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Intervista a Enzo Rocco
ByAll About Jazz : "Jouer" in francese e "to play" in inglese significano suonare, ma anche giocare e recitare. Mi sembra che calzino a pennello per la tua musica...
Enzo Rocco: Sì, sì, mi piace questa storia di suonare/giocare/recitare. Giocare, recitare, mascherarsi, "facciamo che eravamo". Puoi fare la musica più intellettuale e spaccatesta, ma è sempre e comunque un gioco. "Facciamo che eravamo" è il gioco di tutta la vita (e che ti salva la vita...). E poi lo scherzo, l'umorismo, l'ironia, il non prendersi troppo sul serio. Anche questo ti salva la vita. Voilà. E poi, che ti devo dire, suoni come sei, è vero sempre, ma è ancor più vero quando non sei più di primissimo pelo. E "come sei" ti fa incontrare le persone che ti si confanno, quelle con cui stai bene naturalmente, quelle che poi diventano amiche e gira gira suoni e fai progetti con quelli lì. Con quelli che ti e si prendono in giro, mica con gli altri, quelli "seri." Se proprio vuoi qualche esempio potremmo andare dal "teatrale" Tom Bancroft al sottilissimo Lol Coxhill, fino ad arrivare ad Actis Dato [leggi la recensione del Cd in duo Pasodoble], addirittura sardonico. Ma tutti i miei amici, ognuno a suo modo, sono così, suonatori/giocatori...
AAJ: A proposito di Carlo Actis Dato a che punto è la vostra collaborazione attuale?
E.R.: Con Carlo alla fine siamo proprio diventati amici... si organizzano delle cene a casa sua dopo la raccolta degli ortaggi nel suo orto... (lo fa lui, io intanto leggo, bevo un paio di birre e dico imbecillità in cucina). Comunque il duo, fondato nel 1997, continua a esistere e a mescolare i ricordi di tutte le musiche possibili. Imperversa un po' meno (ma siamo stati davvero dappertutto). Nell'aprile 2009 siamo stati invitati a Tunisi, al festival "Jazz à Carthage," per suonare in duo, ma anche con uno spazio a disposizione per fare quello che volevamo. Abbiamo colto l'occasione per inventare un quartetto, l'ActisRoccoQuartet, con irrinunciabile basso-tuba (Fiorenzo Gualandris) e batteria (Stefano Bertoli). A me questo gruppo piace moltissimo, ha molta energia, sembra un gruppo rock, pure punk. Speriamo bene e che possa avere anch'esso lunga vita.
AAJ: Il Tubatrio con Giancarlo Schiaffini ed Ettore Fioravanti è stata la formazione che ti ha fatto conoscere al mondo del jazz. L'avventura è terminata dopo quasi dieci anni per...?
E.R.: ...Per esaurimento (ma lo vedi che il tuba l'ho comunque recuperato?). O per sfinimento? Mah. Mi pare insomma che abbiamo detto più o meno quello che potevamo dire e che i tre dischi [leggi le recensioni di Bad News From Tubatrio e Tubatrio's Revenge] abbiano mostrato un progresso interessante nello sviluppo del progetto, ma che inevitabilmente doveva arrivare dove è arrivato: stop e andiamo avanti utilizzando l'esperienza per fare altro. Le cose del Tubatrio continuano a riaffiorare nelle mie proposte, anzi direi che le innervano continuamente e costantemente e a vari livelli di coscienza. Suono in altri gruppi i pezzi del Tubatrio. E' stato un "work in progress," ma credo che ormai con Fioravanti e Schiaffini non avessimo molto da dirci. Appunto perché musicisti immensi era un dialogo continuo con loro, e un apprendimento costante, ma avevo bisogno di far "uscire fuori" di più la personalità che avevo nel frattempo sviluppato, tanto lavorando con loro quanto grazie a tutti gli altri bellissimi incontri che ho fatto. Riprenderò prima o poi - più prima che poi - le idee e parte del repertorio del trio in modo sistematico, per esempio attraverso un sestetto... vedremo fra un paio d'anni se sarà possibile.
AAJ: Sono stati fatti i nomi di Derek Bailey, Joe Morris, Christy Doran, Philippe Catherine per collocarti stilisticamente. Quale chitarrista ha influenzato veramente il tuo stile e il tuo modo di rapportarti alla musica?
E.R.: Ad essere sincero, non ho mai amato i chitarristi. Il mio interesse per il jazz si è creato attorno ai dischi del quintetto di Coltrane con Dolphy, dei gruppi di Archie Shepp, di Charles Mingus, di Thelonious Monk. Credo di essere stato influenzato più dagli accordi di Monk che non da Jim Hall, da un certo tipo di suono e di fluidità di Coltrane piuttosto che da Wes Montgomery. Insomma, 'sti capperi di chitarristi io non li ho mai seriamente ascoltati, se non un po' all'inizio Barney Kessell, che mi piaceva... Ascoltavo il jazz che ho detto e poi da ragazzo andavo a sentire i "creativi," soprattutto gli olandesi che vai a sapere perché giravano spesso dove abitavo io. A casa mia fino ai quindici anni si ascoltava l'opera (eredità paterna), la musica popolare (la Nuova Compagnia e tutti gli altri), gli Area di cui al ginnasio credo fossi l'unico cultore. Se devo fare per forza un nome di chitarrista citerei Bailey, ma più che per i risultati musicali ottenuti, per l'atteggiamento culturale di assoluta libertà creativa che per quanto l'abbia effettivamente ascoltato. Ho due dischi suoi, non uno di più, e non sono riuscito ad ascoltarli per anni e anni. Da non più di quindici anni ho realmente capito la sua grandezza. Poi è vero, i nomi che fai a volte sono usciti fuori. E' strano, di Morris e Doran ho comprato un disco per uno pochi anni fa giusto per sapere che cosa facessero (e mal me ne incolga di non averli ascoltai prima). Catherine... l'ho sentito una sola volta in un concerto! Piuttosto, avevo un disco di un altro chitarrista belga e quello sì mi era piaciuto tantissimo: René Thomas.
AAJ: Hai effettuato moltissime tournee in ogni parte del mondo. Cosa ti rimane di queste esperienze?
E.R.: Ti cambiano la vita! E la musica. Se affronti queste esperienze - fammi dire una banalità - con l'ottica del viaggiatore e non del turista è logico che prima o poi elementi delle culture che si vengono a conoscere riaffiorino anche nella tua musica, ritrovandoti a suonare del tutto naturalmente una nenia giapponese sul ritmo di una tarantella napoletana. Anche se poi non nascondo che "capire le culture" è lavoro di una vita, anzi non basta una vita per studiarne una e una sola... e allora io non studio veramente, però cerco di approfittare e di memorizzare tutte le informazioni, spesso sotto forma di emozioni, che mi arrivano durante il viaggio. Ma poi le esperienze umane, i fortissimi legami di duratura amicizia che riesci ad instaurare con le persone che incontri. Amicizia alimentata da pochi incontri intensissimi...
AAJ: Se non sbaglio le due esperienze più durature e frequenti sono quella giapponese e quella argentina. Due mondi apparentemente molto distanti tra di loro...
E.R.: Sì, per quel poco di mondo che ho visto diciamo che Giappone e Argentina sono fra i paesi in cui mi trovo più a mio agio (vorrei metterci anche la Gran Bretagna) e con cui ho certamente relazioni frequenti e di antica data. Che ti devo dire? Sono due posti agli antipodi, anche proprio fisicamente, ma nella mia fantasia si integrano perfettamente. L'estremo calore e il grande relax da una parte (che mi fa un po' incavolare quando i fonici arrivano un'ora dopo al sound-check) con la gentilezza - che è grande rispetto per l'interlocutore - e l'efficienza - che è amore per il proprio lavoro - dall'altra. L'Argentina è fantastica perché per certi, moltissimi versi pare di stare in Italia. Il Giappone è meraviglioso perché sei il più possibile lontano dall'Italia. Posso dire un'altra banalità? L'Italia è esteriormente un paese più bello di moltissimi altri, ma in moltissimi altri paesi si vive infinitamente meglio...
AAJ: Da qualche anno frequenti regolarmente un gruppo di improvvisatori inglesi. Questo perché l'improvvisazione radicale non trova terreno fertile nel nostro paese?
E.R.: Il primo motivo è stato, come spesso accade, casuale. Durante un ingaggio a Londra nel 1998 ero venuto a contatto con alcuni musicisti che, con una sorta di passaparola, hanno creato l'opportunità per una serie di registrazioni. Addirittura nel 1999 organizzarono un piccolo festival incentrato più o meno su di me. Che vergogna! Ma è anche vero che in Italia c'erano e ci sono meno occasioni per presentare questo tipo di musica rispetto a paesi come l'Inghilterra, la Germania, la Francia, l'Olanda dove la comunità dei musicisti è più cementata rispetto alla nostra. Si creano in questo modo maggiori - o almeno si creavano, prima di questa fetentissima crisi - spazi dove è possibile presentare ogni tipo di proposta musicale. A Londra, per esempio, non era infrequente ascoltare una sera Lol Coxill impegnato in una furiosa improvvisazione e la sera dopo vederlo tranquillamente esibirsi ospite di un qualche gruppo punk. In Italia questo è difficile che accada. Lo era, lo è e, temo, lo sarà. Dice la crisi. Sì, certo, però per fare schifezze i soldi ci sono sempre. Io credo che la crisi non sia tanto economica, quanto storicamente culturale. Viviamo in tempi di una rozzezza culturale indescrivibile. Io mi sento fortemente a disagio. Non mi piace. E non si risolverà tanto facilmente, ci vorranno decenni da che si comincerà a lavorare per "ricominciare". Ma si ricomincerà?
AAJ: Parlando di Coxhill è appena uscito per l'Amirani Records Fine Tuning un concerto registrato a Gradisca con il grande sassofonista inglese. Cosa puoi raccontarci di quella esperienza?
E.R.: Bazzico Lol Coxhill da dodici anni, abbiamo suonato in duo molte volte, a volte in trio con Veryan Weston. Devo molto a entrambi, Lol è una specie di papà per me, mentre Veryan è un grande amico, colui al quale devo interamente i miei contatti con tutta una schiera di musicisti. Vabbé. Insomma con Lol avevamo suonato molto, ma mai registrato, se non un paio di pezzi in London Gigs tanti anni fa, allora quando ho sentito le registrazioni del concerto di Gradisca mi è venuto il ghiribizzo del disco. Anche perché un disco di musica totalmente improvvisata preso dal vivo è tutta un'altra storia. E' un documento, anche e soprattutto. E mi pareva importante documentare questa fase del lavoro di Lol, arrivato a una età venerabile. Fra l'altro il concerto è integralmente visionabile sul mio sito. Gradisca è stata una bellissima esperienza, "All Frontiers" è uno dei pochissimi festival italiani davvero interessati alla indagine sulle musiche attuali. Lo vedi? Mica un festival di "jazz". Però quella volta ci suonavano Larry Ochs, Braxton... è lì che ho potuto conoscere Braxton, una emozione e una esperienza enormi... insomma un festival come dovrebbero sempre essere, una mostra dello "status quo," non una serie di proposte per la serata in famiglia.
AAJ: Trovo molto interessante la filosofia adottata dalla Amirani Records...
E.R.: Potremmo utilizzare per l'etichetta di Gianni Mimmo le stesse parole spese per "All Frontiers". Mimmo è caparbio, appassionato, professionale, altamente creativo. E' un produttore che ricerca, "che ci mette il naso," che immagino non ci guadagni granché, ma grazie al quale un certo tipo di proposta può avere una circolazione ampiamente internazionale.
AAJ: Sei stato direttore artistico del Bottesini BassoFestival, rassegna che aveva raggiunto livelli di assoluto valore e notorietà internazionale. Poi è come svanita nel nulla. L'ennesimo buco nero della cultura musicale italiana?
E.R.: No comment. Otto anni di passione e lavoro svaniti non so neppure io perché. Stavo dicendo "buttati nel cesso," ma non è vero perché esperienze così gratificanti ti rimangono, sedimentano, maturano e forgiano una personalità. Comunque nessuno mi disse "basta". I politici, da cui dipendeva purtroppo l'economia della faccenda, hanno giocato a sfinirmi senza mai dirmi chiaramente che il giocattolo dopo otto anni non gli piaceva più. Tanto (poco?) hanno fatto che ho lasciato perdere. Però continuo a lavorare al "Mardi Grave" di Montpellier, con cui il festival era gemellato. Una bella boccata d'aria.
AAJ: Quali sono i programmi attuali e i progetti futuri?
E.R.: Intanto sto tentando di promuovere la "trilogia del soprano," i tre CD usciti contemporaneamente che fotografano tre concerti con tre sopranisti diversi: Lol Coxhill di cui s'è detto, l'argentino Pablo Ledesma e Gianni Mimmo. Con Ledesma abbiamo pubblicato Seis episodios en busca de autor per Setola di Maiale, un concerto registrato nel 2009 a La Plata, un'oretta di autobus da Buenos Aires. Conosco Pablo da dieci anni, ma mai avevamo fatto una improvvisazione così in duo, mi è parsa fresca, divertente e godibile. Si può trovare su Youtube. Con Mimmo è successo che l'anno scorso, senza avere mai suonato prima assieme, abbiamo suonato in un festival in Belgio e a quelli dell'Association Inaudible il concerto è piaciuto tanto che hanno chiesto di pubblicarlo... et voilà The Leuven Concert. Per volontà e per caso, diceva quel tale... Poi sto cercando chi voglia pubblicare - ma quasi ci siamo, un'etichetta scozzese - un concerto registrato con Tom Bancroft al "Manchester Jazz Festival". Altro disco in attesa è un live a Buenos Aires col mio trio "porteno" (Rodrigo Domingues e Hernan Mandelmann), fatto e mixato, ma con qualche rogna di autorizzazioni da risolvere. Adda passà 'a nuttata. E poi dal vivo. A parte Actis Dato, Bancroft, gli inglesi e andirivieni continui con musicisti di vari paesi, dovrei rilanciare un "gruppo mio"... un quartetto o quel sestetto cui s'è accennato? Sto scrivendo un po' di musica secondo un sistema che anche per me è tutto da sperimentare e non so ancora quale organico necessiterà. Forse pure un paio di ballerine. Vedremo. Poi - novità - ho scoperto che mi piace proprio suonare in "solo". Se cercate su Youtube mi troverete.
Foto di Claudio Casanova (tranne la seconda, di T. Mooney).
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