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Intervista a Giovanni Guidi

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Un musicista di jazz dev'essere prima di tutto un appassionato
Giovanni Guidi è uno dei più interessanti pianisti jazz emersi di recente in Italia ed è balzato all'attenzione generale per aver vinto nel 2007 il premio della critica italiana nella categoria nuovi talenti. Nato a Foligno nel 1985, ha iniziato lo studio del pianoforte classico a dieci anni, per dedicarsi più tardi al jazz sotto la guida di Ramberto Ciammarughi. Frequentando i seminari estivi di Siena è stato notato da Enrico Rava, che l'ha scritturato nel gruppo Rava Under 21 trasformatosi in seguito in Rava New Generation.

Oggi è leader di un proprio quartetto e collabora stabilmente anche con la Cosmic Band di Gianluca Petrella, il quartetto di Mauro Negri, il trio di Fabrizio Sferra.

All About Jazz: In poco meno di due anni la tua vita è cambiata, sia per i riconoscimenti che hai avuto dalla critica e dai colleghi, che per i crescenti impegni professionali. Come vivi questo momento?

Giovanni Guidi: Da un certo punto di vista è vero che la vita è cambiata, nel senso che lavoro di più, vedo una maggiore affluenza di pubblico ai concerti e alcuni musicisti iniziano a chiamarmi. È chiaro comunque che non ho iniziato un'esistenza da superstar e non ci sono mutamenti tangibili nella mia vita. Ovviamente la cosa è positiva in quanto ricevo stimoli che altri musicisti della mia generazione non hanno. In questo senso mi ritengo fortunato...

AAJ: Com'è nata la collaborazione con Dan Kinzelman e l'idea di formare il quartetto?

G.G.: Conosco Kinzelman da cinque anni. Lui s'era incontrato con Emanuele Maniscalco ad un seminario in Germania e questi l'aveva invitato in Italia. In quei mesi lo conobbi anch'io e iniziammo a suonare tutti assieme in quello che è stato il mio primo gruppo musicale. Nel frattempo Dan s'era innamorato dell'Italia e decise di stabilirsi nel nostro Paese. Ci trovavamo nella mia città, Foligno, e ci informammo presso un mio zio commercialista per capire cosa fare: i tempi stavano scadendo e la domanda per il permesso di soggiorno andava presentata entro 24 ore, lui doveva restare a vivere a Foligno ed io dovevo assumerlo come domestico.

Così abbiamo fatto. Io ho presentato la domanda d'assunzione, Dan è tornato qualche mese negli Stati Uniti e poi s'è stabilito qui. Questa è la risposta al quesito che molti si chiedono: Come mai un musicista americano viene a vivere in Italia, in Umbria ed a Foligno...

AAJ: Tornando alla nascita del quartetto?

G.G.: Dan iniziò a vivere in Italia nell'estate del 2006, quando fui scritturato per dieci giorni ad Umbria Jazz. Dovevo suonare in trio con Francesco Ponticelli ed Emanuele Maniscalco ma quest'ultimo era impegnato e così chiamai Joao Lobo, che avevo conosciuto qualche anno prima ai seminari di Siena.

Dan, che era ospite a casa mia, si univa a noi negli ultimi due/tre pezzi. Ai concerti c'era Ermanno Basso della Cam Jazz e ci propose di incidere un disco col trio. Noi proponemmo il quartetto e l'incisione fu fissata per gli inizi del settembre a Cavalicco, vicino Udine. Dan, che era dovuto tornare in America, arrivò lo stesso giorno dell'incisione ma senza sassofono, che s'era perso all'aeroporto di Londra. Con Joao e Ponticelli non avevamo più suonato dai giorni di Umbria Jazz ma parte del tempo fu speso per andare a Ferrara a farci prestare il sax da Francesco Bigoni. Così è nato il disco, Indian Summer ed il quartetto, che ha poi funzionato ben oltre le aspettative.

AAJ: L'ascolto del tuo ultimo disco The House Behind This One conferma che il tuo orizzonte di riferimento guarda oltre i confini del jazz... suppongo che i tuoi gusti musicali siano piuttosto ampi...

G.G.: Io ascolto molta musica che non è jazz e credo che ciò sia fondamentale perché è proprio nella natura del jazz nascere dall'unione di cose diverse, dall'interculturalismo. È una caratteristica centrale di questa musica e va mantenuta. Spesso si sente dire che il jazz è morto ma forse è più giusto dire che sono "un po' morti" alcuni jazzisti. Io non credo che Mingus o Miles avrebbero avuto qualche problema a rapportarsi con altre musiche... è vero che dagli anni venti fino alla fine degli anni settanta s'è costruito un linguaggio ben preciso ma l'approccio, l'atteggiamento jazzistico, ha sempre puntato alla massima libertà. E con questo termine non intendo solo improvvisare o arrivare al concerto senza niente di programmato. La libertà è non avere troppi...

AAJ: ...vincoli mentali?

G.G.: Si esatto. In particolare per un musicista come me, di 23 anni, che ha avuto degli ascolti precisi, sia il rock che la musica elettronica sono linguaggi importanti. La stesso cosa vale per la musica contemporanea o per le cosiddette forme etniche, ovvero le musiche tradizionali del mondo.

AAJ: In particolare c'è qualche nome che ti piace molto?

G.G.: Nel mio ultimo disco ho messo una cover del dj londinese Nathan Fake che sta sfondando anche in Italia. Credo che sia destinato ad avere grande successo perché nel suo genere è un musicista che mantiene un approccio molto libero. Nel campo dell'elettronica mi piace molto Aphex Twin e, cambiando completamente genere, ho avuto un forte coinvolgimento per i Beatles. Quando frequentavo la 2° o 3° media andai anche a Londra a visitare alcuni luoghi storici come Abbey Road eccetera. Poi mi sono interessato a tutto il rock degli anni settanta soprattutto inglese, ad esempio Steve Winwood, i Traffic e da lì arrivare al jazz è facile.

AAJ: Due riferimenti importanti nel tuo stile sono Ornette Coleman e Paul Bley. Cosa ha rappresentato per te, che sei nato nel 1985, il free jazz degli anni sessanta e l'avanguardia successiva?

G.G.: Sappiamo tutti che Ornette ha un'importanza storica per lo sviluppo del linguaggio musicale afro-americano. Ornette ha avviato un processo di liberazione delle strutture del jazz che ritroviamo anche in musicisti famosi come Keith Jarrett e Pat Metheny. Ha iniziato a suonare dei pezzi senza un ritmo uniforme, o in grado di cambiare durante l'esecuzione, e senza accordi, ampliando gli spazi di libertà per la componente melodica.

AAJ: Un altro tuo riferimento - lo hai dichiarato di recente - è Cecil Taylor...

G.G.: Certo. Cecil Taylor inserisce un altro atteggiamento nella musica che è poi quello ritmico, fisico, corporeo. Pur muovendosi con estrema libertà esprime straordinaria concentrazione e coerenza in tutti i suoi passaggi musicali. Il modo corporeo di suonare - che in altri strumenti già c'era - è stato davvero importante per il pianoforte ed ha influenzato molti.

AAJ: Che percorso di studi consiglieresti ad un giovane pianista italiano d'oggi, ancora in una fase formativa? Studiare con un maestro in particolare, il conservatorio, andare all'estero?

G.G.: Bisogna partire dal presupposto che il jazz oggi è tante cose ed uno deve capire più o meno dove vuole arrivare. In questa musica, a differenza di altre, per giungere allo stesso obiettivo ci possono essere strade diverse e non è sempre detto che la più breve sia la migliore. È chiaro che un rapporto forte con l'ascolto è fondamentale. Io credo che il jazz sia ancora una musica che si apprende in forma orale, anche se incontrare dei bravi insegnanti aiuta. È però fondamentale ascoltare i dischi, trascrivere i soli, suonare sopra i dischi e soprattutto andare ad ascoltare tantissimi concerti, anche quelli che all'inizio non piacciono. Un musicista di jazz dev'essere prima di tutto un appassionato.

AAJ: C'è un disco che ha rappresentato per te un punto di non ritorno?

G.G.: Un disco che adesso non ascolto più ma che mi ha fatto innamorare del piano jazz è stato The Köln Concert di Jarrett. Non posso dire che sia l'opera a cui oggi mi riferisco ma, quand'ero ancora inesperto, ha segnato un cambiamento nella mia vita dandomi una forte spinta. Il disco di un pianista che invece ascolto sempre è Open to Love di Paul Bley.

AAJ: Ed i pianisti di tradizione bop?

G.G.: Beh, ovviamente adoro Bud Powell ma anche strumentisti come Wynton Kelly, un pianista che già lavorava molto sulla sfera melodica.

AAJ: Le tue composizioni hanno un'intensa impronta melodica ma come pianista aggiungi una netta tensione ritmica... Come vedi il tuo stile in questi due aspetti?

G.G.: Per quello che riguarda la composizione, come ti dicevo, io nasco come beatlesiano. Quando suonavo la musica classica quello che apprezzavo di più era Mozart. Amo Ornette, Jarrett, suono tanto con Rava, sono italiano, mediterraneo e quindi la relazione con la melodia è importante e non la rinnego, anzi. Uno dei miei intenti è quello di farla emergere sempre più ma nel modo meno scontato. Detto questo c'è anche la componente che deriva dal confronto coi pianisti free. Il ritmo è una delle componenti fondamentali per dare interesse alla melodia, che da sola può risultare banale.

AAJ: Come organizzi il lavoro musicale nel quartetto, dalla scelta dei temi per il repertorio agli arrangiamenti?

G.G.: Il quartetto opera in modo molto free e questo stile di procedere l'ho appreso da Enrico Rava, che è stato davvero il mio grande maestro. Con lui si prova il pezzo magari una volta durante il soundcheck e poi si suona senza programmare la scaletta dei brani o la distribuzione dei soli. Si ha conoscenza del materiale, dal punto di vista basilare, ma poi le cose variano a seconda delle esigenze espressive che intervengono. Ad esempio ci sono un milione di standard che funzionano pur suonati in tempi e modi diversi. Mi piace che brani del mio quartetto mantengano questo aspetto e che abbiano anche quella semplicità che consente di affrontarli in vari modi. L'approccio esecutivo è molto democratico anche se nella composizioni l'impronta forte è mia.

AAJ: Quanto è importante per te la tecnica?

G.G.: È importante in quanto strumento che serve ad esprimere le idee che uno ha. Andrebbe però ridefinito il significato di tecnica. Per me non è solo suonare più note possibili entro un certo spazio ma è tecnica anche il suono oppure il gusto. Se la domanda è quanto conta per me suonare veloce, sapere tante scale eccetera, la risposta è zero, se dietro non c'è altro ed il suono è inespressivo. Il suono per me sta al primo posto ma è fondamentale anche il modo in cui si sta sul tempo. AAJ: Qual' è la formula strumentale con cui ti senti più a tuo agio?

G.G.: Sono molte le formazioni in cui mi trovo bene, ma è importante che ci sia quest'approccio libero alla musica. Nei prossimi mesi suonerò spesso in duo con Dan Kinzelman perché cui lui l'intesa è totale. Anche il piano trio è importante e quello guidato da Fabrizio Sferra mi dà grandi opportunità di crescita, facendomi scoprire o riscoprire cose che in altre situazioni dimenticano o non si conoscono. Tra poco registreremo un disco...

AAJ: Il piano trio è una bella responsabilità, con tutti gli esempi eccelsi che ci sono...

G.G.: Nel jazz ha una storia di oltre 60 anni con riferimenti importantissimi, dal trio di Bill Evans a quelli di Bley, Jarrett, Corea, Powell. Uscire da quella storia è davvero difficile e con Sferra e Ponticelli stiamo provando moltissimo, per trovare un linguaggio nostro. Tornando alla domanda di prima è comunque molto bello stare in situazioni più grandi come la Cosmic Band di Petrella, dove la musica richiede organizzazione e libertà diverse. Gianluca è veramente un genio e con lui si trovano importanti spazi di libertà.

AAJ: Parlami della tua esperienza nel gruppo di Enrico Rava. Aver preso il posto di Bollani ti colpisce in qualche modo?

G.G.: Guarda, io riesco a suonare bene con Rava finchè non penso a questa cosa. Se penso poi a tutti i pianisti con cui Rava ha suonato, Paul Bley, John Taylor, Bobo Stenson, la Marcotulli, Pieranunzi, D'Andrea, Pozza la cosa si complica e finisce il divertimento... Il vantaggio di questa situazione è che non si può barare e se uno prova a percorrere la strada dell'imitazione perde in partenza. L'approccio di Rava spinge molto a far emergere la personalità dei partner e più cose creative accadono nella musica più Enrico entra in relazione. Vive anche degli imput che i suoi musicisti sono in grado di dargli. Un'apertura straordinaria per un musicista della sua generazione che ricorda Miles anche se Enrico fa cose diverse. Se non avessi mai suonato con lui oggi sarei un musicista totalmente diverso...

AAJ: Che interessi hai oltre la musica?

G.G.: Ultimamente seguo la letteratura americana come evidenzia il titolo del mio ultimo disco, ripreso da una poesia di Raymond Carver. Tramite Rava ho scoperto Richard Yates. Mi interesso molto a quello che accade nel mondo e per un musicista, soprattutto di jazz, è una cosa fondamentale. Non credo all'artista isolato in una torre d'avorio.

AAJ: Progetti futuri?

G.G.: Proprio in questi giorni sto lavorando ad un progetto che mi è stato commissionato dall'ATER e dal Teatro Asili di Correggio per il 23 aprile sul tema "Resistenza e liberazione": ci sarà un gruppo di dieci persone comprendente Giovanni Maier, Joao Lobo, Emanuele Maniscalco, Daniele Tittarelli, Mauro Ottolini, Dan Kinzelman, Mirko Rubegni e Fulvio Sigurtà. Il lavoro sarà un concept nella storia e nel mondo sul concetto di resistenza e liberazione. Visti i tempi forse non è una scelta appropriata in termini di lavoro ma credo che uno alla mia età debba assumersi dei rischi ed esporsi in questo modo è importante.

Foto di Antonio Baiano (la prima e le ultime tre) e di Claudio Casanova (la seconda, la terza e la quarta). Altre foto di Giovanni Guidi sono disponibili nella galleria concerti)

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