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Fred Frith & Arte Quartett

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Still/Urban

Area Sismica - Forlì - 13.01.2007

Acquattata in solitudine nell’oscurità, nascosta in fondo a una serie di curve tutte uguali e diluita in una nebbia appiccicosa l’Area Sismica non è esattamente un luogo facile da raggiungere... si perdono persino i musicisti!

Ma è un nido talmente delizioso e confortevole, dall’atmosfera dadaista retro-romagnola, che chiusa nebbia, oscurità e curve sghembe alle spalle ci si sente a casa; di rientro la sera, dopo il lavoro, con il relax come unica prospettiva.

Niente di tellurico, insomma. La scossa è solo quella di una programmazione musicale (ma non solo) ben desta, tarata su proposte avanzate ma in grado di richiamare un pubblico folto e attento. Come nel caso dell’unica data di Fred Frith, che con l’Arte Quartett porta in giro per l’Europa alcune sue composizioni per quartetto di sassofoni e chitarra. Programma impegnativo per sfidare nebbia, curve e oscurità...

Con personaggi del calibro di Frith la bontà della serata va un po’ data per scontata. Eppure quello a cui abbiamo assistito è stato un set a corrente alterna, in grado di rinnovare l’ammirazione ma anche di alzare ombre interlocutorie sul compositore e chitarrista inglese.

Le conferme giungono dalla parte introduttiva del concerto, aperta da quattro brani tratti da quella magistrale opera per quartetto di sassofoni che è Freedom in Fragments.

La scrittura lineare e aggraziata che Frith ha riservato al Rova rivive grazie all’Arte Quartett in un’esecuzione precisa anche se forse un po’ ruvida, illuminando molti dei tratti caratteristici del vocabolario del compositore: l’accostamento naturale tra staccato e tenuto, pensato per avere la stessa qualità d’attacco di un quartetto d’archi; gli ampi soffici tapis roulant tessuti a sostegno di una singola aspra voce, paesaggi mobili in costante accelerazione per minare la stabilità dell’ascolto; le brume bucoliche da cui emergono lanugini sonore che pian piano acquistano forma ed estendono il respiro; melodie di ambigua provenienza ("Song and Dance" potrebbe venire, forse, da un improbabile Emirato Irlandese), immediate ed accattivanti che si fanno stranianti non appena si tenta di afferrarle... Idee semplici sviluppate generosamente, badando alla loro essenza più che al loro effetto.

L’affiancarsi della chitarra del compositore all’organico per cui sono state pensate, non rivela nuovi aspetti di queste composizioni: Frith si limita a lanciare drones per ritagliare meglio lo spazio sonoro attorno ai sassofoni, a raddoppiare una voce o disegnarne un delicato contrappunto.

La rivincita se la prende subito dopo, in una breve ma satura improvvisazione solistica, sempre pregevole, sempre entusiasmante, sempre sbalorditiva, che ha rivelato tuttavia come la pratica improvvisativa di Frith - frutto di uno studio minuzioso delle possibilità tecniche ed espressive del suo strumento - necessiti delle giuste condizioni per realizzarsi al meglio.

Dallo sfumare della frizzante "Song and Dance" s’invola cupo e minaccioso un elicottero sonico, grave come un monito severo, che schiaccia il pubblico a terra premendolo sulle sedie un poco più della forza di gravità. Quella della chitarra di Frith è cinemusique, musique concrète, espressione pre-/a-onkyo: il suo suono appannato ma evocativo, dettagliato ma infinitamente stratificato racconta ormai più delle suggestioni delle sue melodie.

All’Area Sismica tuttavia la sua ricerca risente della scarsa concentrazione, del poco tempo a disposizione, della forzata assenza del giusto strumento (non la solita ingombrante Gibson modificata) e dei giusti gingilli (non la solita valigia di effetti e oggetti). I soli di Frith sono preparati, rifuggono l’anarchia e non sono mai lasciati al caso; espressione del momento, ma frutto di un ragionamento pregresso che deve avere il tempo e l’occasione di esprimersi e maturare adeguatamente. Più teso del solito, meno immaginifico, egualmente potente ma a tratti macchinoso, con un’apertura finale - quando ci si iniziava a scaldare ma era già tempo di concludere - dai tratti sublimi. Peccato.

Peccato perché il pezzo forte della serata, motivo di questo tour europeo, ha rappresentato il culmine dell’interesse, ma anche della perplessità.

Interrogato in proposito, Frith stringe gli occhi con un poco di sospetto e confessa: “"Still/Urban" è una composizione che mi è stata imposta, nel senso che il tema era indicato con precisione nella commissione che ho ricevuto da un festival. Un tema quello dello spazio urbano che, diciamo così, da parte mia non necessariamente avrei scelto”. È esattamente questo sottile, defilato ma percettibile senso di forzatura che aleggia su questa massiccia composizione del 2004 per quartetto di sassofoni e chitarra elettrica.

“Stando così le cose, mi sono trovato nella condizione di dover individuare un mio percorso personale nel territorio che mi è stato indicato di esplorare, di dover ritagliare uno spazio solo per me. Mi sono quindi concentrato sul contrasto tra urbano e rurale pur non essendo certo di quanto io fossi interessato al tema. Credo potremmo definirla comunque come una sorta di esplorazione di una qualità magica e nascosta della città: mi piaceva l’idea di presentare la città come un paesaggio rurale, reinventando l’ambiente urbano dalla sua prospettiva opposta, componendo suoni per la maggior parte intrisi di lirismo, in cui tuttavia è possibile udire costantemente qualcosa di strano in sottofondo che non si riesce mai ad afferrare pienamente”.

Anche qui troviamo conferma nell’ascolto: la trama musicale si dipana ondivaga, meno risoluta e lineare delle composizioni cui Frith ci ha abituato. Tratto distintivo di questo "Still/Urban" pare essere un’irrisolutezza di fondo, che non si riesce tuttavia a cogliere quanto possa essere voluta e quanto possa essere intrinseca nella scrittura: “ho lavorato facendo un collage di episodi musicali, parti composte e parti improvvisate, field recordings della mia casa ad Oakland... e in mezzo a tutto ciò i musicisti cercano costantemente di creare nuovi frammenti”. Rispetto ad altre composizioni che s’ispirano al medesimo principio, tuttavia, qui prevale l’impressione che la colla non regga e i pezzi se ne vadano un po’ ciascuno per conto proprio, splendenti in sé ma impossibilitati a comporre un disegno complessivo.

Anche l’introduzione di un music box per ciascun musicisti, di modo che oltre al live sound potessero essere aggiunte fino a cinque ulteriori voci preregistrate, si rivela un espediente di dubbia efficacia, in quanto tale contributo rimane appunto relegato sullo sfondo, assumendo decisamente i tratti cibernetici del semplice rumore, non integrandosi né interagendo con la musica eseguita sul momento.

“Questa sera presenteremo la versione breve e compatta, quella di quaranta minuti (!!!): consiste di nove sezioni, cinque delle quali sono interamente scritte mentre le restanti quattro di compongono più che altro di istruzioni per i musicisti relative a quali attività svolgere in quale lasso di tempo. Alla fine è una composizione che non sarebbe potuta esistere senza la mia esperienza in studio di registrazione: è come se mi dissolvessi mescolando le dissolvenze (ride)”.

Nel lungo e articolato percorso in cui si snoda la composizione è possibile ritrovare tutti gli elementi fondamentali che Frith ha impiegato nella sua prolifica e illuminata carriera.

Variano i toni, variano le modalità espressive, variano gli arrangiamenti. Presa di per sé, ciascuna variazione risplende tanto per la propria essenza quanto per il contrasto che crea con quanto precede e quanto segue. Quello che pare mancare è quel centro gravitazionale che pure è sempre presente nelle opere di Frith. I membri dell’Arte Quartett seguono con duttile espressività la partitura, anche se le parti improvvisate risultano ora poco ispirate ora eccessivamente scolastiche. Il chitarrista ha modo di pennellare con maggior libertà le linee dei sax, ma il contributo del suo strumento rimane sempre labilmente integrato nel suono complessivo.

Concluso l’affresco - pardon il murales - rimane un’impressione di frammentarietà, vertigine, dislocamento. Basta allora rivedere tutto non alla luce della qualità compositiva ma a quella di una personale per quanto diffusa visione dell’ambiente urbano perché "Still/Urban" acquisti coerenza e potenza espressiva. E risospinga forse fuori città.

Foto di Claudio Casanova [ulteriori immagini tratte da questo concerto sono disponibili nella galleria immagini]

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