendeva i Freeman Études come un solo, unico brano, suddiviso in 32 sezioni senza soluzione di continuità raggruppate in 4 libri. Sia il numero 8 che il numero 16 sottendono queste suddivisioni, ma non mi sono mai addentrato in una ricerca approfondita al riguardo, nella convinzione che l'analisi numerologica possa produrre qualunque risultato sia desiderato, con un minimo di fantasia!
AAJ: I Freeman Études sono al limite dell'impraticabilità e dell'ineseguibilità. Anzi Cage parlava di "Practicality of the impossible". Cosa ne pensi di questo concetto?
M.F.: La pratica dell'impossibilità è in qualche modo il cuore dei Freeman Études; questo concetto (questa condizione mentale) contagia l'opera in tutte le direzioni.
È un'opera impossibile da comporre (per questo gli anni di arresto, di riflessione). Mi piace immaginare Cage nell'atto di rispettare le risposte del caso, anche a costo di anni di inconcludenza.
È un'opera impossibile da eseguire (fatta salva la concessione in calce agli studi XVII e XVIII, dove al violinista è permesso scegliere quali note eseguire, laddove la mappatura della volta stellare aveva prodotto agglomerati digitali irreali).
È un'opera impossibile da ascoltare (se immaginiamo un ascolto attento ai legami causali insiti nella stragrande maggioranza del fenomeno sonoro).
Prima di essere un concetto etico o politico (come Cage lo definiva a volte), l'ineseguibilità è soprattutto un modo di approcciare il fenomeno sonoro, un'arrendevolezza benevola, una conoscenza dei limiti umani, nel comporre, nell'ascoltare e, in fondo, anche nel suonare.
AAJ: Nelle note di copertina libretto del secondo CD ti concentri molto sul termine "border".
M.F.: I Freeman Études e buona parte della produzione di Cage corrono lungo i confini. Limiti di esecuzione, di notazione, di percezione, di comprensione, di sperimentazione, di immaginazione, di creazione, solo per citarne alcuni.
Quello che Cage tenta continuamente di fare, è un passo oltre il conosciuto, oltre lo sperimentato, fuori dal seminato. A volte questi tentativi rimangono gesti estremi (come il brano per organo della durata di svariate centinaia di anni), provocatori (come il treno preparato), filosofici (4'33''), o semplicemente non riusciti.
Fortunatamente, molto spesso invece, la sfida al confine conosciuto ha portato Cage ad aprire nuove porte sulle funzioni e possibilità del fenomeno-sonoro; ha portato ad ascoltare la musica attorno a noi con un orecchio un poco diverso, più disponibile.
AAJ: Le prime esecuzioni (integrali) dei Freeman Études in Italia sono state realizzate dal violinista János Négyesy, anche se bisogna ricordare che lo stesso Paul Zukofsky ne aveva eseguito dal vivo vari pezzi in varie circostanze. János Négyesy ha eseguito integralmente i primi due libri a Torino nel 1984, e il terzo e il quarto nel 1991 a Ferrara. Hai avuto modo di ascoltare delle incisioni (se ci sono) che documentano queste esecuzioni?
M.F.: Purtroppo non ho avuto modo di ascoltare nessuna di queste esecuzioni. Ho pensato di affrontare la partitura da un livello "vergine," senza neppure, inizialmente, conoscerne la storia o le vicissitudini. L'ho trovata intrigante e mi ci sono immerso. Ancora adesso non vado alla ricerca di altre esecuzioni con cui confrontarmi (in nessun repertorio, in effetti). Ho trovato invece estremamente utile il confronto e la discussione con Irvine Arditti, incontrato a Basilea qualche anno fa, sull'approccio alla partitura.
AAJ: Tra le esecuzioni che sono state realizzate dei Freeman Études la più celebre è fuor di dubbio quella di Irvine Arditti. Cosa ti sembra interessante della sua esecuzione?
M.F.: Trovo interessante il concetto più volte espresso da Arditti stesso, di esecuzioni che si avvicinano sempre un poco di più alla verosimiglianza con il testo. È come se perfino Irvine accettasse l'imponderabilità del momento esecutivo, ponendosi come obbiettivo non quello di raggiungere l'assoluta fedeltà allo spartito, ma quello del percorso necessario per avvicinarsi a questo risultato. Il viaggio è più interessante e ricco della meta stessa, in un certo senso.
AAJ: Quali sono le particolarità della tua incisione. Su quali aspetti ti sei concentrato maggiormente?
M.F.: Non apprezzo la discriminazione che troppo spesso aleggia in ambiti accademici (specie in Italia), secondo la quale per eseguire musica "contemporanea" siano necessarie attenzioni differenti rispetto a quelle prestate al repertorio più antico; a rischio di voler sembrare banale o superficiale, credo di aver prestato la massima attenzione possibile semplicemente all'intonazione, alla condotta ritmica, alla qualità del suono. Le ore di lavoro e di rifinitura di questi parametri hanno portato più volte a scontrarmi con le ragioni profonde della partitura, o quelle che io penso tali e a dovermi confrontare con le sue peculiarità. Alla base del lavoro, però, non ho mai voluto allontanarmi dal vecchio adagio che suggerivano per vincere le audizioni in orchestra: "intonato, vai a tempo, bel suono"!
AAJ: Vorrei soffermarmi sull'aspetto grafico della partitura dei Freeman Études. Che effetto ti ha fatto lavorandoci sopra?
M.F.: La grafia dei Freeman Études è estremamente ragionevole, credo sia il modo più semplice e chiaro per notare quel risultato sonoro. Con un minimo di confidenza, non è neppure scomoda da leggere!
AAJ: Marco Angius nelle note di copertina ("Musica senza musica") scrive: "Risulterà allora più proficuo accostarsi ai Freeman Études senza appellarsi alla conta delle note, unico appiglio offerto a chi analizza il pezzo secondo un'ingenua lettura di partitura". Cosa ne dice l'interprete?
M.F.: Marco ha intelligentemente stigmatizzato quello che è uno dei limiti dell'analisi di brani recenti. Dal punto di vista analitico, la conta delle note non è affatto utile in questo caso (come forse non lo è neppure in certo Schubert!). Diverso è il discorso esecutivo; come dicevo poco sopra, infatti, soprattutto dove l'errore risulta (oggettivamente) meno evidente, è maggiore la necessita di "rigore morale". In un certo senso, una leggerezza nei confronti di Cage è addirittura più grave di una manciata di note perdute in un concerto di Beethoven: tutti sappiamo riconoscere la carenza di un interprete, confrontandolo con mille altre esecuzioni, in un brano di repertorio, laddove la pessima esecuzione di un lavoro nuovo o poco diffuso provoca nel pubblico una sensazione di disagio anche e forse soprattutto nei confronti del compositore stesso.
AAJ: Che importanza ha il silenzio nei Freeman Études?
M.F.: Permette di respirare! Ovvero, permette all'ascoltatore di immagazzinare, di "digerire" tutto quanto è successo nei minuti precedenti. Gli consente di preparare l'ascolto dell'eventualità successiva, e al contempo, semplicemente, di rilassarsi. È da dire che la collocazione dei momenti di vuoto è assolutamente casuale, dunque il pubblico reagirà diversamente (così come l'ascoltatore) a seconda che il vuoto si presenti dopo minuti o secondi, coprendo lassi di tempo diversi (a volte oltre 1 secondi di silenzio).
AAJ: In "The Completion of John Cage's Freeman Etudes" James Pritchett conclude il suo articolo con una serie di domande senza risposta sui Freeman Études. Per eseguire i "tuoi" Freeman Études credo tu abbia in parte dovuto rispondere a queste domande.
M.F.: Per mia fortuna un esecutore non ha bisogno che di un limitato numero di risposte! Nella fattispecie le domande "insolute" di Pritchett erano principalmente relative alle tecniche compositive di Cage; essendo ora in possesso della versione completa, non ho avuto necessità di risolvere le questioni riportate a fine articolo. Alcune di esse poi hanno ricevuto risposta pochi anni orsono, come lo stesso Pritchett riporta a fine articolo: "I never personally received replies to these questions, but, in organizing Cage's paper after his death, I found his copy of this page with his replies written in. These answers are given here exactly as he wrote them. Cage gave no answers to the second and third question."
AAJ: Vorrei farti una domanda che riguarda l'ascolto di quest'opera. Come va fatto? Su cosa concentrarsi?
M.F.: Non mi sento di poter suggerire molto ad un ascoltatore; posso soltanto citare un amico, Donald Crockett che assistette anni fa a Los Angeles ad un'esecuzione privata presso la casa di Betty Freeman, mi disse: "Durante i primi venti minuti mi aspettavo che qualcosa succedesse, mi aspettavo di capirci qualcosa... stavo impazzendo! Alla fine ci ho rinunciato, e poco alla volta ho cominciato a sentire diversamente, a lasciar scorrere i minuti... dopo un tempo indefinito, tutto sembrava estremamente necessario, e al contempo evidente".
Credo sia, se non altro, un buon esempio su cui riflettere.
AAJ: Un'ultima domanda non può che riguardare Cage. Sono passati vent'anni dalla sua morte e un secolo dalla sua nascita. Fa effetto dirlo... Che eredità lascia alla musica dell'oggi?
M.F.: Non lascia alcuna eredità, così come non ha lasciato nessuna scuola e nessun allievo. Indica semplicemente una strada, che lui stesso ha percorso più di ogni altro. Dal fondo di quella strada aspetta che noi si riesca a capirlo.
Foto di Marco Sartirana (la prima).
Tags
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
