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Giovanni Maier e Zlatko Kaučič: intervista sull'Orchestra Senza Confini

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L'Orchestra Senza Confini è un ensemble ampio (nel disco che la documenta consta di diciassette elementi), con musicisti provenienti dal Friuli Venezia Giulia e dalla Slovenia. Suddivisa in due sezioni, è diretta con una conduction doppia e contemporanea da Giovanni Maier e Zlatko Kaucic. L'iniziativa, in sé molto originale, ha anche esiti entusiasmanti sia dal vivo (clicca qui per leggere la recensione del concerto durante il quale è stato inciso il CD), sia su disco (clicca qui per leggerne la recensione): un caleidoscopio di suoni ed espressioni sempre cangianti, capace tuttavia di conservare sempre coerenza e fruibilità, facilitate dalla gestualità dei due direttori, che si scambiano le "sezioni" più volte in corso d'opera. Ne abbiamo parlato con gli artefici dopo il concerto durante il quale è stato realizzato il disco.

All About Jazz Italia: Come nasce l'Orchestra Senza Confini?
Giovanni Maier: Dalla collaborazione tra due poli musicali, uno di qua e l'altro di là dalla linea che separa Italia e Slovenia. Per la parte italiana il polo è Dobialab di Staranzano, vicino a Gorizia, un centro di aggregazione che funziona da vent'anni ma cresciuto recentemente grazie ad alcuni giovani musicisti e che ha creato una propria orchestra, la Dob Orchestra. L'altro polo, quello sloveno, è costituito dalla scuola di musica di Nova Gorica condotta da Zlatko Kaucic. Quattro anni fa, in occasione della prima edizione del festival di musica improvvisata di Šmartno, abbiamo pensato di unire le forze in una sola orchestra, appunto "senza confini."
Zlatko Kaucic: Vorrei precisare che quando nel 2011 si è creata l'orchestra ero molto dispiaciuto per la passività dei musicisti delle due parti del confine: da entrambi i lati si facevano molte cose, ma non si tentava mai un avvicinamento, un lavoro comune. Era come se fossero rimasti immutati gli equilibri geopolitici del passato, dell'epoca di Tito, che avevano creato una distanza tra due zone invece contigue tanto geograficamente, quanto culturalmente. Ne abbiamo parlato a lungo con Giovanni, condividendo l'idea che, dopo tanti anni dalla caduta del muro di Berlino, fosse giunta l'ora di fare qualcosa che abbattesse anche gli steccati artistici. L'abbiamo fatto approfittando della nascita di questo festival, che ho iniziato a organizzare grazie a dei finanziamenti legati all'onoreficenza che ho ricevuto sei anni fa dallo Stato sloveno. Ne è nata un'esperienza che va oltre la stessa orchestra, perché ha permesso ai musicisti diversi di incontrarsi, conoscersi, fare amicizia, scambiarsi idee, suonare assieme anche in altri contesti.

AAJI: In questi anni quante occasioni avete avuto di suonare con l'Orchestra Senza Confini?
G.M.: In tutte le prime quattro edizioni di questo festival, poi alcune uscite in Italia, a Dobia, più il primo concerto in questa forma, con la doppia conduction, a Staranzano. Va detto che non è facile trovare occasioni, perché i musicisti sono tanti e quindi il costo è inevitabilmente alto. E oggi è diventato difficile anche suonare in duo...

AAJI: La doppia conduction, assieme alla separazione dell'organico in due parti -sebbene mischiate dal punto di vista sia "nazionale," sia timbrico -è la caratteristica dell'orchestra in quest'ultima sua versione. È un'idea originale e -anche alla luce dei risultati che si sono potuti ascoltare -molto intrigante. Come siete arrivati a pensarla?
Z.K.: L'idea è venuta a me, quasi per caso. L'orchestra ha finora avuto tre grandi maestri, che si sono avvicendati nelle edizioni del festival e ne hanno diretto i concerti: Evan Parker, Johannes Bauer ed Ab Baars. A un certo punto abbiamo pensato di cambiare e di guidarla noi stessi. Già qualche anno fa, in occasione di una collaborazione con la cantante Saadet Türköz, avevamo diretto l'orchestra "a turno," alternandoci nello stesso concerto; sviluppando quell'idea mi è venuto in mente di dirigerla assieme, una forma di conduction che credo non abbia tentato nessuno -o, forse, una volta Anthony Braxton. Finora abbiamo fatto solo due concerti in questa forma [dopo questa intervista ne se sono stati fatti altri, N.d.R.], sempre completamente improvvisati, ma abbiamo subito scoperto un sacco di possibilità: timbriche, tematiche, strutturali. Per chi conduce la sfida è forte, perché devi ascoltare ancora di più che se tu conducessi da solo: oltre a dirigere i musicisti, c'è da interagire con quel che sta facendo il tuo compagno. È dura, ma gli stimoli e le possibilità si moltiplicano, il tempo passa velocissimo e ti senti come un bambino con i giocattoli: li metti insieme come il Lego, è divertentissimo e molto bello.
G.M.: Io l'ho vissuta un po' come se fosse quasi un concerto in duo, solo che ciascuno di noi aveva a disposizione uno strumento molto potente e complesso, che spesso va per conto suo, quindi difficile da controllare e che richiede attenzione a mille dettagli. Mi pare che nei due concerti che abbiamo fatto il lavoro fosse già molto buono, tuttavia penso che ci siano ancora ampi margini di miglioramento: è una cosa nuova, almeno per noi, molto difficile, ma molto stimolante.

AAJI: In effetti anche all'ascolto si aveva l'impressione di un concerto in duo! Ma cosa c'è di preparato e cosa di improvvisato?
G.M.: Per quanto mi riguarda non avevo preparato nulla di specifico per le performances, ma ci avevo pensato molto. Anche perché nel mio lavoro in conservatorio, ove ho a che fare pure con musicisti classici, sono anni che penso al tema della conduction e dell'improvvisazione per grandi organici. Quindi per me questo è un lavoro costante "a casa": ascolti e riflessioni mirate a capire come si può fare in modo che un'orchestra che improvvisa non produca un risultato cacofonico.

AAJI: Era quindi una preparazione esclusivamente personale, non avete provato niente?
G.M.: No, non abbiamo provato nulla in nessuno dei due concerti. Per me in formazioni così ampie è importante soprattutto tener sempre a mente i concetti di "figura" e di "sfondo," derivati dall'arte pittorica: saper sempre chi sta facendo la figura principale del quadro -chi sta disegnando la Gioconda -e chi si occupa dello sfondo -chi disegna alberi, fiori e uccelli. Se si perde di vista questo, per me è molto difficile capire cosa si sta facendo. Sicuramente per Zlatko sarà una cosa diversa.
Z.K.: Io non ho proprio pensato a niente, se non ai musicisti, perché li conosco, so come suonano e dove si dirigono nella musica. A parte questo, anch'io ho concepito la cosa più che altro come un duetto. E anche come una pentola nella quale cuociono molte cose, dalla quale prendi quello che ti serve di più. Poi, alla fine dei concerti, qualcuno mi ha chiesto se non fosse il caso di scrivere delle parti; ecco, solo allora ho cominciato a pensare: ma se scriviamo le parti verrà così bello? Non c'è già tutto nel solo incontro istantaneo di due persone che si conoscono bene, due "guerrieri" della musica, come me e Giovanni?

AAJI: Come dirigete questi due "strumenti complessi"?
G.M.: È bello anche il fatto che abbiamo usato sistemi diversi per dirigere, cosa che ha accresciuto la varietà della musica. Io ho usato principalmente una lavagnetta, dove scrivevo indicazioni per i musicisti: potevano essere rivolte a uno solo, a un gruppetto o a tutta la sezione. Inoltre ho usato anche alcune forme gestuali più tipiche delle conductions.

AAJI: C'erano accordi sui segni?
G.M.: No, non c'è neppure stato il tempo per farlo, per cui ci siamo limitati all'uso di cose molto semplici e intuitive. Del resto conosciamo molto bene i musicisti e sapevamo cosa poter usare.
Z.K.: Io ho usato solo gestualità, pensando che l'unica cosa importante fosse respirare assieme, senza soffocare la spontaneità. Nel primo concerto sono stato più direttivo, cercavo di ottenere alcuni risultati, mentre nel secondo ho lasciato che i musicisti sentissero di più la profondità di certi momenti, così da lasciarli liberi di esprimersi. Proprio ciò che scrivendo le parti non è più possibile. Io scrivo, prendo spesso spunto dalla musica tradizionale slovena, vengono fuori cose anche molto belle, ma questa cosa "vergine" qui è un'altra storia.
G.M.: Anch'io penso che sia giusto lasciare che le cose si evolvano naturalmente, spontaneamente. Perciò è importante avere molto equilibrio nella conduction: senza essere troppo pressanti, per evitare che si trasformi tutto in una cosa calata dall'alto, ma anche dando un senso compiuto a quello che via via viene fuori. Io vedo la conduction un po' come se i musicisti fossero un gregge di pecore e noi due i cani che le tengono raggruppate, senza però abbaiare troppo. D'altronde per me l'orchestra è anche un esperimento sociale: riuscire a far sì che ciascuno nel gruppo sia contento, senza che però nessuno nuoccia alla serenità degli altri.

Foto
Luca D'Agostino (Phocus Agency).

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