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Intervista a Daniele D'Agaro
ByNato nel 1958 a Spilinbergo (Pordenone), i suoi primi approcci con la musica sono stati del tutto occasionali. La sua formazione musicale si è compiuta all'estero, in modo lento e discontinuo, ma a diretto contatto con alcuni dei protagonisti dell'improvvisazione europea, prima a Berlino, poi in Olanda.
Tornato a vivere a Udine nel 1996, il sassofonista ha stentato a reinserirsi nel circuito jazzistico italiano che conta, ma col tempo è riuscito inevitabilmente ad imporsi; non solo per la sua statura artistica, per le doti tecniche e la creativa vitalità di strumentista e per la straordinaria capacità d'interagire con i partner di diversi ambiti stilistici, ma anche per l'aperta umanità del carattere, per la disponibilità e l'infinita curiosità che lo spingono ad affrontare nel modo più efficace esperienze sempre nuove. Nell'intervista concessa a All About Jazz si prendono in esame alcune delle tappe più importanti della sua carriera e gli aspetti più personali del suo mondo espressivo.
All About Jazz: Cominciamo dai tuoi anni giovanili: la formazione e gli esordi professionali.
Daniele D'Agaro: Ho cominciato tardi con la musica, intorno ai quindici-sedici anni; dei compagni di scuola mettevano su dischi e in mezzo a rock, Battisti e altro, mi capitò di sentire Carlos Santana Live in Monterey, in cui c'era uno che suonava uno strano tubo dorato: era Bennie Maupin. Fu un colpo di fulmine: comprai un sax tenore con i soldi guadagnati lavorando durante le vacanze scolastiche. Il problema era capire come si poteva ricavare le note da codesto strumento, una bella avventura.
Il mio primo insegnante è stato Adelino Antoniazzi, che suonava nella big band di Udine: un muratore con la passione per la musica jazz, un musicista completo, che sapeva improvvisare. Aveva una pazienza certosina; io gli portavo i dischi di Ornette o dell'ultimo Coltrane e lui mi diceva che prima però dovevo imparare il clarinetto. Per me si aprì un mondo nuovo. Fu lui ad istillarmi entusiasmo e curiosità per tutta la musica.
AAJ: Quando ti trasferisti all'estero avevi circa vent'anni. Cosa ti spinse a quella scelta?
D.D.: Mi spinse la necessità di imparare, conoscere il mondo attraverso la musica. Nel 1979 andai a Berlino, dove abitava mia zia; lavoravo come barista al Jazz Club Quasimodo... il proprietario, il genovese Giorgio Carioti, è ancora lì. Sapevo ben poco, prendevo lezioni di sax e muovevo i primi passi con i musicisti berlinesi. Ascoltavo ogni sera musica straordinaria e vivevo a strettissimo contatto con tanti musicisti favolosi, da Sonny Stitt a John Scofield, che mi passavano informazioni di prima mano, storie sui musicisti, un quantità di stimoli. Ma allo stesso tempo frequentavo gli esponenti dell'avanguardia berlinese come Sven Acke Johansson e diversi altri. Non trovavo - e tuttora non trovo - nessuna barriera tra stili e periodi della musica.
AAJ: Cosa ha significato per la tua crescita artistica e professionale il lungo soggiorno in Olanda?
D.D.: Nel 1980 avevo una fidanzata olandese, per cui mi trasferii da Berlino ad Eindhoven, dove venni in contatto con la scena musicale olandese attraverso amici pittori e scultori olandesi; musicisti che conoscevo dai concerti e dai dischi, certo, ma suonarci assieme fu per me uno shock che mise in moto una grande voglia di studiare a fondo la musica, a 360 gradi. Non c'erano solo i musicisti noti come Misha Mengelberg, Han Bennink, ecc., ma la scena comprendeva anche tanti altri gruppi originalissimi, sia per la strumentazione che per la metodologia improvvisativa. Questi aspetti facevano la differenza. Mi colpiva poi il fatto che tutti erano in contatto con tutti e andavano ad ascoltare di tutto, per cogliere ispirazione e idee, anche da altre discipline artistiche.
Mi trasferii ad Amsterdam nel 1984 ed entrai in mezzo a quella originalissima, esplosiva scena artistica in cui la musica interagiva con la danza contemporanea, il teatro, la pittura, l'arte nella sua totalità. Per non parlare dello status che aveva, e che ha tuttora, la Musica Improvvisata, con la sua Unione dei Musicisti, un eccellente sistema di sussidi e contributi per le singole orchestre, per i gruppi, per i progetti... una situazione che non ha pari in nessun altro Paese. Ne ho fatto parte attiva partecipando a sei dei gruppi più rappresentativi olandesi, che hanno vinto negli anni il Boy Edgar Prijs, il riconoscimento più significativo per il jazz in Olanda.
AAJ: Mi pare che gli importanti CD che hai inciso per Hatology circa dieci anni fa costituiscano il coronamento di quelle collaborazioni con gli improvvisatori olandesi. Ce ne puoi parlare?
D.D.: Penso ai CD come a documenti che negli anni fissano il percorso di un musicista. Non faccio differenza tra le etichette eminenti e quelle cosiddette minori, in quanto spesso non hai scelta: devi pubblicare/documentare quello che hai prodotto, e devi farlo al momento. Il rapporto con la Hatology nacque tramite Art Lange di Chicago, che mi sentì suonare e mi segnalò all'etichetta svizzera. Dopo Strandjutters registrai a Chicago con il gruppo Chicago Overtones l'omonimo CD. Avrei dovuto fare con loro anche il CD Comeglians [pubblicato dal collettivo El Gallo Rojo, N.d.R.] con la Adriatics Orchestra, ma Werner Uehlinger lo avrebbe pubblicato solo due anni dopo. A me non andava bene, perché avevo bisogno di farlo conoscere subito.
AAJ: Soffermiamoci ancora sulle tue collaborazioni con musicisti stranieri. Puoi parlarmi in particolare del sodalizio del Tempest Trio, assieme a Han Bennink e Bruno Marini, del trio con Bennink e Von Schlippenbach e del duo con quest'ultimo, tutte esperienze documentate da CD Artesuono?
D.D.: Il Tempest potrebbe essere un normale Hammond Trio, ma un repertorio atipico, l'uso del clarinetto, il massiccio uso di libere improvvisazioni ed una costante opera di demolizione dei luoghi comuni fanno sì che nasca una musica ben poco prevedibile, soprattutto per noi. Il trio con Bennink e Von Schlippenbach è nato dal fatto che io suono separatamente con ognuno di loro da molti anni e, sebbene siano grandi amici, loro non suonavano assieme dal 1969. Stefano Amerio di Artesuono, dopo aver prodotto nel 2007 Dedalus, del duo con Von Schlippenbach, e nel 2008 il CD del Tempest Trio, The Tempest, ha risposto entusiasticamente, quindi nel 2010 è uscito Fingerprints, del trio con Bennink e il pianista tedesco. Stefano possiede un orecchio di grande sensibilità e crede nei progetti musicali in cui, oltre ad un'elevata qualità, ci sia impegno, consistenza e continuità... tutto ciò che può dare futuro alla musica.
AAJ: Ho l'impressione che al tuo rientro in Italia il reinserimento nell'ambiente jazzistico italiano sia stato lento e difficoltoso; oggi invece collabori con molti gruppi ed il tuo valore è pienamente riconosciuto dagli addetti ai lavori. Confermi?
D.D.: Sono tornato a vivere a Udine nel 1996... sono passati tanti anni... sì, ora va un po' meglio. Ogni musicista segue il suo percorso artistico e sceglie una base logistica. Udine è più esposta verso il Nord-Est dell'Europa, dove suono spesso; per certi versi è un vantaggio, però significa fare tanta strada per raggiungere il resto d'Italia. Comunque se penso ai colleghi siciliani o sardi, mi sento meno solo.
AAJ: Quali sono stati i tuoi primi ingaggi dopo il tuo rientro in Italia?
D.D.: Ricominciai praticamente da zero: in Italia non conoscevo molti musicisti, però suonai molto in Friuli. Fondai subito un Hammond Trio con Mauro Costantini e il batterista U.T. Gandhi ed avevamo sempre lavoro. Poi misi in piedi un gruppetto di dixieland, sempre con musicisti locali... mi divertivo a suonare un sacco di brani degli anni Venti-Trenta, che nessuno suonava più: una mia ricerca personale su brani di Pee Wee Russell, Frankie Trumbauer, Jimmie Noone, ecc. In Val di Fiemme, una sera, ci venne vicino un signore sorridente, molto gentile, facendo apprezzamenti molto competenti: era Franco D'Andrea. Di lì a poco mi chiamò a collaborare ai suoi progetti musicali.
AAJ: Una delle formazioni recenti è il DOZ Trio, con Mauro Ottolini e Simone Zanchini. Si tratta di una formazione paritaria? Mi pare che nella scelta del repertorio e con un interplay serrato perseguiate un'alternanza fra momenti di aperta improvvisazione ed una sorta di neo-folk dalla pronuncia grassa e swingante e dal gusto un po' retrò. Qual è il tuo pensiero in merito?
D.D.: Questo trio è una formazione paritaria in cui misceliamo le nostre differenti conoscenze, le nostre passioni musicali. Mauro e Simone sono due musicisti di razza, hanno un sacco di qualità, posseggono musicalità, tecnica, ironia, ma soprattutto sono curiosi e sempre entusiasti. Ci guida il suono dei nostri tre strumenti, che ricorda un po' l'atmosfera delle sagre di paese e ha qualcosa di nostalgico, di antico. Però possiamo repentinamente cambiare direzione e trovarci in un ambiente musicale contemporaneo, in cui le composizioni odierne e la libera improvvisazione catapultano l'ascoltatore in un'altra dimensione.
AAJ: Molto differente è il sodalizio con l'organista Mauro Costantini, con il quale affronti un repertorio sacro. Ce ne puoi parlare?
D.D.: Nel 1998 sentii l'esigenza di andare a fondo nella ricerca di una soluzione timbrica profondamente spirituale. L'organo liturgico è una meravigliosa macchina musicale, che ha un impatto emotivo su tutti noi, indistintamente. Il sassofono tenore è anch'esso uno strumento ad ancia e si fonde magnificamente con l'organo, in certi punti non li si distingue, sembra un tutt'uno. Mauro Costantini, non vedente, è un musicista speciale, un compositore di grande sensibilità e conoscenza musicale.
Il primo materiale su cui lavorammo furono trascrizioni di brani dai tre concerti sacri di Duke Ellington, tante nostre composizioni, melodie popolari dalle Valli del Natisone, in Friuli. Addirittura anche brani di Larry Young (suo padre era pastore anglicano). Poi scoprimmo i Discanti Aquileiesi, canti dalla antica liturgia della Chiesa di Aquileia; lavorammo sulla trascrizione dagli antichi codici miniati del 1200, conservati nel Museo di Cividale del Friuli. Un gran lavoro: per noi si aprì un mondo fatto di musica, storia e cultura. Ora il nostro repertorio si è alquanto esteso, ma l'improvvisazione rimane il collante di tutto.
AAJ: Fra le tante altre collaborazioni che hai sostenuto negli ultimi anni (ricordo per esempio la tua presenza in un particolare gruppo di Franco D'Andrea, nei gruppi di Ottolini o in alcuni riusciti dischi editi da El Gallo Rojo...), quali preferisci sottolineare?
D.D.: Far parte di diverse formazioni con repertori così differenti è il mestiere di noi musicisti; il confronto è importante per la crescita. Tutte queste esperienze sono per me determinanti. Partecipo a progetti altrui quando posso condividere non solo la musica, ma anche un rapporto umano che mi fa star bene. Suonare con il trio di Franco D'Andrea rappresenta qualcosa di speciale di cui mi sento estremamente privilegiato, soprattutto perché sono vicino ad una sorgente di musica tra le più limpide.
AAJ: Che differenze di approccio tecnico e stilistico applichi agli strumenti che usi, in particolare il clarinetto e il sax tenore?
D.D.: L'uno è l'estensione dell'altro, tutto dipende dal materiale musicale e dalla strumentazione con cui devo interagire. A volte mi viene richiesto di suonare solo l'uno o l'altro e mi pare quasi strano di non poterli suonare assieme, perché sono due colori che mi rappresentano completamente. Non possiedo una grande tecnica, cerco di concentrarmi sul suono; come non ho un ambito stilistico fermo di riferimento. Nel jazz mi piacciono tutti i sax tenori del passato, tutti ugualmente importanti, tutti originali e distinguibili: Gene Ammons non lo puoi scambiare per Stan Getz, o Roland Kirk o Yusef Lateef o Jimmy Giuffre. Il loro suono, il loro fraseggio costituivano la loro firma. Stessa cosa per i clarinettisti: anche quelli meno famosi, suonavano tutti a un livello sommo. Il jazz in fondo è la celebrazione delle differenze.
AAJ: Riguardo al tuo linguaggio strumentale si potrebbe dire che, come avviene per molti afroamericani, non esiste separazione fra avanguardia e tradizione.
D.D.: Tutto passa attraverso le orecchie, la curiosità è un instancabile motore di ricerca. Tante e disparate possono essere le fonti di stimolo, d'ispirazione: il canto dei pigmei, l'Otello di Verdi, un gruppo post punk della Siberia e tanto altro ancora. L'ascolto e la scoperta riservano un piacere indescrivibile.
AAJ: L'Adriatics Orchestra costituisce la tua esperienza recente a cui probabilmente tieni maggiormente. Come è nata questa formazione? Che repertorio utilizzi e quali dinamiche interne si sviluppano?
D.D.: L'Adriatics orchestra è nata intorno al 2004 con altri musicisti dell'area austro-slovena; da sei anni si è consolidata con un gruppo di musicisti che è una combinazione italo-olandese, l'unione delle mie esperienze passate e presenti. Il repertorio è gran parte di mio pugno, ma ci sono anche composizioni di Sun Ra, Mauro Costantini, Sean Bergin. Le composizioni possono essere scritte con tanto di arrangiamento e notazione tradizionale; altre invece si basano su grafici come in uso in certa musica contemporanea, oppure su head arrangements che inventiamo tutti assieme durante le prove. La disciplina dell'improvvisazione rappresenta comunque il fulcro, mentre le composizioni, le notazioni fungono solo da stimolo per creare al momento. Il concerto è concepito per sviluppare ogni volta qualcosa di nuovo.
AAJ: Sulla presenza dell'Adriatics hai anche creato il festival di Comeglians. Ci puoi chiarire la genesi, la filosofia, le caratteristiche di questo appuntamento festivaliero?
D.D.: Il piccolo festival è nato nel 2006 e si svolge nell'arco di una giornata: l'orchestra si divide in due gruppi, per un concerto alla mattina ed uno al pomeriggio, poi alla sera si riunisce con tutti i musicisti. L'idea è quella di coniugare musica e natura in un luogo come il paese di Comeglians, nelle Alpi Carniche, in Friuli. Il pubblico si sposta a piedi nei borghi del paese, si può godere un concerto nell'antica pieve, oppure, come capitò nella passata edizione, un concerto a duemila metri d'altezza, sulle sponde di un laghetto alpino con flora e fauna endemica. Nelle precedenti edizioni abbiamo organizzato anche delle mostre con opere di Roberto Masotti, una tavola rotonda su Arte e Natura e altre iniziative collaterali. Non abbiamo fondi pubblici, solo sponsor privati. Tutti i concerti sono a ingresso gratuito.
AAJ: Cosa ci puoi anticipare sull'edizione di quest'anno?
D.D.: Ad ogni edizione porto nuova musica e scopriamo nuovi luoghi. Quest'anno, sabato 6 agosto, si susseguiranno una performance per musica e danza contemporanea nel bosco (alla mattina), un concerto per quintetto di fiati (nel pomeriggio); infine, alle ore 21, l'Adriatics Orchestra al completo presenterà il nuovo CD.
Foto di Claudio Casanova.
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