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I mille volti di Jon Irabagon
ByTrovo stimolante portare avanti la mia carriera di musicista mainstream senza sacrificare gli aspetti piu' avant, e viceversa
Nulla in confronto alla fama e alla visibilità acquisite dopo il fatidico 28 ottobre 2008, ovvero il giorno che lo ha visto primeggiare nella 21esima edizione della «Thelonious Monk Jazz Competition», uno dei più importanti concorsi per nuovi talenti in ambito jazzistico [vinto in passato da gente come Joshua Redman e Jacky Terrasson]. Incoronato da una giuria stellare che allineava, tra gli altri, Jimmy Heath, David Sanchez, Wayne Shorter, Jane Ira Bloom e Greg Osby, Irabagon si è messo in tasca 20mila dollari e la possibilità di pubblicare un disco con una major, la Concord.
Il disco, registrato negli studi del leggendario tecnico del suono Rudy Van Gelder, è da poco disponibile sugli scaffali dei negozi e s'intitola The Observer. Ad accompagnare il ragazzo di Chicago un terzetto di autentici pesi massimi del mainstream: Kenny Barron al pianoforte, Rufus Reid al contrabbasso e Victor Lewis alla batteria, per un'ora di jazz in frac e cilindro, swingante alla «vecchia maniera» nonostante i pezzi siano quasi tutti a firma di Irabagon.
Di tutt'altro genere I Don't Hear Nothin' But the Blues, lavoro in duo con il batterista Mike Pride, una sferzata di avant irriverente e caustico figlio della nuova scena newyorchese. Insomma, due dischi diversissimi, distanti anni luce: ma come si fa a far convivere l'anima più classicamente mainstream del jazz con la più feroce musica di frontiera? Come si fa a passare da Kevin Shea a Victor Lewis senza restare fulminati? Problemi di schizofrenia nessuno? Lo abbiamo chiesto al diretto interessato.
All About Jazz: Un disco come The Observer, conoscendo i tuoi trascorsi e il tuo pedigree, francamente non me l'aspettavo. Com'è stato registrare per la Concord, nello studio di Rudy Van Gelder, con mostri sacri come Kenny Barron e Rufus Reid, in un contesto puramente mainstream?
Jon Irabagon: In realtà nella mia carriera mi è capitato spesso di suonare in band piuttosto tradizionaliste e ancora oggi suono in contesti mainstream. Per quel che riguarda il confronto con i musicisti che hai citato, entrare in studio e registrare i miei pezzi con queste leggende viventi non avrebbe potuto essere più semplice e naturale: è stata una session molto rilassata. E poi si tratta di persone splendide, che hanno reso la lavorazione del disco un'esperienza indimenticabile. Rispetto alle cose più avant cambia solo l'atteggiamento mentale, come se il cervello fosse settato su parametri diversi. Trovo stimolante portare avanti la mia carriera di musicista mainstream senza sacrificare gli aspetti più avant, e viceversa.
Dal mio punto di vista non si tratta di due piani separati, ma c'è un sacco di gente che si chiede come possa piacermi allo stesso tempo suonare standards e dedicarmi al free-noise più estremo. Credo che questo disco uscito per la Concord sia la dimostrazione che si possano fare bene entrambe le cose, che possa essere stimolante allo stesso modo suonare mainstream e free, traendo il massimo del beneficio e dell'arricchimento personale da entrambi i contesti.
AAJ: Come hai scelto i musicisti? Ti sono stati suggeriti dalla Concord o si è trattato di una tua libera scelta?
J.I.: Si è deciso di coinvolgere Barron, Reid e Lewis dopo averne discusso con la Concord, direi di comune accordo. Con Rufus Reid avevo già suonato in passato e quando si è trattato di scegliere il bassista ho proposto subito la sua candidatura. Mi piacciono l'energia e la convinzione che mette in ogni situazione. Il resto della band è stato scelto perchè volevo una sezione ritmica affiatata, per avere un alto livello di coesione tra i musicisti. È stato un grande onore registrare con questi splendidi artisti.
AAJ: Insomma, nessun obbligo o imposizione. Nemmeno per quel che riguarda il canone del disco?
J.I.: Assolutamente no. Avevo già deciso che il mio terzo disco, indipendentemente dalla vittoria nella «Thelonious Monk Jazz Competition» e dal contratto con la Concord, sarebbe stato più mainstream rispetto ai precedenti. Nei primi due lavori ho esplorato altri ambiti musicali e così mi sembrava giusto dare spazio al mio lato più "jazz," se così possiamo dire, sia come compositore che come musicista. Registrare per la Concord è stata un'esperienza meravigliosa sotto molti punti di vista. Senza di loro non avrei mai potuto permettermi il lusso di entrare in studio con gente del calibro di Barron, Reid e Lewis, per non parlare della possibilità di registrare con Rudy Van Gelder: un sogno.
Alzare gli occhi e vederlo dietro al vetro mentre suonavo è stato fantastico. È un uomo semplice e generoso. E poi è un autentico mago nel suo mestiere. Inoltre, devo dire che rapportarmi con una major mi ha insegnato molto sul music business e su certi aspetti della produzione discografica di alto profilo.
AAJ. In scaletta, oltre alle tue composizioni, c'è una splendida rilettura di "Barfly" di Elmo Hope, in duo con Bertha Hope, moglie di Elmo e a sua volta apprezzata pianista. Come è nata l'idea del duetto?
Ho conosciuto Bertha a New York, durante un omaggio a Elmo Hope al Jazz Standard. È una pianista molto particolare, che possiede una concezione melodica unica. Sapevo che volevo una ballad firmata da Elmo Hope nel mio nuovo disco e lei era la persona giusta con la quale suonarla. Abbiamo fatto solo un paio di take in studio, ma lei ha suonato talmente bene in entrambe che è stata una faticaccia scegliere quale delle due inserire nel disco.
AAJ: Domanda a bruciapelo: è cambiata la tua vita da quando hai vinto la «Thelonious Monk Jazz Competition»?
J.I.: Risposta a bruciapelo: si. Devo ammettere che ho notato una certa accelerazione nella mia carriera, se non altro in fatto di visibilità.
AAJ: A conferma del tuo eclettismo, negli stessi giorni in cui è uscito The Observer, nei negozi è arrivato anche il tuo lavoro in duo con Mike Pride, disco di tutt'altro genere.
J.I.: I Don't Hear Nothin' But the Blues è una specie di omaggio all'era dell'iPod. Viviamo in un'epoca in cui ognuno può accedere a qualsiasi tipo di musica in qualsiasi momento. Si tratta di un fenomeno tipico dei giorni nostri, sconosciuto alle generazioni precedenti. Io e Mike abbiamo cercato di rendere questo concetto musicalmente. Abbiamo mischiato e ricombinato generi diversi, sensazioni diverse, frasi più o meno familiari che ci giravano in testa e che facevano parte del nostro bagaglio di musicisti. Una sorta di flusso di coscienza. Abbiamo suonato ininterrottamente per circa 50 minuti. È stata un'esperienza stimolante e devo dire anche provante, sia dal punto di vista mentale che fisico.
AAJ: Per chi scrive, i Mostly Other People Do the Killing sono state una delle più belle scoperte degli ultimi due anni. So che state per far uscire il vostro quarto disco: puoi darci qualche anticipazione?
J.I.: Uscirà a gennaio e si intitolerà Forty Fort. La band è in continua evoluzione, siamo un gruppo in divenire, che cerca sempre di andare oltre. Nel nuovo disco abbiamo cercato di aggiungere nuovi dettagli alla nostra poetica, spaziando in generi e sottogeneri che non avevamo mai frequentando, ricorrendo a qualche tocco di elettronica e cercando di spiazzare l'ascoltatore con improvvisi cambi di velocità e salti da un brano all'altro.
AAJ: Chiusura di rito: progetti futuri?
J.I.: A breve c'è in programma un tour con i Mostly Other People Do the Killing. L'abbiamo preparato a lungo e non vediamo l'ora di iniziarlo. Inoltre, credo che farò qualche data per promuovere The Observer. E poi sono stato coinvolto di recente in progetti di altri, in particolare con Brandon Lee e Mary Halvorson. Ci sono anche un altro paio di idee che mi ronzano in testa. Vedremo. Quello che veramente mi auguro per il futuro è di poter continuare a suonare e imparare sempre qualcosa di nuovo dalle persone e dai musicisti che incontro ogni giorno.
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