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Intervista a Luca Aquino
ByAll About Jazz: La tua irruzione nel mondo del jazz è stata piuttosto anomala. Niente studi al conservatorio, nessuna scuola di jazz, nessuna gavetta. Anzi sei autodidatta e hai iniziato lo studio della tromba alla " veneranda " età di vent'anni. Cosa ha comportato questo per te ?
Luca Aquino: Agli esami d'ingresso al conservatorio mi avevano scartato. Per fortuna invece avevo frequentato jazz club e mi ero innamorato del jazz, quello vero. Suonavo e studiavo brani bop con un grande musicista e amico, Sergio Casale, e, durante Umbria Jazz, andavo da lui a Perugia a vivere le jam session fino al mattino. La gavetta c'è stata ma, in effetti, solo nei locali e nella mia stanzetta attraverso i dischi.
AAJ: E' stato penalizzante o al contrario ti ha proiettato nel mondo professionale senza preconcetti e con la mente aperta?
L.A.: Penso che se avessi frequentato il Conservatorio, studiando un po' di più per gli esami di ammissione, oggi sarei sicuramente più versatile ma, chissà, forse mi divertirei meno e avrei l'incubo dell'errore.
AAJ: Ti sei ritrovato con una laurea in Economia da una parte e l'amore per la tromba e la musica dall'altra. Cos'è che ha fatto pendere l'ago della bilancia verso la musica?
L.A.: Una passione smisurata, incontrollabile. Ho provato ad appendere al chiodo più volte lo strumento, impossibile. La laurea in Economia ha aiutato molto la mia carriera musicale, proiettandomi verso una visione più pratica del jazz ed infatti dal 2002 cominciai a studiare musica seriamente.
AAJ: Ci sono stati una figura o un evento che ti hanno in qualche modo aiutato a capire quale fosse la strada da seguire ?
L.A.: Come ogni autodidatta tendevo ad essere un po' insicuro ma, durante i seminari senesi, persone come Massimo Manzi, Maurizio Urbani e Claudio Corvini mi hanno incoraggiato tanto e, dopo la borsa di studio a Nuoro Jazz con Paolo Fresu, ho capito di poter fare della mia musica anche il mio lavoro.
AAJ: Nel 2008 esce Sopra le nuvole esordio discografico da leader per una major. Ciò che colpiscono sono l'eterogeneità del lavoro ed una felice vena compositiva. Quali sono le fonti, gli stimoli che ti portano a comporre ?
L.A.: Sopra le nuvole è un album dolce, sincero e incoerente. Sembra contenere un po' di tutto, dall'hard bop a Molvaer, con composizioni belle ma studiate a tavolino, senza una " birretta ". Nonostante sia un album troppo jazz, ancora vittima di pattern stilistici, ha un suono che ancora oggi mi piace. I musicisti erano e sono tra i migliori.
AAJ: Come si sviluppa concretamente il processo compositivo ?
L.A.: Non penso di essere un gran compositore ma ho un'ottima fantasia che mi conduce verso viaggi sonori sempre diversi. Qualche volta parto da una melodia o da un giro di basso per poi esplorare dal vivo insieme alla band, con poche dritte, strade inedite. Non amo troppi schemi, stacchetti e paletti. M'ingabbiano.
AAJ: Alterni il suono acustico con l'uso dell'elettronica. Qual è il tuo rapporto con quest'ultima?
L.A.: All'elettronica mi sono avvicinato con molto timore reverenziale, al contrario del jazz. Forse perché l'ho fatto in età più adulta. Uso da tre anni una loop station della Roland, della quale sono endorser, ma spesso sul palco non l'adopero o me la dimentico. Dipende dai progetti, dal suono del palco e .... dalla pazienza del fonico.
AAJ: Nel disco vi è un brano intitolato a Hub Van Laar, artigiano olandese di trombe e flicorni. Perché proprio i suoi strumenti?
L.A.: Me li consigliò Chuck Findley, a New York. Sono strumenti semplici da suonare e ti lasciano libero di ottenere il tuo vero suono, senza escamotage. Ci sono vari modelli, i miei sono molto leggeri. Con Hub ho conosciuto innumerevoli trombettisti, nel suo laboratorio in Olanda o in giro per showcase. Grande esperienza e bei ricordi. Una volta a Boston ho incontrato un anziano trombettista che, mentre provava bisacuti, mi chiedeva attenzione nell'eventualità di un suo malaugurato giramento di testa. Soffiava come un forsennato. Dolcezza infinita. Devo molto ad Hub; siamo cresciuti insieme.
AAJ: Dell'anno successivo è Lunaria. Il tuo pensiero musicale in Sopra le nuvole si incanalava principalmente su due direttive, quella acustica e quella elettronica. Si può dire che in Lunaria deflagra in mille schegge, incrocia generi e stili, sembra voler assorbire il più possibile dalla realtà che ti circonda, dai tuoi interessi, dai tuoi amori ?
L.A.: Io da piccolo ascoltavo rock e Lunaria è stato un tuffo nel passato. I punti di riferimento della mia voce strumentale, dopo Chet, sono Miles e Jim Morrison e, con la moderna ritmica di Brugnano e Bardoscia e la superba chitarra di Francesca, abbiamo creato un album attuale, con una strizzatina d'occhio agli anni settanta. In Lunaria, oltre a brani originali, c'è il rap, Mina, i Radio Head e "All Blues," fino ad arrivare a De Andrè. Registrato dal vivo in due giorni anche Lunaria deve qualcosa, come Sopra le nuvole, ad un buon lavoro di post produzione. È popolare e spregiudicato.
AAJ: Qual è il collante, l'ingrediente che allontana Lunaria dall'essere un patchwork stilistico ma lo rende un lavoro organico e compiuto nella sua eterogeneità ?
L.A.: Secondo me il suono. E' un album molto meditato, decantato e pensato per ripercorrere stili differenti con un sound ben preciso, quello del quartetto. Studiato per legare brani con storie e filosofie diverse. Col quartetto Lunaria ci siamo divertiti, ma poi qualcosa non ha funzionato.
AAJ: Sono presenti tra gli altri Maria Pia De Vito e Roy Hargrove due grandi artisti con sensibilità molto diverse tra di loro. Come si sono approcciati alla tua musica?
L.A.: L'esperienza con Hargrove è stata veloce e burrascosa. Con Maria Pia invece abbiamo seguito un percorso professionale ed amichevole, sia in studio che durante i live. E' un'artista stellare e può cantare qualsiasi cosa. E' stato un onore.
AAJ: Amam arriva come un fulmine a ciel sereno tanto il disco si discosta dai due precedenti album. Sembra vibrare da una parte di una laica spiritualità dall'altra di un folklore intimo e velato di malinconia, con qua e là fremiti di sperimentazione. Come è nato il progetto denominato The Skopje Connection ?
L.A.: Il progetto è nato grazie ad Enrico Blumer che organizzò la session in Macedonia, a Skopie, in un antico bagno turco con Georgi Sareski e quel geniaccio di Dzjan Emin. I suoni erano accompagnati da un riverbero non molto aperto ma brillante, che semplificò il nostro lavoro nella ricerca di un suono etereo e poetico. TSC è un trio acustico con tromba, corno e chitarra classica. Abbiamo avuto tantissimi concerti, pochi in Italia; è una band semplice ed efficace, che si diverte in armonia.
AAJ: Alcuni brani sono scritti altri improvvisati. Come è avvenuto il lavoro sul materiale presente nel disco ?
L.A.: Le composizioni più belle sono dei due amici macedoni; io, in quest'occasione, ho dato per di più un contributo solistico, sia su strutture definite che su parti totalmente improvvisate. In scaletta, per la registrazione, erano previsti anche brani un po' più briosi (presenti, tra l'altro, nel nuovo album del trio, a breve in uscita con un ospite d'eccezione) ma in quell'ambiente così dilatato era impossibile suonarli e optammo per ballate più intimistiche e trascendentali.
AAJ: Che ruolo occupa questa esperienza in quel preciso momento del tuo percorso artistico ?
L.A.: In Macedonia e nell'Est in generale ci si diverte ancora con gli strumenti. Mi capita spesso di suonare in quei luoghi e li preferisco all'ambiente americano dove i palchi vengono ancora visti come campi di battaglia. Dall'esperienze nell'Est imparo sempre tanto. Sono determinati e pronti a farsi sentire, ma con umiltà. Lì non avvertono l'esigenza di comportarsi da star, non emulano l'atteggiamento di Miles. Non vogliono essere Miles. Nessuno può essere Miles.
AAJ: Nel 2010 ecco realizzarsi il sogno di ogni musicista, il disco in solo. Ci sei arrivato in maniera naturale o c'è stato un episodio che ti ha fatto rompere gli indugi ?
L.A.: Si, un sogno. Inizialmente sarebbe dovuto essere un album in ottetto con partiture scritte ma poi decisi di cestinare l'intero lavoro e nacque Icaro solo. Avevo timore di registrare un album in solitudine ma trovai la forza dopo aver letto il romanzo "Icaro involato" di Raymond Queneau. Avevo avuto, nel contempo, alcune frizioni con un musicista di un mio progetto che si lamentava di non essere citato nelle recensioni e negli articoli dei miei dischi e live. Quest'atteggiamento superbo mi proiettò definitivamente verso un progetto in solo tromba. È il mio progetto ideale, nessuno fa tardi, nessuno arriva prima di te e nessuno pretende o reclama il nulla. Posso suonare anche fuori tempo.
AAJ: Icaro solo ti vede alle prese con tromba o flicorno, una piccola loop station e alcuni insoliti interlocutori. .....Puoi raccontarci cosa è accaduto nella piccola chiesa di Sant'Agostino a Benevento ?
L.A.: Una favola. Icaro solo contiene tutto ciò che sono. La chiesetta era talmente accomodante che accoglieva qualsiasi suono, di strada e non. Dai cani che abbaiavano alle macchine in strada, dalle grida di bimbi che giocavano in piazza al mio respiro. Eravamo in due, io e l'ingegnere del suono Carlo Gentiletti e decidemmo di aprire le porte della chiesa ad un trapano di un operaio di un vicino. Qualsiasi suono rientrava nella mia loop, era una magia e sembra stessi realizzando un mosaico sonoro tra l'altare e il presbiterio della chiesetta. I microfoni panoramici riprendevano la mia tromba da qualsiasi angolo e ho provato una forte sensazione di libertà, di jazz. E' il mio album più jazz.
AAJ: Ciò che affascina nel disco sono la grande varietà espressiva e la spiccata vena melodica poco convenzionale, costruita sul suono più che sul fraseggio. Come sei arrivato a questo risultato ?
L.A.: Il suono della chiesa era schietto, non perdonava nulla e, ispirandomi al soffio dell'ultimo Chet, ho evitato cliché e amato il silenzio, preferendolo ai virtuosismi. Ero molto rilassato, sembrava la stanzetta dei primi studi. Da quel giorno sono diventato adulto e mi si è ingrigita la chioma. Non so se è stato un bene a questo punto.
AAJ: La copertina di Icaro solo è la riproduzione di una splendida opera di Mimmo Palladino, sei il direttore del festival d'arte " Riverberi ," hai inciso colonne sonore. Un interesse a 360 gradi per il mondo dell'arte. Curiosità, desiderio, necessità, opportunità o ...?
L.A.: Ultimamente sono andato in fissa con i cani e, da qualche giorno, durante i viaggi, mi accompagna un cucciolo di jack russel di nome chet che, come Chet, ringhia ai batteristi. In realtà avrei un piccolo desiderio nel cassetto. Vorrei avviare un club, simile al "1799" ad Acquaviva di Partipilo, nel quale il jazz non sia l'unica forma d'arte ed invitare gente come Travaglio e Saviano. Ad Amsterdam c'è un jazz club dove gli ascoltatori si uniscono agli artisti, scambiandosi i ruoli con rispetto e senza timore, da entrambi le parti. Il pubblico reagisce, canta, recita poesie e balla senza indugi. Spesso mi accorgo di avere una visione del jazz troppo cameristica e dotta e me ne vorrei liberare o almeno smussare quest'angolo. Mi piacerebbe poi non vedere più il nostro bel Paese alla deriva. Ma questo è il desiderio di molti. È un periodo difficile per tutti e anche per l'arte. All'estero, appena si accorgono che sei italiano, sono tutti pronti a comunicarti l'ultima performance del nostro Premier. Io non ne posso proprio più. Per gli Enti poi è sempre più faticoso individuare misure dedicate alla cultura e le strutture per far musica sono inesistenti o mal attrezzate. Sono invece da premiare molti soggetti privati, che con loro fondi e attività imprenditoriali, s'impegnano ad organizzare eventi.
AAJ: Ritorniamo ai dischi e precisamente al tuo ultimo intitolato Chiaro, per Tuk Music di Paolo Fresu. E ancora un depistaggio. Da una chiesa di Benevento agli studi di registrazione di Oslo, Norvegia. Perché Oslo e una ritmica norvegese ?
L.A.: Ad Oslo, questa volta grazie ad Enrico Iubatti, non solo per trovare tecnologie avanzate e mentalità d'avanguardia, non solo per suonare melodie mediterranee con sonorità norvegesi ma anche e soprattutto per trovare l'ispirazione giusta con una storia da raccontare. Le sedute sono state tre e le composizioni sono tutte mie tranne "La Mer" di Charles Trenet "La Strada" di Nino Rota e "Oslo" di Alessandro Di Liberto. Wetle Holte e Audun Erlien sono musicisti pazzeschi e hanno dato un contributo immenso sia all'album che alla mia musica.
AAJ: Trovo interessante e convincente l'uso degli archi in " Angolo suite cerca....". Hai mai pensato di incidere un album per tromba ed orchestra d'archi ?
L.A.: Si, dopo un album in duo con piano, vorrei registrarne uno con un'orchestra.
AAJ: E l'idea di far cantare a Lucio Dalla " La mer " di Trenet ?
L.A.: Cercavo da un po' un evergreen da inserire in Chiaro e Paolo mi ha indicato "La Mer". Lucio ha accettato immediatamente e ovviamente ha cantato e suonato da Dio. La sua musicalità e forza d'animo sono imbarazzanti, farebbe cantare un bull dog.
AAJ: In Chiaro sembra chiudersi il cerchio. La curiosità trasversale, la vena melodica, l'originalità dei suoni, l'uso creativo dell'elettronica, il senso dello spazio e del tempo, vi trovano perfetta sublimazione. È il segnale di un nuovo cambio di direzione?
L.A.: Chiaro è il più bel cd che avrei potuto registrare in questo mio momento. È grintoso come Lunaria e viscerale come Icaro solo. Con coraggio, di nuovo, la direzione sembra essere diversa. Quella del 2011.
Foto di Riccardo Crimi (la prima, la quarta e la quinta), Luca Vitali (la seconda), Paolo Mura (la terza)
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