Home » Articoli » Interview » Intervista a Ferdinando Faraò
Intervista a Ferdinando Faraò
ByAll About Jazz: Domanda a bruciapelo: perché proprio la batteria ?
Ferdinando Faraò: Mio papà era un grande appassionato di jazz e suonava la batteria. Ho avuto sin da piccolo lo strumento in casa e di conseguenza...
AAJ: Verrebbe da dire scelta scontata visto che con mani e piedi ci sai fare parecchio. Non tutti sanno che nel 1978 sei stato campione italiano di judo...
F.F.: Si è vero, sono stato convocato anche in nazionale e ho partecipato a gare internazionali. Mi ricordo un torneo in cui si gareggiava senza categorie di peso e mi trovai in finale ad affrontare un atleta austriaco di ben 95 chili! Fu un bellissimo incontro, molto leale.
AAJ: Hai portato qualcosa di quella disciplina nel tuo modo di essere musicista ?
F.F.: Credo proprio di sì, ho cominciato judo a nove anni e l'ho praticato per molto tempo quindi il mio modo di essere ne è rimasto influenzato in qualche modo.
AAJ: Provieni da una famiglia di musicisti. Cosa ha significato questo per te ?
F.F.: La mia famiglia è stata molto importante e gli stimoli non sono mancati per quanto riguarda la musica. Mio padre aveva parecchi dischi di jazz soprattutto del quartetto di Benny Goodman e delle orchestre di Count Basie, Glenn Miller e Duke Ellington. In casa si ascoltava jazz. Ricordo che mi faceva spesso ascoltare un disco di Gene Krupa intitolato Drummin' man, era un fan di Krupa. Ricordo che suonava stupendamente con le spazzole e mi impressionava vederlo accompagnare "Sing Sing Sing" di Goodman, quel pezzo gli piaceva particolarmente.
Sempre in quegli anni ricordo che portò me e mio fratello Antonio (avevamo letteralmente i pantaloni corti) ai concerti al Teatro Lirico di Duke Ellington e Count Basie. C'è stata indubbiamente una forte "istigazione" da parte della mia famiglia, ma per me ha significato moltissimo anche il momento culturale e sociale in cui ho vissuto l'adolescenza. Erano anni in cui molti giovani si nutrivano di buona musica, stavano insieme in luoghi in cui si poteva assistere a veri e propri eventi che oggi valutiamo storicamente e musicalmente pregnanti.
AAJ: Negli ultimi anni sei andato assumendo un ruolo che pochi batteristi nella storia del jazz hanno sostenuto con successo. Quello di leader illuminato, di prolifico compositore, di curioso sperimentatore. Come è avvenuta questa evoluzione rispetto alla prima fase della tua carriera nella quale eri un ricercato batterista in progetti altrui?
F.F.: E' meraviglioso avere l'opportunità di scrivere, studiare, sperimentare continuamente anche se molte volte questi sforzi si concretizzano in pochi concerti. Non ho mai pensato solo nei termini dello strumento che suono e questo mi ha portato a considerare anche altri aspetti della musica non necessariamente legati esclusivamente all'ambito della batteria. E' stato un passaggio naturale avendo in casa un pianoforte, ascoltando musica, leggendo, studiando e approfondendo man mano gli aspetti legati alla scrittura nel corso di questi anni.
AAJ: Ti senti più batterista, leader, compositore o arrangiatore?
F.F.: Amo scrivere, dirigere, organizzare un gruppo e suonare la batteria. Mi sento più batterista certamente, ma sono molto contento quando il mio lavoro ha la possibilità di comprendere ed esprimere tutti gli aspetti che hai elencato nella domanda.
AAJ: La struttura musicale con la quale negli ultimi anni sembri tradurre al meglio le tue idee è quella della suite: "Eschersuite" è del 2003, "PollockSuite" del 2007, "Darwinsuite" del 2009. Come è stata la genesi di quello che sembra essere un corpus unicum della tua produzione?
F.F.: Fino ad ora i miei lavori hanno avuto in comune il fatto di essere degli album "a tema". Anche i primi due - Listening Self e L'essenza - lo sono stati in un certo senso. E' probabilmente un retaggio che risale ai tempi in cui molti dei dischi che ascoltavo e i gruppi che seguivo producevano musica attraverso i cosiddetti "concept album". Si trattava di dischi dove i brani, spesso organizzati in suite, venivano legati tra loro attraverso un tema unificante, come scrivere un libro, raccontare una storia. Mi stimola e mi interessa molto questo approccio, mi piace molto anche il genere musical tra l'altro.
AAJ: In generale come prende avvio il tuo processo creativo? E' casuale o ci sono dei presupposti, degli elementi che fanno scoccare la scintilla ?
F.F.: In vari modi, uno dei quali è l'improvvisazione... registro e annoto tutto ciò che mi interessa. Il più delle volte sono semplicissime idee, brevi frammenti che cerco di sviluppare il più possibile scartando ciò che è inutile. Altre volte mi soffermo su un particolare materiale, ad esempio sequenze di intervalli o scale, cellule ritmiche o melodie con accordi e li combino. Non posso dire di conoscere a fondo l'armonia, e di fatto scelgo in base a come sento, a come mi piace. Posso partire anche da griglie strutturali e formali suggeritemi da disegni come mi è capitato di fare con il progetto su Escher. Sono convinto che ci siano molti e diversi atteggiamenti e idee su come scrivere, comporre, arrangiare.
AAJ: Quali sono le caratteristiche che devono possedere i musicisti che desideri coinvolgere nei tuoi progetti?
F.F.: L'imprevedibilità. L'improvvisazione per sua natura tende alla ricerca, al progresso e rimane sempre l'elemento più importante, di conseguenza il contributo dei musicisti coi quali scelgo di lavorare è fondamentale. Un vero improvvisatore parte dagli elementi che gli si procurano e li restituisce carichi di nuove idee. Ritengo importante suonare con chi sia in grado di fare questo, di sorprendersi e di sorprenderti, lasciando da parte qualsiasi tipo di meccanicismo. Quando prepariamo un concerto generalmente chiedo ai musicisti di provare solo la parte scritta, tutto il resto deve avvenire quando si suona sul palco. Potrà sembrare un po' retorico ma ha senso se si suona come se fosse la prima e l'ultima volta in modo che accadano sempre cose diverse, questo è il punto. Per quanto tu possa scrivere della bellissima musica se l' improvvisazione manca di freschezza ed energia risulterà sempre di scarso interesse per chi suona e per chi ascolta.
AAJ: Come vedi la figura del jazzista oggi? Quale il suo ruolo?
F.F.: Steve Lacy diceva che il posto della musica è sul limite tra il noto e l'ignoto ed è verso l'ignoto che bisogna spingerla, sempre, altrimenti è la sua morte, e la nostra. Riguardo al ruolo c'è chi ha una tendenza progressista e chi no. Non tutti hanno una propensione a cambiare, c'è chi fonda le proprie certezze su cose note e non sente l'urgenza di trovare cose nuove. Chi è interessato alla vecchia tradizione e che si diverte a ripetere sempre gli stessi schemi, chi invece vuole perfezionarli con ostinata ossessione, ecc... Di sicuro il jazzista non è autoreferenziale, rimane da sempre legato alla continua ricerca, al rischio, alla sperimentazione, all' errore.
AAJ: Ci sono tanti ottimi musicisti in circolazione, sembra che l'interesse per questa musica sia aumentato enormemente, ma per assurdo è più difficile suonare oggi che in passato...
F.F.: A mio avviso questo accade perché gli organizzatori, parlo in generale, vogliono assumersi meno rischi che in passato e si muovono, più di quanto non facessero prima, verso la logica imprenditoriale e di mercato. A parte le "star," per la maggior parte dei jazzisti è molto difficile trovare occasioni e interlocutori attenti ad ascoltare i loro lavori. Se a questo aggiungiamo che non è certo un buon momento sotto il profilo economico e non è un buon momento per la cultura in generale otteniamo la quadratura del cerchio.
AAJ: Cosa ne pensi dell'attuale situazione milanese? Mi sembra che si avverta come non mai la mancanza di un punto di ritrovo come il Capolinea...
F.F.: Il Capolinea è indubbiamente stato un luogo importantissimo per il jazz e per i jazzisti ma non commettiamo l'errore di pensare nostalgicamente a un periodo che oggi non c'è più per vari motivi. A Milano ci sono pochi jazz club, molto meno che in passato. Mi viene in mente la Salumeria della Musica che offre alla città interessanti concerti e iniziative. Ho partecipato recentemente a "Haitian Fight Song": Italian Jazz for Haiti, una iniziativa a favore dei terremotati, promossa dall'infaticabile e lodevole Riccardo Fioravanti, che ha visto, come sempre accade in queste situazioni, una grande partecipazione di pubblico e di musicisti.
L'esigenza e il bisogno di ritrovarsi c'è ed è molto palpabile tra i jazzisti a Milano. Mancano però idee intorno alle quali costruire percorsi altrettanto interessanti che si orientino e si incanalino non solo in occasione di tremende catastrofi o di ricorrenze legate a un caro amico musicista purtroppo scomparso. Mancano, salvo poche eccezioni, i grandi appuntamenti, i festival di jazz internazionali, manca una Casa del Jazz, manca totalmente un confronto tra le parti interessate per la promozione e il rilancio culturale del jazz di questa città che dorme letteralmente all'ombra del cemento... sempre più presente e sempre più grigio. Mancano nuovi temi, non c'è spazio e apertura al nuovo, continuano
a ripetersi sempre le stesse cose che ormai esprimono stanchezza e sempre più autoreferenzialità. La mia impressione è che Milano, purtroppo, in questo momento ama troppo poco il jazz e i suoi jazzisti.
AAJ: Parlando con i musicisti si menziona raramente il ruolo degli affetti (famiglia, compagno/a, marito/moglie). Nel tuo caso...
F.F.: Ho una famiglia. Mia moglie ed io stiamo insieme da trentadue anni e abbiamo due figli di ventisei e diciannove anni. I nostri figli adesso son grandi ma ricordo l'impegno che richiedevano da piccoli... Abbiamo, come tanti, passato momenti difficili e altri bellissimi e credo proprio che continueremo a farlo.
Foto di Roberto Cifarelli e Dario Villa.
Tags
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
