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Giovanni Guidi - il momento della rinascita

Giovanni Guidi - il momento della rinascita

Courtesy Roberto Cifarelli

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Nato a Foligno nel febbraio 1985, l'ancor giovane pianista Giovanni Guidi ha cominciato presto a mettersi in luce nel panorama del jazz italiano, divenendone uno dei più interessanti enfant prodige. Tomorrow Never Knows, il suo primo CD da leader destinato al mercato giapponese, risale al 2006, anno in cui fu inciso e pubblicato. Più o meno contemporaneamente, dopo aver seguito i corsi di Siena Jazz dove insegnava Enrico Rava, è stato invitato da quest'ultimo a far parte del suo gruppo Under 21, e da allora non ha mai smesso di collaborare con il grande trombettista. Nel 2007 ha vinto il Top Jazz del mensile Musica Jazz nella categoria nuovi talenti.

Dopo le folgoranti esperienze d'esordio, si sono susseguite nel tempo le numerose collaborazioni con artisti prestigiosi, le incisioni e le tournée, la leadership di diversi gruppi, che includevano anche grandi nomi del jazz internazionale, la direzione artistica del festival Young Jazz di Foligno.

Lo scopo di questa intervista non è però quello di ripercorrere i momenti salienti della sua intensa carriera, bensì quello di concentrarci sulla più stretta attualità, sugli avvenimenti che hanno caratterizzato, fra situazioni di dolore e di speranza, quest'ultimo anno e mezzo: il vuoto lasciato dalla scomparsa del padre Mario, noto manager del settore, la situazione pandemica che stiamo tutti vivendo e soprattutto la volontà di reagire e le prospettive della sua attività musicale per il prossimo futuro. In particolare ci siamo concentrati sulle motivazioni che di recente lo hanno spinto a creare due nuove straordinarie formazioni: un quintetto di giovani italiani, Little Italy, e un sestetto "americano," Ojos de Gato dedicato a Gato Barbieri, senza per altro perdere l'occasione di parlare anche di altri sodalizi che stanno molto a cuore al pianista umbro.

All About Jazz: Poco più di un anno fa ci ha lasciati Mario, tuo padre, a cui tu eri molto legato. Quale eredità ti ha lasciato a livello musicale, professionale ed etico?

Giovanni Guidi: Sinceramente ancora non credo di essere in grado di valutare queste cose come se le vedessi dall'esterno. Anzi, in tutta franchezza ammetto di essere ancora nel pieno del percorso della cosiddetta elaborazione del lutto. Sicuramente le eredità sono molte e su tutti i piani, ma ancora non riesco probabilmente a pensare che la vita mi abbia messo nella posizione di dover parlare di "eredità" quando penso a papà.

AAJ: Il live For Mario in trio con Rava ed Herbert, uscito in digitale a metà 2020 pur essendo stato registrato nel 2016, ha costituito un riuscito omaggio postumo, riscontrando un buon successo...

GG: L'idea è stata di Matthew. Anche se venivano da mondi così lontani e differenti, proprio per la dedizione alla musica che li accomuna, Rava ed Herbert si sono subito piaciuti moltissimo e tra loro è nato un legame importante. Ovviamente quando ci è stato proposto sia io che Enrico ne siamo stati felici.

AAJ: Per quanto ti riguarda, il lungo periodo di reclusione imposto dal Covid ha comportato solo limitazioni, incertezze e disoccupazione forzata o anche insospettate opportunità?

GG: Paradossalmente non sapendo ancora quando questo periodo finirà veramente, è ancora difficile fare una valutazione definitiva di ciò che questo momento ha rappresentato e rappresenterà nelle nostre vite. Per quanto mi riguarda nel primo lockdown mi sono buttato completamente sulle tanto discusse dirette streaming. Il vero motivo per cui l'ho fatto è stato quello di avere la certezza che altrimenti, conoscendo il mio carattere, avrei rischiato di allontanarmi troppo dalla musica, dallo studio e dalla pratica del pianoforte. In questo modo, organizzando un "digital tour," mi sono preso l'impegno per tantissimi concerti, che facevo da casa mia intervenendo in tanti festival attraverso le loro pagine; paradossalmente ho lavorato quasi come non mai in vita mia. Dico "lavorato," anche se in realtà si è trattato di concerti fatti quasi tutti gratuitamente o con lo scopo di raccogliere fondi per beneficenza. Inoltre, e dico questo senza nessuna vergogna, questi concerti hanno nutrito il mio narcisismo e il mio bisogno di essere su un palco... anche se virtuale.

AAJ: E che riscontri hai avuto da questa attività concertistica a distanza?

GG: La cosa più bella è che dopo un po' ho stabilito tantissime relazioni con un pubblico che era molto lontano dal jazz e anche dalla musica; il che mi ha anche in un certo senso imposto la necessità di comunicare attraverso un repertorio differente dal mio solito, prediligendo quindi canzoni, soprattutto italiane, che in realtà non avevo mai frequentato. Piano piano sono arrivate tante lettere e mail commoventi di persone che mi dicevano che per loro la mia musica era un aiuto importante, rappresentando uno dei pochi momenti in cui riuscivano a sognare e a uscire da una realtà che si faceva sempre più pesante e stressante.

AAJ: È indubbio che tutti noi (musicisti, organizzatori, appassionati, pubblico...) sentiamo una grande esigenza di musica dal vivo, pur con le opportune attenzioni. Cosa ci puoi dire sui tuoi ingaggi per il prossimo futuro, norme permettendo?

GG: Per il futuro sono felicissimo: ho già in programma moltissimi concerti e per questo colgo l'occasione di ringraziare la mia nuova agenzia, che è Tema di Enrico Iubatti e Andrea Scaccia. Sotto questo punto di vista non posso che esprimere enorme gioia e soddisfazione.

AAJ: La sera prima che venissero impediti tutti gli spettacoli dal vivo, alla fine di ottobre il tuo recente gruppo "giovane," Little Italy, ha chiuso il festival di Cormons. Purtroppo io non ero presente, ma mi hanno riferito che è stato un concerto emozionante, pieno di pathos...

GG: È stato veramente emozionante sia per noi che per il pubblico perché tutti sapevamo che stavamo condividendo un'esperienza che per un po' avremmo dovuto abbandonare. Non a caso ad oggi quello è ancora il mio ultimo concerto ma, come dissi proprio quella sera alla fine del concerto, se questo sacrificio sarà servito a impedire di vedere ancora i camion dell'esercito che trasportano centinaia di bare, allora questo sarà stato il sacrificio più bello della mia vita.

AAJ: Possiamo approfondire la genesi di questo gruppo? Quando è nato e con che obiettivi? Qual è il suo organico e il suo repertorio?

GG: Il gruppo è nato sempre in questo contesto di cambiamento, direi radicale, della mia vita. Mi sono reso conto che negli ultimi anni avevo suonato unicamente con musicisti più grandi di me e per la gran parte non italiani. Così una sera parlandone a casa di Dan Kinzelman decisi di fare un gruppo con dei giovani jazzisti italiani. Per prima cosa optai per una formazione non convenzionale e, senza neanche pensarci troppo, decisi di fare questo quintetto con due chitarre e due batterie. A quel punto mi sono messo a cercare i musicisti più adatti per questo progetto; devo dire che ci ho messo poco a trovarli e ora sono felice quasi come non mai di questa band. I chitarristi sono Stefano Carbonelli e Nicolò Faraglia e i batteristi Federico Negri e Giovanni Iacovella. Vi garantisco che presto sentirete parlare di loro moltissimo. Potrei non finire mai di parlare di ognuno di loro, ma scelgo di considerare Little Italy come una band, con un suono unico e una musica che non si può raccontare attraverso i singoli, ma solo come un organismo autonomo con una vita propria. I brani che suoniamo sono una mia suite che racconta un viaggio immaginario fatto insieme a migranti italiani di tante epoche diverse, che si incontreranno con altrettanti migranti provenienti da tutto il mondo. Ovviamente il luogo d'incontro non potrà che essere il mare.

AAJ: Contemporaneamente hai creato un nuovo gruppo "americano," con un corposo repertorio dedicato a Gato Barbieri, del quale fai rivivere il grande lirismo. Ci puoi parlare di questo progetto?

GG: Questa è stata l'ultima cosa che ho concepito insieme a papà. In realtà l'idea è nata anche insieme a Laura Barbieri (la moglie di Gato) con la quale abbiamo un rapporto di amicizia molto stretto e intenso. È un gruppo che ho messo insieme pensando unicamente all'approccio e al suono che desideravo ottenere, qualcosa di molto ritmico e allo stesso tempo fluido e in un certo senso astratto. Questo gruppo mi ha aiutato a liberare la mia parte più vitale, energica e anche gioiosa. Ovviamente sempre pensando a Gato e al suo suono, che per me resta ancora il più intenso e profondo che abbia mai ascoltato.

AAJ: Parlami in particolare di questa formazione da sogno.

GG: James Brandon Lewis al tenore è un musicista magnifico, che è riuscito a dare alla mia musica dei colori che forse immaginavo, ma che non erano mai stati così evidenti e caratterizzanti fino al punto di portarla in luoghi a me sconosciuti. Al trombone ho inserito Gianluca Petrella, che per me è tantissime cose: certamente una delle persone più importanti e significative della mia vita. Come musicista è inutile dire ancora una volta quello che tutti sappiamo: Gianluca è un genio. E penso di averne conosciuti in vita mia al massimo tre o quattro come lui. Brandon Lopez è un contrabbassista della scena alternativa newyorkese estremamente libero e capace di entrare negli ambienti più differenti con una naturalezza e una consapevolezza che definirei magiche, assolutamente vitali. Chad Taylor era uno dei miei sogni nel cassetto. Da sempre volevo suonare con lui e devo ammettere che la realtà è stata ancora più sconvolgente del sogno... Un vero gigante! Di Francisco Mela adoro il suo suono; è completamente connesso con la tradizione della batteria jazz e proprio per questo ne sa stravolgere i paradigmi e le convenzioni. Da quando abbiamo registrato siamo diventati molto amici e anche in questo periodo di pandemia spesso ci siamo sfogati l'uno con l'altro.

AAJ: Dai brani che mi hai fatto ascoltare in anteprima, sia di Little Italy sia di Ojos de Gato, ho rilevato che in entrambi i casi dai un ruolo importante alla sezione ritmica, in particolare ai batteristi (due in entrambi i gruppi).

GG: Questa è diventata un po' la mia ossessione. Non lo so ancora il perché, ma ho la necessità di questo motore costante che riesce a tramare per e contro la musica che suono. Scelgo le due batterie per contraddirmi e per trovare sempre quello che non stavo cercando.

AAJ: Inoltre, pur diversi nel sound e nell'impianto melodico-narrativo, ho avuto l'impressione che in entrambi i gruppi tu tenda a coordinare il tutto da vero leader, a fare un lavoro di tessitura del collettivo, piuttosto che emergere in una particolare funzione solistica. È così?

GG: In realtà è il modo in cui ora sento la musica e soprattutto il modo in cui la vivo: amo il collettivo e il senso di vivere collettivamente l'esperienza rituale che ogni volta si porta in scena o che comunque si svela verso qualcosa o qualcuno. Anche perché nel frattempo sto lavorando molto in duo con Luca Aquino o Daniele di Bonaventura, dove invece sono molto più coinvolto nel mio essere pianista. Poi c'è il piano solo, uno dei motivi per cui sono certo che non potrei e non vorrei mai un altro lavoro che non sia quello del pianista.

AAJ: Oltre alle previste edizioni discografiche di queste due nuove esperienze, in quintetto e in sestetto, è auspicabile che siano programmate prossime esibizioni dal vivo...

GG: Assolutamente sì. Le stiamo pianificando proprio in questi giorni. Per le esibizioni dal vivo, covid permettendo, questa estate si partirà con Ojos de Gato. Non vedo l'ora! Ma sono previsti anche tanti concerti di Little Italy, per esempio uno a Correggio in maggio.

AAJ: Da molti anni fai parte di varie formazioni di Enrico Rava. Quali sono le principali caratteristiche della sua leadership?

GG: Enrico è uno degli ultimi tra i grandissimi che hanno fatto la storia del jazz. E parlo a livello mondiale. Per me ogni concerto con lui è un dono unico e irripetibile. Nonostante lo conosca benissimo ed abbia suonato con lui più che con chiunque altro, non saprei definire esattamente le sue caratteristiche se non quelle evidenti. Perché con Enrico ogni volta è diverso e ogni volta, quando meno te lo aspetti, ti regala qualcosa di cui ti rendi conto che non avresti potuto farne a meno.

AAJ: Fra le altre esperienze del recente passato, è ancora attiva la collaborazione con Bearzatti e Bosso nel gruppo Brotherhood?

GG: Francesco Bearzatti e Fabrizio Bosso sono due fratelli per me. Ovviamente sono anche due dei musicisti più straordinari che abbiamo in Italia. Per ora con quel gruppo non ho niente in programma, perché tutti e tre abbiamo moltissime altre cose sulle quali in questo momento stiamo investendo più energie e creatività, perciò lo considererei in stand by. Di certo ti posso assicurare che sia con Francesco che con Fabrizio prima o poi rifaremo qualcosa. Non potrei mai pensare di non suonare con Fabrizio per più di qualche mese (mentre con Francesco ho molte altre cose che ci coinvolgono). Ogni volta Bosso riesce a fare qualcosa che non avrei immaginato si potesse suonare con un qualsiasi strumento; è una vera scuola questa per me. E umanamente parlando è una delle persone più preziose che abbia mai conosciuto da quando faccio questo lavoro. Di Francesco dico questo: ogni volta che compongo un nuovo brano, anche per una formazione che non lo vede presente, lo sento sempre suonare con il sound del suo sassofono. Ecco, il suo suono è il suono con cui innocentemente e liberamente ho sempre pensato e immaginato la mia musica.

AAJ: Come è emerso anche da questa intervista, sei molto attivo in diversi contesti, dal solo ai duo alle formazioni più ampie. Cosa ti sta a cuore aggiungere a quanto hai già detto?

GG: Come dicevo sopra i duo con Luca Aquino e con Daniele di Bonaventura mi stanno coinvolgendo e appassionando sempre di più. In questi due sodalizi, anche se con modalità diverse, faccio una delle cose più belle del mondo: mi siedo al piano e suono delle meravigliose canzoni. Tornando ad Enrico Rava posso dire solo questo: non so se riuscirei a vivere senza ascoltare il suo suono a pochi centimetri di distanza. Questo è uno dei più grandi doni che la vita mi ha dato: le note della sua tromba; solo e soltanto sue.

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