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I mondi sonori di Fulvio Sigurtà
ByNon ci sono più confini, questo è il messaggio.
Se c'è infatti a volte un po' di pigrizia nell'estendere il proprio sguardo oltre i confini locali, sia quelli geografici che quelli stilistici, si può probabilmente imputare a essa il tardivo riconoscimento di una personalità musicale che ci è sempre sembrata - sin da quando l'ho ascoltata in qualche disco di etichette come la Impossible Ark - dotata di una flessibilità assai più necessaria e contemporanea di molte altre, pur dotate, voci trombettistiche del nostro paese.
Ora, dopo tante collaborazioni [ricordiamo la presenza nella Unknown Rebel Band di Giovanni Guidi, nei Sousaphonix di Mauro Ottolini, nei Nostalgia 77 o nel quartetto di Enzo Pietropaoli] e alcuni progetti a proprio nome, Sigurtà trova nel basso di Andrea Lombardini e nella batteria di Alessandro Paternesi i vertici ideali del triangolo giusto per "fare la sua cosa," cioè un disco stilisticamente variegato e legato a modalità ritmiche più vicine a quelle dell'ambient rock che non al rassicurante ondeggiare di un piatto che swinga.
Pubblicato dalla CAM Jazz (come fu per il disco d'esordio House of Cards e per l'album in duo con Claudio Filippini Through the Journey), il disco si intitola SPL e ci racconta bene i mondi sonori del trombettista, grazie all'affiatamento tra i tre musicisti e anche l'apporto di ospiti come Michele Rabbia alle percussioni o Ross Stanley all'organo. L'occasione, quindi, era quella giusta per fare quattro chiacchiere con il musicista.
All About Jazz: Partiamo da SPL. Come nasce questo progetto e quali sono le coordinate - davvero molte, a giudicare dall'ascolto - che hai seguito nella costruzione di questo disco?
Fulvio Sigurtà: SPL è l'acronimo di "Sound Pressure Level" che si riferisce alla misura in decibel della pressione acustica. Inoltre esso comprende le iniziali dei componenti di questo trio: Sigurtà, Paternesi e Lombardini.
Nel disco poi ci sono anche un paio di ospiti illustri, Michele Rabbia, che con le sue percussioni e i suoi mille suoni ha dato ad alcuni pezzi un suono davvero unico, e poi Ross Stanley, compagno londinese di molte incisioni e concerti con il progetto Nostalgia 77, che ha impreziosito il tutto con il suo supporto armonico e solistico.
Per me questo disco è un vero e proprio "trip" attraverso ambienti e colori ma soprattutto è un intimo percorso di ricerca timbrica sullo strumento tromba, ricerca che non si limita al suono acustico, ma che si espande con l'utilizzo di tutta l'elettronica che è possibile oggigiorno.
I titoli dei brani credo che siano bene rappresentativi in questo lavoro e possano dare una prima chiave di lettura generale. L'idea è quella di portare l'ascoltatore in un immaginario laboratorio dove un alchimista dei suoni sperimenta e si sorprende man mano delle proprie scoperte. È un mondo dove i suoni acustici si scompongono in formule matematiche e si ricompongono con sembianze diverse senza perdere identità, ma acquisendone di nuove. Io mi vedo un po' come quell'alchimista sperimentatore che altro non ha se non l'urgenza interiore di continuare a esplorare per sentirsi parte dell'attimo che sta vivendo.
AAJ: Quali problematiche presenta l'innesto di linguaggi differenti in un progetto comunque di matrice jazz?
F.S.: Innanzitutto credo fortemente che non spetti a me catalogare la mia musica e quando scrivo o penso ad un progetto musicale cerco di non farmi influenzare dalle etichette, mi concentro su quello che è il messaggio o il senso estetico e cerco di produrre musica che mi rappresenti il più possibile. Il pubblico percepisce sempre l'autenticità e la veridicità di un'opera. Poi può piacere o meno, ma l'importante per me è che la musica che sto facendo in quel momento mi rappresenti e che al suo interno sia leggibile un messaggio o un'emozione. In un certo modo, se vogliamo analizzare il lavoro da un punto di vista stilistico, credo che emergano delle ritmiche da rock ballad che fanno da comune denominatore, ma non appaiono quasi mai dall'inizio del pezzo, vanno scoperte. Poi il jazz, nella sua accezione improvvisativa e armonica, ma mai in questo disco per la sua accezione ritmica. Poi la musica elettronica, un pizzico di fusion, una spolverata di dub, molto rock progressivo. Non ci sono più confini, questo è il messaggio.
AAJ: In alcuni momenti il lavoro mi ha riportato alla mente (con le dovute differenze) il trio di Cuong Vu, quello che incise lo splendido Come Play With Me. Conosci la musica di Cuong? Già che stiamo parlando di trombettisti, quali sono i tuoi riferimenti classici e quali i colleghi di strumento che oggi ti sembrano più stimolanti?
F.S.: Sì, conosco molto bene Cuong e mi piace moltissimo, soprattutto mi è rimasto nel cuore quel trio, che ho sentito dal vivo in più occasioni. Non direi che lui, sebbene mi abbia influenzato molto, sia un mio riferimento per questo lavoro, in cui ho presente più il lavoro di Jon Hassell. Trombettisti che mi ispirano ce ne sarebbero troppi, ne cito solo due meno scontati: uno del passato, Woody Shaw, e uno contemporaneo, Ambrose Akinmusire.
AAJ: Sei molto attivo sulla scena inglese, con collaborazioni anche in progetti di etichette come la Tru Thoughts o la Impossible Ark. Ci racconti brevemente qualcosa di queste esperienze e come queste influiscono sulla tua concezione musicale?
F.S.: Sono residente a Londra ormai da molti anni e le esperienze fatte in Inghilterra sono svariate, soprattutto in studio di registrazione. Attualmente sto collaborando al nuovo ottetto di Keith Tippett per quanto riguarda la musica improvvisata, ma ho finito di recente le registrazioni dei dischi di Jamie Cullum e Mayra Andrade che usciranno l'anno prossimo. Mi piace poter essere flessibile e poter dare il mio piccolo contributo sonoro a progetti diversi tra loro. Lo trovo un arricchimento e un allargamento degli orizzonti. Forse questa mia necessità di rompere le barriere di genere arriva proprio dall'insieme di tutte queste mie esperienze. Italia e Inghilterra sono molto diverse culturalmente ed il bello è potersi fondere con le diverse culture mantenendo la propria identità e non sentire l'esigenza di qualcosa di inglese in Italia o viceversa. Sta all'individuo sentirsi a casa ovunque, ed è un lavoro duro...
AAJ: Nel 2011 hai vinto come miglior nuovo talento il Top Jazz. Al di là del riconoscimento, questo ha cambiato qualcosa nella tua carriera (in termini di visibilità, ingaggi, opportunità) oppure no?
F.S.: In effetti quel premio è stato una bella soddisfazione personale e il fatto che quel riconoscimento arriva da un pool di giornalisti e critici che operano attivamente nel settore è stato molto gratificante.
Dal lato pratico invece nulla è cambiato: non che avessi particolari aspettative, ma il numero dei concerti è rimasto immutato così come le collaborazioni. È stato comunque un momento di riflessione importante sulla mia carriera, sulle prospettive di lavoro in Italia e sul sistema di informazione legato a questo settore.
AAJ: Quali sono i tuoi prossimi progetti?
F.S.: Per quanto riguarda il live, spero di riuscire a portare in giro questo nuovo SPL il più possibile, perché è un progetto che mi è molto caro e che dal vivo ha un impatto molto forte.
Sul fronte discografico le idee sono molte ma la più urgente è un disco di ballad, magari in quartetto. Ci sto ragionando da un po' anche con la mia etichetta discografica, la CAM Jazz, che mi supporta e che si dimostra sempre molto entusiasta. Vorrei fare un disco poetico e sognante. Ma, ripeto, di idee ce ne sono molte...
Foto di Davide Susa (la prima), Andrea Boccalini (la seconda), Danilo Codazzi (la terza e la quarta).
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