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Gaetano Partipilo: un musicista al posto giusto
ByAbbiamo raggiunto Partipilo per farci raccontare meglio questa nuova avventura musicale.
All About Jazz Italia: Partiamo dal tuo disco The Right Place: ci vuoi raccontare brevemente come sono nati i temi di questo disco e come si colloca nel tuo percorso espressivo?
Gaetano Partipilo: La musica di questo album è del 2005, anno molto intenso sotto tanti aspetti. Dal punto di vista compositivo ho scritto molto pensando ai progetti che avrei voluto realizzare. La musica per questo quintetto è stata pensata soprattutto in funzione del suono che avevo in mente.
Un progetto leggermente diverso da Urban Society ma con lo stesso approccio mentale. Diciamo una naturale prosecuzione.
AAJ: Come hai scelto i musicisti per questo progetto? Che fine ha fatto la Urban Society?
G.P.: L'idea di registrare a New York è un'idea che ho accarezzato per lungo tempo avendoci vissuto per un breve periodo. Ho sempre creduto che potesse essere un'esperienza importante e per certi versi formativa. Ho cominciato a ragionarci sul serio dopo un tour con Greg Osby (ospite di Urban Society) nell'estate 2005. Greg mi ha dato la spinta necessaria. Mi ha messo in contatto con Mike Moreno e Matt Brewer. Nasheet aveva già collaborato con me sia in studio che dal vivo e Roberto in quel periodo viveva lì. Con lui avevo già una bella intesa musicale nata durante la mia permanenza a Milano ed è stato naturale pensare a lui.
Con gli Urban Society suoniamo da oltre 6 anni. E' un gruppo che ha maturato una propria identità e per certi versi vive di luce propria. Per mettermi nuovamente in gioco avevo bisogno di mescolare le carte. E poi è molto importante sperimentare le proprie idee con gente diversa. Ti aiuta a capire meglio la tua musica.
AAJ: Personalmente trovo che l'utilizzo di due strumenti armonici come il pianoforte e la chitarra sia in qualche modo rischioso: se da un lato la scelta timbrica sembra più ampia, mi sembra [ma non mi riferisco solo al caso del disco, intendo in genere] che il suono complessivo del gruppo rischi di venire in un certo senso ricondotto a schemi più prevedibili, nei quali il maggiore spazio per gli assoli toglie efficacia e personalità ai temi. Qual è la tua opinione in questo senso?
G.P.: Ho sempre adorato il "conflitto" armonico. Certo è rischioso, ma quasi tutta la mia musica lo è. Voglio che sia così. C'è da dire, però, che in questo caso i due strumenti armonici sono più liberi di decidere cosa fare a seconda delle situazioni. Per quanto riguarda l'efficacia dei temi, credo che più che la scelta degli strumenti, sia importante l'arrangiamento delle singole voci, basso e batteria compresi. Io credo di essere molto puntiglioso su questo. A parte qualche song più semplice, scrivo perfettamente quello che voglio dai musicisti durante l'esposizione del tema. Per quanto riguarda lo sviluppo dei soli cerco di dare importanza alla costruzione collettiva. Anche quando il solista principale è un singolo, il gruppo interagisce di continuo dando imprevedibilità. Questo dal vivo è molto più evidente. E' una delle mie "regole" principali.
AAJ: Nelle inevitabili semplificazioni che spesso si fanno quando si cerca frettolosamente di inquadrare un musicista e il suo lavoro, la tua musica è stata spesso associata a quella dell'M-Base, quasi una sorta di "quarta via" italiana [poco battuta] rispetto a quelle del mainstream più trito, del jazz a forte coloritura folk/mediterranea o di quello di matrice più avanguardista. Ti va di raccontarci un po' il tuo rapporto con la musica dell'M-Base, quali sono le tue influenze, le tue ispirazioni, le tradizioni con cui maggiormente ti rapporti?
G.P.: Mi piace la parola "Quarta Via". Gurdjeff permettendo, questa è la via che ho sempre cercato. La via che mettesse in comunicazione tradizione ed avanguardia. Il movimento M-Base mi ha sempre stimolato per questo. Sentivo che Steve Coleman e compagnia avevano intrapreso una strada nuova, stavano portando la musica avanti, mai rinnegando la tradizione jazzistica afro-americana. Con Greg Osby ho avuto svariate occasioni di parlare della loro filosofia e del loro approccio mentale. Entrando nel "tecnico", una della cose che mi ha affascinato di quel movimento è stata soprattutto l'importanza del ritmo. La ricerca sulla varietà ritmica è un chiaro riferimento alla loro tradizione più antica, quella africana. Ascoltando alcune trame poliritmiche avevo l'impressione di trovarmi in uno stato emozionale particolare. L'altro elemento significativo era la concezione melodico-armonica decisamente più occidentale. L'importanza dei 12 semitoni sparsi senza alcun ordine gerarchico, le asimmetrie armoniche, l'utilizzo di raddoppi tematici ad un semitono di distanza. Insomma questo è quello che mi attraeva. Ho sempre sentito che quella era la "musica del futuro". Io, nel mio piccolo, cerco di assimilare tale lezione tenendo presente che le mie origini sono diverse dalle loro, quindi cerco di ragionare su concetti diversi con la medesima filosofia.
AAJ: Porterai in giro il repertorio del disco? Con questi musicisti? Siccome capita spesso [ed è oggettivamente un problema], che molti progetti e band rimangano poi confinati nello spazio di una - per quanto riuscita - registrazione, mentre i gruppi hanno bisogno di suonare molto assieme per crescere...
G.P.: Porterò in giro questo progetto a metà Novembre con parte del gruppo che ha inciso a New York. Ci saranno con me infatti Mike Moreno, Roberto Tarenzi, Mauro Gargano e Fabio Accardi. A marzo 2008 invece è in programma un giro di una decina di giorni con la "formazione originale".
Ad ogni modo, credo di aver sperimentato sulla mia pelle, che suonare molto con gli stessi musicisti produce risultati differenti. Positivi e negativi. A volte passare del tempo assieme aiuta a conoscersi ed a confrontarsi, non solo sulle scelte artistiche. Si crea affiatamento, si ottiene un preciso suono ed anche le soluzioni più difficili vengono meglio metabolizzate. Di negativo, però, c'è la componente "relax". Odio questa parola. Mi spiego meglio: un gruppo che ha 3, 4 o 5 anni di concerti alle spalle non è più motivato a provare... se non per registrare un nuovo disco. I brani vengono bene, ci si conosce a memoria. A volte si rischia di ripetersi nello sviluppo di un assolo o di un tema perchè ognuno sa in anticipo cosa farà l'altro. In poche parole non si rischia più. Senza accorgersene cambia l'approccio mentale alla musica. Questo non succede solo nella musica ma credo sia così per tutto. Con gli Urban Society abbiamo fatto concerti, o parti di esso, improvvisando dalla prima all'ultima nota. Abbiamo anche registrato in studio in questo modo. Era un modo per dimenticare tutti i nostri "patterns" e comporre tutti assieme come una sola mente. Era come spogliarsi davanti al pubblico e rischiare di fare brutte figure. L'approccio però è stato sempre quello giusto.
AAJ: Forse anche grazie a fattori geografici, alcuni musicisti [penso anche al tuo amico Gianluca Petrella] hanno contribuito con la loro bravura a progetti di elettronica e nu-jazz, che visti oggi con uno sguardo un po' disincantato, al di là del piacere di un ascolto leggero, non sono tutti memorabili. Quanto pensi che la scena nu-jazz abbia contribuito o possa contribuire a fare crescere un pubblico anche per progetti più impegnativi?
G.P.: Obiettivamente non conosco molto la parola nu-jazz. Reputo Gianluca un grande musicista indistintamente dalle sue scelte stilistiche. Se per nu-jazz si intende il jazz con una matrice più elettronica allora ti dico che è una delle strade del futuro. Non credo comunque che possa contribuire a "catturare" orecchie distratte. Il discorso è che la gran parte della gente usa la musica per svago, per rilassarsi, per bere una birra. Ha bisogno di musica comunque "poco impegnativa" che non richieda molta concentrazione. Quindi potrei affermare che un certo tipo di jazz potrebbe essere fruibile da un pubblico più numeroso ma non "prepararlo" a progetti più impegnativi.
Per quello credo che debba cambiare ciò che un ascoltatore "chiede" alla musica. Ci sarebbe bisogno di una piccola rivoluzione culturale, molto difficile per i tempi che corrono.
AAJ: Quali sono i tuoi prossimi progetti?
G.P.: Sto valutando seriamente l'idea di registrare della musica con dei rapper. Mi piacerebbe lavorare molto su una possibile sintesi tra beat anni '70 e concezioni melodiche-armoniche contemporanee.
Questa formula mi incuriosisce molto e potrebbe essere un ottimo veicolo per trasformare in musica i concetti compositivi che sto elaborando in questo momento. Un altro progetto che mi sta a cuore è quello di allargare gli Urban Society ad una formazione di 10-12 elementi con l'aggiunta di altri due fiati, strumenti ad arco, dj, e voci. In realtà la musica per questo progetto è quasi pronta ma ovviamente si tratterebbe di una produzione originale costosa che potrei realizzare solo in concomitanza di un festival o di una rassegna importante.
AAJ: Cosa "gira" attualmente nell'i-pod di Gaetano Partipilo?
G.P.: Nel mio iPod girano quasi 30Gb di musica in maniera abbastanza casuale. Così facendo evito ogni sorta di pregiudizio che molto spesso accompagna la scelta di un disco o di un artista a scapito di un altro. Ad ogni modo la mia attenzione, ultimamente, si è fermata su artisti come Gil Scott Heron, Gary McFarland, Medeski, Martin & Wood, il disco Fly di Mark Turner, Larry Grenadier e Jeff Ballard, due dischi introvabili di Pharoah Sanders, Elevation e Love in Us All e i dischi degli anni '70 di Gary Bartz come Ju Ju Street Song.
Foto di Ghigo Romito (la prima)
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