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Intervista a Eri Yamamoto
ByPianista eclettica nelle forme espressive e vivacissima sul palcoscenico, Eri Yamamoto ha una personalità che emana entusiasmo in modo contagioso. L’abbiamo intervistata in prossimità della sua breve tournée in Italia.
All About Jazz - Le biografie parlano dei tuoi studi classici in Giappone e di come tu sia stata fulminata dal jazz durante un viaggio negli USA. Puoi raccontarci com’è andata?
Eri Yamamoto - Sono nata in Giappone, ad Osaka, e ho cominciato a suonare il piano a tre anni, seguendo insegnamenti classici. Ho cominciato a comporre a otto anni e ho studiato voce, viola e composizione durante gli anni della mia scuola superiore e del college.
Nel 1995, durante la pausa autunnale della scuola, ho visitato New York per la prima volta e ho ascoltato per caso un concerto di Tommy Flanagan. Rimasi fortemente impressionata da questa mia prima esperienza di ascolto di un piano trio jazz. Dopo il primo set, con un certo coraggio, chiesi a Tommy: “vorrei diventare come te. Per favore, dimmi cosa devo fare”. Lui mi rispose: “se desideri diventare una musicista jazz, allora devi venire a New York!”. Io dissi semplicemente: “Ok!”.
Decisi all'istante di trasferirmi e di dedicarmi allo studio del jazz. Rinunciai al mio diploma e dopo un mese dal mio incontro con Tommy ero già a New York.
Quando arrivai non avevo nessuna idea di dove poter studiare jazz. Nel corso della prima settimana, raccolsi per caso un giornale nel quale scoprii che il Mal Waldron Quartet suonava allo Sweet Basil. Dato che non ero cresciuta con il jazz, conoscevo allora solo pochi nomi di musicisti, come Miles Davis (lo si poteva trovare sulle TV commerciali giapponesi), Oscar Peterson e, fortunatamente, anche Mal. Il suo brano “Left Alone” veniva usato come colonna sonora da molte TV giapponesi.
Così andai allo Sweet Basil, quella notte, e dopo il primo set chiesi a Mal se conoscesse qualcuno che mi potesse insegnare il piano jazz, o qualche posto dove potessi studiarlo. Egli mi disse: “sì, il mio bassista conosce una scuola, te lo presenterò”. Era Reggie Workman.
Reggie mi scrisse un indirizzo su un tovagliolo di carta, e disse: “domani vai a questo indirizzo”. Il giorno successivo mi presentai; si trattava del programma jazz della New School University e Reggie era uno dei direttori (lo è ancora). Ho passato tre anni in quella scuola, ed è stato splendido! Ho imparato molto, suonando con un gran numero di musicisti diversi, giorno e notte, tutti i giorni. Giunta al sesto mese iniziai a fare concerti con un mio trio. Suonavamo alcuni standard che avevo arrangiato e molti miei brani originali.
Nel 1999, mentre ero ancora alla New School, cominciai a suonare regolarmente all’Avenue B Social Club, un posto popolare tra i musicisti jazz dell’East Village. Là ho conosciuto e sviluppato l’amicizia con il pianista Matthew Shipp.
AAJ - Qual è il tuo rapporto con la storia dello strumento nel jazz? A quali autori ti ispiri maggiormente?
E. Y. - Quando studiavo alla New School, ho appreso moltissimi standard americani e jazz. Ho iniziato ad ascoltare e trascrivere Bud Powell, Wynton Kelly e Charlie Parker. Amo particolarmente il senso dello swing di Wynton Kelly e il suo tocco pianistico. In seguito ho ascoltato Bill Evans, Herbie Hancock, Keith Jarrett, Ahmad Jamal e così via.
Poi, nel 1996 ci fu un grande Jazz Festival alla Knitting Factory di New York City. Lì ascoltai quasi tutti i musicisti che uno può immaginare. Sentii per la prima volta il trio di Paul Bley con Gary Peacock a Paul Motian. Quando li ascoltai fu una rivelazione. Realizzai in quel momento quanti tipi diversi di jazz esistano, e pensai: “Ok, posso continuare a scrivere la musica che scrivevo quando avevo otto anni e cominciare a suonarla e risuonarla”.
AAJ - Come descriveresti il tuo stile strumentale? E quale genere preferisci suonare?
E. Y. - Mi piace esplorare con il pianoforte numerose strutture - talvolta singole linee, talaltra densi gruppi di accordi. Mi piace aggiungere indicazioni di tempo e suonare linee di basso o ostinati con la mano sinistra. Qualche volta mi diverto ad ampliare delle sezioni aperte senza armonia, qualche altra a suonare variazioni. Parte della mia musica utilizza elementi funky, blues, gospel e persino rock. Piuttosto che ascoltare i toni cromatici, qualche volta presto attenzione alle note intermedie, mi piace legarle in un portamento. E certe volte suono accordi bizzarri, per provare a creare quei suoni che ascolto nella mia testa. Nel trio mi piace improvvisare con un suono di gruppo. Amo il suono della band, lo preferisco al pensarmi musicista protagonista. Il mio non è un pianoforte accompagnato da contrabbasso e batteria, ma un trio che fa musica assieme.
AAJ - In che modo tieni assieme queste differenti influenze stilistiche?
E. Y. - Sono cresciuta ascoltando musica diversa, prevalentemente attraverso la radio. Per questo sono molto aperta alla diversità musicale e non mi interessa quale sia il “Genere”. Si tratti di rock inglese o americano, di blues, di classica o di reggae, di world music o di pop.
AAJ - Pensi di essere stata almeno un po’ influenzata dalla musica tradizionale del tuo paese, il Giappone?
E. Y. - No, penso di no. Comunque, sono cresciuta a Kyoto, città nella quale si può più che in ogni altra fare esperienza della cultura tradizionale giapponese, inclusa quella musicale. Per questo la musica tradizionale del mio paese mi è molto familiare e mi piace molto come i musicisti tradizionali aprono spazi e prendono respiro tra una frase e l’altra.
AAJ - Che rapporto c’è tra musica scritta e improvvisata nel tuo modo di suonare?
E. Y. - Le mie composizioni contengono giusto l’informazione minima indispensabile: ogni volta che suono, da sola o in gruppo, le eseguo in modo differente. Creare nuove situazioni improvvisando è per me la parte più emozionante delle performance.
AAJ - A cosa pensi mentre stai improvvisando?
E. Y. - Di star provando a dipingere con il colore ciò che sento in quel momento, o che stiamo sentendo assieme come membri della band.
AAJ - Parlaci delle tue collaborazioni ed esperienze più importanti in questi tredici anni negli States e nel jazz.
E. Y. - Ce ne sono molte. Una, molto lunga, è quella del mio trio con David Ambrosio e Ikuo Takeuchi. Con loro, nell’arco di dodici anni, abbiamo realmente cercato di avere una voce unica e di dare alla nostra musica un unico carattere. Il nostro nuovo CD, Redwoods, è uscito per la AUM Fidelity e vi compaiono otto mie composizioni originali.
AAJ - Come sei entrata nel gruppo di William Parker, oggi considerato dalla critica uno dei musicisti più importanti e creativi della scena internazionale?
E. Y. - Si tratta di un’altra delle mie esperienze più significative. Venni raccomandata a William da Matthew Shipp, per la registrazione in trio del suo Luc’s Lantern. Più tardi William mi chiese di prendere parte a un tour in Italia e in Olanda, in trio con lui e Hamid Drake. Gli piacque molto il mio modo di suonare e così mi chiese di unirmi alla band “Raining on the Moon”, che precedentemente non aveva un pianoforte in organico. Registrammo Corn Meal Dance e suonammo assieme in numerosi concerti. Dopodiché sono diventata parte integrante dell’organico.
William non è solo un grande musicista, è una splendida persona; attraverso l’incontro con lui e con la band (nella quale tutti sono deliziosi) ho imparato che la musica è importante, ma che lo è anche amare la gente e godere della propria vita.
L’inverno scorso ho sognato di registrare dei duetti con William e tre altri fantastici musicisti: Hamid Drake, Daniel Carter e il romano Federico Ughi. Nel mio sogno stavo persino ascoltando la musica che avevo registrato con loro. Il CD, Duologue, è poi uscito anch’esso per la AUM Fidelity e include due brani composti appositamente per ciascuno dei musicisti.
AAJ - Sono i frutti della tua maturità come jazzista?
E. Y. - Il mio atteggiamento e il mio spirito nei confronti della musica sono oggi gli stessi che avevo all’epoca del mio primo album. Non c’è un punto di maturità: si continua ad andare avanti per sempre.
AAJ - E allora, verso quale direzione ti dirigerai in futuro?
E. Y. - A novembre terrò il mio primo concerto per piano solo a Firenze, poi a Milano e a Catanzaro. Sono molto emozionata per quest’esperienza e mi piacerebbe fare una registrazione in solo, prossimamente.
Vorrei anche collaborare con molti, moltissimi altri nuovi musicisti. Sono molto interessata a suonare e collaborare anche con musicisti italiani: ce ne sono tanti veramente fantastici.
Foto di Dario Villa (le prime tre)
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