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Intervista a Gaetano Partipilo
ByMi sento molto vicino alla realtà di New York, specie quella attuale. Dal punto di vista compositivo e di linguaggio mi ispiro molto ad artisti americani ed i miei punti di riferimento sono sempre lì
Con il gruppo a geometria variabile, Urban Society (costituito tra gli altri da Mirko Signorile, Giorgio Vendola e Vincenzo Bardaro), Partipilo ha affinato la sua intima visione musicale. Manipolando creativamente le tipiche procedure stilistiche di una certa scuola newyorkese, l'M-Base di Steve Coleman, Greg Osby & Co., il sassofonista barese ha manomesso intenzionalmente la fonte ispirativa, fino a piegarla e forgiarla in maniera soggettiva e personale. Queste macro alterazioni armoniche e "manomissioni" di complicate, imprevedibili e irregolari ritmiche funk hanno consentito a Partipilo di sviluppare il suo talento singolare di compositore e improvvisatore dotatissimo e di produrre progetti che alimentano e allargano all'Europa il flusso partito da New York.
Sin da bambino si nutre di musica. Seguendo le orme del padre sassofonista Raffaele, comincia suonando nella banda del suo paese. Successivamente si diploma in sassofono presso il Conservatorio di Bari, dove segue anche i corsi di jazz di Roberto Ottaviano. Già prima dei vent'anni si fa notare per il suo talento musicale e le spiccate doti di esecutore ed improvvisatore.
L'esordio discografico è del 1995 con Follow the Spirit. In questo primo lavoro discografico dei Fez Combo, tra ritmiche soul jazz e pulsazioni bossanovistiche, ha modo di mettere a fuoco il suo stile e le sue idee di musicista, nuotando agevolmente nel mare della tradizione postboppistica. Da allora ad oggi ha registrato da sideman quasi 50 dischi, passando dalla musica balcanica alla bossa nova di Rosalia De Sousa, dal jazz moderno a quello sperimentale.
Dei suoi otto dischi da leader, quasi tutti si collacano nell'alveo stilistico newyorkese (soprattutto Urban Society, Basic, The Right Place, I Like Too Much e Upgrading), mentre l'ultimo, il ben confezionato Besides. Song from the Sixties, suona volutamente retrò, quasi un amarcord degli anni giovanili, ed è un omaggio a certo jazz anni '60.
All About Jazz: Il tuo modo di sentire e far musica lo consideri più europeo o americano?
Gaetano Partipilo: Non saprei risponderti precisamente. Mi sento molto vicino alla scena di New York, specie quella attuale. Dal punto di vista compositivo e di linguaggio mi ispiro molto ad artisti americani ed i miei punti di riferimento sono sempre lì. È anche vero che sono un musicista italiano, più precisamente del sud, e credo che questo doni alla mia musica una piccola "solarità" ed anche un pizzico di ironia poco comune a musicisti d'oltre oceano. Di conseguenza credo che venga fuori un mix atipico che a me piace. Credo che "Tu vo' fa 'americano" di Carosone esprima molto bene questo concetto. La mia rilettura di quel brano non è un caso!
AAJ: Hai lavorato spesso con musicisti americani. Il tuo disco The Right Place, con Nasheet Waits, Mike Moreno e Matt Brewer, oltre che con un altro italiano abituato a collaborazioni con musicisti newyorchesi, Roberto Tarenzi, rappresenta un'esperienza fondamentale. L'approccio che hai avuto è lo stesso che hai con i musicisti italiani? Che tipo di dialettica si è instaurata quando avete inciso il cd?
G.P.:: l'esperienza legata alla registrazione di The Right Place è stata altamente formativa. Ho affrontato questa trasferta a New York in totale solitudine, preparando per bene gli arrangiamenti in Italia ed incontrando musicisti fantastici ai quali non è stato facile trasmettere le mie idee in poco tempo. Le difficoltà che ho dovuto risolvere in meno di una settimana mi hanno fatto maturare molte cose. L'approccio con gli americani, quelli di New York, è molto diverso rispetto agli italiani. Da un lato c'è la difficoltà della lingua, ostacolo comunque superabile. Dall'altro c'è una diversa percezione del modo di "essere" musicista. Solitamente i musicisti di New York badano al sodo, in maniera diretta e senza troppi giri di parole. Per noi italiani, artisti nella circonvenzione, è dura da affrontare. Anche a livello professionale c'è un'attenzione che in Italia difficilmente riscontriamo. Prima di arrivare lì e suonare con loro, ho inviato i pezzi da studiare e loro alla prima prova sono arrivati con i brani a memoria! In Italia non succede. È anche vero che spesso li devi pagare un minuto dopo aver finito il concerto o la registrazione.
AAJ: Qual è il disco che più ti rappresenta?
G.P.:: Quello che registrerò a breve.
AAJ: Quali sono per te tre dischi della storia del jazz che non dovrebbero mancare nella discoteca di un jazzista?
G.P.:: A Love Supreme di John Coltrane e Kind of Blue di Miles sicuramente. Come terzo disco ti direi un album a cui sono molto legato che è Attica Blues di Archie Shepp.
AAJ: Puoi dire quali sono stati i tre dischi di sassofonisti che hai consumato e interiorizzato?
G.P.:: Cannonball's Bossa Nova di Cannonball Adderley, Further Ado di Greg Osby e Trasmigration degli Strata Institute.
AAJ: Quando decidi di lavorare su materiale nuovo cosa succede dopo che sottoponi ai musicisti tema, armonie e pulsazione/groove? Quale e quanto spazio lasci ai tuoi collaboratori?
G.P.: Di solito sono molto meticoloso nella scrittura. Nella stesura tematica decido per bene quello che voglio, anche se sono molto attento ai pareri degli interpreti. Per quanto riguarda lo sviluppo solistico, invece, lascio carta bianca all'improvvisatore di turno, sempre però all'interno di un mood che voglio dare al brano.
AAJ: Essere figlio di un musicista ha significato sicuramente ricevere sin da piccolo un'educazione particolare al suono e alla musica. Cosa suonava e ascoltava tuo padre e quanto credi che ti abbiano influenzato esteticamente?
G.P.: Mio padre, sassofonista come me, tra il '53 ed il '63 ha vissuto in Venezuela, suonando musica prevalentemente sudamericana con influenze jazz. Ha tuttora una collezione di LP davvero interessante ed i miei primi ascolti di jazz provenivano da lì. Lui era un fan di Paul Desmond e di tutta la scena californiana a cavallo tra gli anni '50-'60. È anche vero che all'epoca l'industria discografica americana proponeva con molta più facilità jazzisti bianchi piuttosto che di colore. Pensa un po' che mio padre non aveva neanche un disco di Coltrane o Cannonball ma parecchi dischi di Buddy De Franco, Gerry Mulligan, Chet, Stan Getz, Dave Brubeck, ecc. Ad ogni modo la sua influenza, specie sul suono, è stata determinante per me.
AAJ: In Basic suoni, con le alterazioni stilistiche che ti contraddistinguono, un classico della canzone italiana e internazionale come "Tu vo' fa l'americano". Che rapporto hai con la musica cosiddetta di consumo in generale e con quella italiana in particolare?
G.P.:: Del brano in questione ho già accennato qualcosa prima. Credo sia uno degli emblemi di tutti i musicisti jazz italiani. Tra l'altro è un brano che ascoltavo molto da bambino ed è in un certo senso un ricordo della mia infanzia. Invece il rapporto con la musica di consumo non è molto buono. In realtà non lo è mai stato. Sin da ragazzo ero attratto da sonorità particolari. Avevo ed ho bisogno di sentire tensioni armoniche, accordi aperti. La triade, che è sempre onnipresente nella musica commerciale, è esattamente quello che il mio orecchio rifiuta.
AAJ: Oltre all'attività di musicista sei stato anche un operatore culturale. Gestendo un club, tra mille difficoltà, come hai operato le tue scelte?
G.P.:: Ho ceduto la mia quota societaria del Club1799 di Acquaviva delle Fonti due anni fa. Ho curato la programmazione artistica per più di tre anni, con oltre 100 concerti. Le difficoltà sono enormi. Le scelte vengono stabilite in base a diversi fattori. In primis bisogna approfittare di occasioni concertistiche da prendere la volo con prezzi last minute. Altre volte ci siamo tolti delle belle soddisfazioni invitando artisti che volevamo assolutamente nel nostro club. In certi casi abbiamo optato per artisti che facevano botteghino. Tutto ciò sempre con un occhio di riguardo agli artisti italiani emergenti che sono il futuro del jazz.
AAJ: Quali realtà musicali contemporanee, gruppi o movimenti italiani, europei o americani ti piace ascoltare?
G.P.: Generalmente non seguo correnti. Di solito ascolto per imparare, quindi mi piace scoprire gente che suona il mio stesso strumento ed artisti che si muovono nella mia direzione. Spesso ascolto musica diversa dal jazz perchè sento di essermi perso molto del rock e della musica classica. Se devo citarti alcune "correnti" o movimenti ti dico che mi piace molto la linea artistica della produzioni PI Recordings, così come le cose che produce John Zorn. Anche in Italia penso che El Gallo Rojo e Auand stiano tracciando un solco molto importante per lo sviluppo del jazz futuro.
AAJ: Come avviene nella musica cosiddetta classica, credi che certo tipo di jazz del passato, riproposto alla lettera, perfino nelle improvvisazioni, sia destinato a diventare repertorio?
G.P.: Beh, già accade. Non ci trovo nulla di male.
AAJ: Di sicuro il livello tecnico dei giovani musicisti è notevolmente migliorato rispetto al passato. Credi che il jazz in Conservatorio contribuisca e favorisca la formazione tecnica, culturale ed estetica dei giovani?
G.P.: Il livello si è alzato tantissimo ultimamente. Non grazie ai Conservatori, che secondo me fanno più danno che altro. Con questo non voglio togliere nulla agli insegnanti che operano all'interno (tra l'altro anch'io), ma il sistema accademico è da rivedere completamente. Non c'è un minimo di selezione degli insegnanti ed anche gli allievi spesso vengono ammessi per far numero e di conseguenza portare soldi in cassa. Questo porta ad un allontanamento degli studenti veramente interessati e ad un avvicinamento di chi vuole il "pezzo di carta". In Italia credo che assieme ad altri pochi Conservatori, Siena Jazz rappresenti un esempio su come "accademizzare" (passami l'espressione) il jazz. Avendo visto dall'interno come funziona, ti dico che i corsi di Siena, parificati ai corsi accademici dei Conservatori, sono organizzati nella migliore maniera possibile.
AAJ: Se qualche produttore, organizzatore di eventi o altri ti commissionassero un progetto su un musicista, su chi cadrebbe la tua scelta? E come ti rapporteresti?
G.P.: Non sarebbe facile. Probabilmente sarebbe più stimolante per me lavorare su un artista molto lontano dal jazz. Mi piacerebbe lavorare su Bela Bartòk e Giacomo Puccini.
AAJ: L'ultimo disco, Besides. Song from the Sixties, si distanzia notevolmente dagli altri progetti a tuo nome. Come è nata l'idea?
G.P.: L'idea è nata parecchio tempo fa. Mi sono sempre sentito a mio agio a suonare materiale più convenzionale. Ho sempre suonato musica a 360 gradi passando da band balcaniche a gruppi hard bop o funk. Con Besides. Song from the Sixties ho voluto misurarmi con un altro tipo di repertorio e con altro tipo di difficoltà che spesso noi puristi del jazz neanche immaginiamo. Mi riferisco al "confezionamento" del prodotto. Registrando un disco prevalentemente di canzoni ho imparato a gestire le velocità dei brani, le tonalità, le durate, l'equilibrio tra le tessiture armoniche, la struttura interna della forma, assoli brevi in cui devi dire tutto in 16 battute. È stata un esperienza lunga (registrazioni durate quasi due anni) che mi ha maturato molto. Tutte queste componenti, aggiunte ad una cura diversa della fase di post produzione, fa sì che si elevi il risultato di tutto. Non so se registrerò altri dischi simili, sicuramente quest'album è stato per me fondamentale.
AAJ: Nel disco in trio I Like Too Much, con Miles Okazaki alla chitarra e Dan Weiss alla batteria (senza basso), si avverte un'intesa musicale perfetta, frammentazione e puntillizzazione del ritmo, architetture improvvisative vincolate ad un'idea forte di composizione estemporanea, uso dell'elettronica da parte tua con gusto e senso della misura, ma soprattutto rigore e leggerezza musicale insieme. Come è nato quell'incontro? Credi che ne seguirà un altro?
G.P.: L'incontro è nato da un idea di Marco Valente. Ci siamo incontrati per la prima volta due giorni prima della registrazione e siamo saliti sul palco quasi a prima vista. Penso sia venuta fuori una musica molto interessante ed è stato molto stimolante dividere il palco con due musicisti come Dan e Miles. Con loro abbiamo anche suonato due anni fa a New York per il festival del decennale della Auand. Spero ricapiti ancora!
AAJ: Che differenza c'è nel progettare e far prosperare la musica tra i musicisti italiani e quelli americani?
G.P.: Loro (gli americani) tracciano la strada. Noi (gli italiani) la percorriamo seguendo la nostra sensibilità e forse la arricchiamo attingendo alla grande tradizione musicale italiana ormai presente nel DNA di ogni musicista.
AAJ: Tra i musicisti europei, non necessariamente italiani, chi ascolti più spesso e volentieri e che con una certa affinità si avvicina alla tua sensibilità musicale?
G.P.: Mi piace molto la scena attuale inglese. Seguo con particolare attenzione Robert Mitchell e Soweto Kinch. Mi piacciono molto anche artisti tedeschi come Rudi Mahall e Till Broenner. Tra gli italiani ti ho citato gli artisti appartenenti ad Auand e El gallo rojo e seguo le loro produzioni
AAJ: Quali sono i tuoi progetti futuri?
G.P.: Ho nuovo materiale per almeno due dischi nuovi. Non so, devo decidermi. In autunno di sicuro torno in studio. Per il momento mi concentro su Besides. Song from the Sixties, che sta avendo molti riscontri positivi all'estero, Puglia Jazz Factory con cui abbiamo pubblicato From the Heel ed un progetto in solo dove suono sax, flauto, keyboards, telefoni, tablet, elettronica ed aggeggi vari.
AAJ: Cosa stai ascoltando in questo periodo?
G.P.: Radiohead a manetta....non so perchè!
Foto di Roberto Cifarelli (la seconda) e Andrea Feliziani (la quarta).
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