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Francesco Bigoni - Un sassofono per il futuro!
ByIl jazz e' una musica che vive di trasmissione orale, di ascolto, imitazione e rotture continue: e' piu' una prassi che un linguaggio, e tende costituzionalmente alla contaminazione
Fa perciò piacere che un musicista come il sassofonista ferrarese Francesco Bigoni, che in passato è stato tra l'altro tra le firme più interessanti di AllAboutJazz Italia, stia ottenendo sempre più attenzione da parte di critica, operatori e - specialmente - pubblico.
Giunto sesto come "nuovo talento" nel recente Top Jazz, ma con diversi voti a suo favore anche nella categoria miglior strumentista [ance], Bigoni è tra gli animatori del collettivo El Gallo Rojo ed è certamente uno dei tenoristi più originali degli ultimi tempi.
Lo abbiamo quindi invitato a tornare sulle nostre pagine, questa volta nella più prestigiosa veste di intervistato!
All About Jazz: Inizierei la nostra chiacchierata in maniera "tradizionale," cioè chiedendoti di raccontarci come ti sei accostato al jazz e le tue primissime esperienze di studio e "sul campo".
Francesco Bigoni: Mi sono avvicinato al jazz tramite la collezione di dischi di mio padre. Non che lui corrisponda alla tipica descrizione del "jazzofilo": la sua è un'infatuazione giovanile, nata attraverso le letture de Il popolo del blues di Leroi Jones/Amiri Baraka e Free Jazz/Black Power di Carles e Comolli. Nell'arco di una decina d'anni ha accumulato una discreta collezione di vinili: più che altro Coltrane e Mingus. Mingus ha avuto la fortuna di ascoltarlo dal vivo, e in piena forma, in una delle primissime edizioni di Umbria Jazz, quando era tutto gratis e si dormiva col sacco a pelo ai piedi del teatro romano di Gubbio, per intenderci. Ma anche parecchia New Thing, e qualche chicca, come alcune vecchie registrazioni di Jack Teagarden e del Krupa-Ventura Trio.
L'attenzione di mio padre era dunque rivolta più al fenomeno storico-sociale che non a quello strettamente musicale. Non sorprenda il fatto che alla fine degli anni Settanta fosse già tornato alle sue vecchie passioni: Bob Dylan, il folk inglese, i Beatles e i Rolling Stones - e, non a caso, Dylan, John Lennon e Dick Gaughan rivestono un ruolo importante nella mia formazione musicale! Ho ripreso in mano i vecchi vinili, partendo da due raccolte della Atlantic dedicate ad Ornette Coleman e John Coltrane. Non ci ho capito nulla, ma e' stato amore al primo ascolto. Dopo poco ho iniziato a comprar dischi e sono anche riuscito a far riprendere a mio padre interesse per la scena jazzistica.
Le mie primissime esperienze di pratica musicale sono più o meno coeve: dopo un pomeriggio passato ad origliare la lezione di clarinetto di un amico d'infanzia, mi sono convinto che valeva la pena provare. Ho frequentato per tre anni una scuola di musica nella mia città, Ferrara. Il mio primo strumento e' proprio il clarinetto, che ho però abbandonato, dopo un anno soltanto, a favore del sassofono - per poi riprenderlo in mano, "da sassofonista," un paio di anni fa. Da allora non ho più frequentato corsi regolari: ho partecipato a tre edizioni dei seminari di Siena Jazz e a qualche altro workshop, facendo incontri importanti per la mia formazione.
Tra gli altri, quello con Claudio Fasoli, che per primo mi ha convinto ad investire energie nello studio della musica; Steve Lacy, che mi ha insegnato quanto sia importante saper ascoltare, e dedicarsi alla ricerca della propria voce; Dave Liebman, che e' un eccellente didatta del sassofono; Stefano Battaglia, uno straordinario musicista che per molti versi ritengo il mio mentore, che più di tutti mi ha spinto a lavorare in profondità su me stesso e sul mio approccio alla materia musicale.
AAJ: Nel 2004 sei entrato a far parte di quella fucina di nuovi talenti che è stato il quintetto "Under 21" di Enrico Rava [clicca qui per leggere il 'diario' di quell'esperienza]: cosa ci racconti di quella esperienza?
F.B.: Quello con Enrico Rava è un altro dei miei incontri importanti, e l'ho condiviso con amici e valenti musicisti con cui ho ancora la fortuna di collaborare: Giulio Corini, Giovanni Guidi, Emanuele Maniscalco. E' un musicista sempre intenso, ha un suono bellissimo e una capacità di stare sul palco fuori del comune. Capitammo tutti nella sua classe di musica d'insieme ai seminari di Siena Jazz, e passammo tre giorni a suonare la sua musica, con ottimi risultati. All'epoca mi colpì molto la rapidità e la disinvoltura con cui Enrico trasformò quell'esperienza para-didattica in un vero gruppo. Lui dichiara spesso che il contatto con musicisti molto più giovani di lui gli regala un sacco di energia e di input. Senz'altro gli piace fare il talent scout - sarà mica un caso la metafora calcistica! - e spesso ci azzecca: basti pensare che e' stato il mentore di Gianluca Petrella, uno dei più solidi improvvisatori italiani sulla scena, con cui ho la fortuna di collaborare da un paio d'anni.
Di Under 21 ricordo diversi bei concerti, ma le potenzialità del gruppo, in fondo, sono rimaste inespresse. Eravamo ancora piuttosto acerbi, e quelle erano le nostre prime esperienze in teatro, di fronte a pubblici numerosi. Ritengo che abbiamo patito, più o meno consciamente, l'angoscia di alcuni problemi cruciali: lasciare una forte impronta personale sulla direzione della musica senza tradire il materiale di Enrico - che e' semplice, ha pochi elementi prestabiliti, ma ha, tutto sommato, delle coordinate piuttosto precise; venire incontro alle aspettative del pubblico, e (soprattutto) a quelle del leader, senza aderire ad un "ruolo" e rinunciare all'indipendenza delle nostre scelte. Per qualche motivo questi problemi sono rimasti irrisolti e, dopo circa un anno e mezzo di attività, il gruppo si e' sciolto. Da allora Enrico ha continuato a rimescolare le carte: dopo un decennio concentrato sui due progetti che gli hanno regalato la definitiva consacrazione - Electric Five prima, e il Quintetto poi - si tratta di un passaggio fisiologico.
AAJ: I lettori di AllAboutJazz hanno imparato a conoscerti prima come brillante collaboratore del magazine che non come jazzista: spero questo non sia un argomento "scomodo," dal momento che moltissimi musicisti sembrano avere un rapporto conflittuale con la critica. Personalmente, conoscendoti da diversi anni e avendo potuto apprezzare anche quella parte del tuo percorso, ritengo che l'esperienza critico/giornalistica sia stata importante nella tua crescita. Troppo spesso musicisti anche talentuosi dispongono di pochi "strumenti" di esplorazione delle tante realtà espressive del jazz e dintorni, per non dire di lacune "storiche".
F.B.: Ho iniziato a scrivere proprio mentre mi apprestavo a scegliere di dedicarmi seriamente alla musica suonata, e per un po' di tempo le due cose sono andate di pari passo. L'amicizia con Luigi Santosuosso e il confronto con te e gli altri redattori di AAJ mi hanno fornito parecchi spunti di riflessione, indicazioni di ascolto, bibliografia, occasioni di confronto. Se si hanno a disposizione i necessari requisiti linguistici, tentare di scrivere di musica e' un buon modo per comprendere le pieghe di questa forma d'arte. I musicisti di cui parli sono, dal mio punto di vista, dei pigri ascoltatori. Probabilmente non sono stati educati - o non si sono dati un'educazione - all'ascolto, e mancano di curiosità: non ascoltano i concerti, e quindi non sanno quel che succede loro attorno. Non conoscono la loro stessa comunità di parlanti, e perdono una preziosa possibilità di confronto e di scambio. Allo stesso modo, ascoltano la "tradizione" - sull'applicazione di questa categoria alla musica jazz potremmo aprire una lunga parentesi... - con orecchio pigro e acritico.
Il jazz e' una musica che vive di trasmissione orale, di ascolto, imitazione e rotture continue: è più una prassi che un linguaggio, e tende costituzionalmente alla contaminazione. Se lo si pensa troppo come linguaggio, ci si invischia nell'attenzione alla scelta delle note, nella ricerca delle forme e di un canone che a me pare difficilmente delineabile. Si perdono di vista quei "dintorni" (musicali e sociali) che tu citi, e che sono fondamentali per comprendere le realtà espressive contemporanee. Invece il jazz e' fatto di suoni, contenuti, prassi, e contesto storico-sociale, prima che di linguaggi e di teoria. Fatte queste premesse, e' ovvio che chi non conosce e non sa da dove prende le mosse la poetica di, che so, un Bill Frisell o un Tim Berne - per citare due artisti davvero significativi, e attivi da almeno un quarto di secolo - fa anche fatica a riscoprire Julius Hemphill, musicista fondamentale per comprendere molti dei fenomeni più interessanti degli ultimi vent'anni.
AAJ: Nel 2005 abbiamo il tuo coinvolgimento in quella splendida realtà collettiva che è El Gallo Rojo: a tre anni di distanza mi sembra si possa tracciare un primissimo bilancio, sia in termini artistici che di organizzazione.
F.B.: El Gallo Rojo è una delle esperienze di cui vado maggiormente orgoglioso. E' un collettivo di musicisti e, al contempo, un'etichetta discografica. Nasce come un gruppo di amici e musicisti che condividono una visione di fondo dei problemi connessi alla prassi musicale, oltre che una fiducia nell'autorganizzazione collettiva. Nel corso dei nostri tre anni di vita, abbiamo pubblicato ventitrè dischi, dato vita a svariati progetti, organizzato qualche rassegna e due edizioni di un meeting di associazioni e collettivi attivi nell'ambito della musica creativa e di ricerca [Map of Moods nel 2007 e Massa Sonora nel 2008 - N.d.E.]. Abbiamo ottenuto un discreto riconoscimento di pubblico e critica, dimostrando che ha senso investire collettivamente sull'elevata qualità e i bassi costi della produzione. Siamo cresciuti di numero: dagli otto che eravamo, siamo diventati quattordici. Il che comporta maggiori energie a disposizione, ma anche qualche difficoltà di coordinamento, da superare attraverso un'accorta attribuzione delle mansioni.
Nel frattempo i nostri contatti aumentano, assieme alle esigenze di una maggiore capacità promozionale e di una distribuzione capillare: sono questi i nostri buoni propositi per il 2009. Dal punto di vista artistico, credo di notare una crescita sia sul piano individuale che su quello progettuale. Propiziata in massima parte dal confronto e dal continuo feedback tra i membri del collettivo. A fine ottobre ci siamo impegnati in una due giorni dedicata al collettivo dal Centro d'Arte di Padova, con quattro gruppi che hanno fornito una buona fotografia del nostro personalissimo "stato dell'arte": il solo di Simone Massaron, chitarrista dal linguaggio estremamente personale, uno dei "nuovi acquisti" del Gallo Rojo; Unscientific Italians, un gruppo di undici elementi guidato da Alfonso Santimone, impegnato nel notevole sforzo di adattare ad un grande organico la musica di Bill Frisell; Orange Room, sestetto guidato da Beppe Scardino, che ha presentato in anteprima una serie di nuove composizioni del leader; Rollerball, che e' uno dei gruppi piu' maturi tra quelli nati in seno al collettivo.
AAJ: Da un punto di vista strettamente strumentale, oltre al fraseggio davvero variegato e maturo, colpisce il tuo suono: come ti sei posto nei confronti del sax tenore da un punto di vista timbrico? Come è cambiato negli anni il tuo suono?
F.B.: Credo che il sassofono tenore mi abbia affascinato a causa del suo registro e della sua versatilità dal punto di vista della tessitura: per me e' un violoncello, che può cantare, ma anche accompagnare e inserirsi tra le maglie della sezione ritmica. In una prima fase il lavoro sul suono era uno fra i tanti argomenti del mio studio: ero molto preoccupato del tempo, del fraseggio, della scelta delle note. Non a caso, ero molto attratto da un certo tipo di approccio astratto e cool - che continuo a portarmi dietro come parte del mio percorso. Da un certo momento in poi, ho iniziato a lavorare sul suono in maniera costante ed esso e' diventato il mio principale, quasi esclusivo obiettivo di ricerca strumentale. Il che mi ha condotto naturalmente verso un percorso a ritroso nella storia del tenore più "materico": da Pharoah Sanders, passando per Gene Ammons, indietro fino ad Illinois Jacquet. Cerco di pensare sempre di più alla scelta delle note come mezzo per raggiungere determinati suoni e timbri.
AAJ: Parliamo un po' dei gruppi di cui fai parte: nell'ambito del collettivo El Gallo Rojo trovo davvero notevoli sia il sestetto Orange Room di Beppe Scardino che il quartetto Houdini's Cage con Greg Cohen. Ti va di parlarcene in modo personale, raccontandoci anche del rapporto privilegiato che hai con Cohen.
F.B.: Orange Room e' uno dei gruppi più affiatati di cui faccio parte. Beppe e' un ottimo compositore e arrangiatore, e ha radunato una formazione che vanta grande energia ed equilibri molto naturali. Abbiamo registrato un disco che e' stato pubblicato da El Gallo Rojo nel 2007. Rispetto ai brani in esso contenuti, le nuove composizioni di Beppe sono più articolate e vantano un'integrazione più fitta tra scrittura e improvvisazione.
Houdini's Cage nasce da un'idea di Zeno De Rossi ed Enrico Terragnoli, che da un po' cercavano di concretizzare l'idea di lavorare ad una serie di composizioni originali assieme a Greg Cohen. Zeno ha conosciuto Greg in occasione di uno dei suoi svariati concerti italiani, e gli ha passato il mio contatto quando quest'ultimo si e' messo alla ricerca di un appartamento di appoggio a Ferrara. A quanto pare, Greg e' rimasto affascinato da quella dimensione di dormiente città di pianura che è all'origine del rapporto di amore/odio che molti ferraresi, me compreso, nutrono per la loro città d'origine. Siamo diventati grandi amici, ed e' nato un quartetto che abbiamo scelto di dedicare alla figura di Harry Houdini, il più celebre mago di tutti i tempi, maestro escapologista e nemico dello spiritismo. E, soprattutto, un personaggio che ha condotto una vita avventurosa in un mondo ormai perduto, seguendo traiettorie del tutto oblique ed imprevedibili: un'immagine che ben si attaglia alle composizioni scritte da Enrico per il gruppo. Personalmente ho contribuito con una composizione intitolata "Houdini's Big Break" [per ascoltarne un breve estratto clicca qui]: una sorta di shuffle dal profilo angolare dall'impianto molto semplice, ma pieno di "curve pericolose"!
Per la versione in studio Greg ci ha suggerito un'introduzione in cui abbiamo letteralmente ricoperto Zeno di catene e orpelli metallici, costringendolo a liberarsene, a' la Houdini, in tempo per l'inizio del groove... Con Houdini's Cage abbiamo fatto un bel giro di concerti, al termine del quale abbiamo registrato il disco pubblicato l'anno scorso da El Gallo Rojo. Nel frattempo, la mia amicizia e collaborazione con Greg e' diventata sempre più stretta: a metà settembre mi ha invitato a far parte del suo nuovo progetto Argus, con Luciano Biondini alla fisarmonica e Kruno Levacic alla batteria. Greg ha dedicato un repertorio di brani nuovi alla terra istriana; li abbiamo eseguiti al festival Polis Jadran Europa di Pola, e speriamo di poterli incidere presto.
AAJ: Molti musicisti con cui collabori stabilmente hanno avuto come fortissima influenza la scena downtown "zorniana": come ti rapporti con questo e come, anche alla luce della grande apertura a molte influenze differenti, state lavorando al superamento di questo orizzonte.
F.B.: E' inutile dire che anche per me si tratta di un'influenza fondamentale. Alcuni di questi musicisti li ho conosciuti direttamente: oltre a Greg Cohen, Chris Speed, che e' un amico e collaboratore di vecchia data di Zeno De Rossi, ed e' uno dei miei sassofonisti preferiti. E' membro di un doppio quartetto che e' un primo ambizioso progetto di condividere il ruolo di compositori, arrangiatori e leader in un unico gruppo collettivo - prima o poi vi rimetteremo mano! Ma anche Briggan Krauss ed Anthony Coleman, con cui ho suonato assieme a Zeno De Rossi e Danilo Gallo in occasione della nostra trasferta newyorkese dello scorso aprile.
Per un paio di settimane ho frequentato i luoghi di riferimento di quella scena. Non solo e' lontana parente dalla scena downtown "pura e dura," ma non assomiglia più nemmeno tanto a quella che usciva dai dischi di dieci o quindici anni fa. Si tratta di una grande lezione: bisogna andar dietro alle strategie comunicative e organizzative, al senso di appartenenza e di scambio reciproco; mantenere il fuoco sulla ricerca e su un certo qual sentimento di "alterita'" relativo alla propria visione. Ma il percorso artistico e il processo di elaborazione di un'estetica devono essere il più possibile personali. Personalmente cerco di tenere le orecchie aperte, ascoltare le "tradizioni" - quella jazzistica, ma non solo - e anche altre scene: quella olandese, quella tedesca, quella norvegese o quella di Chicago, per dirne alcune. Ma soprattutto di sentire quello che i miei amici e colleghi italiani hanno da "dire" musicalmente.
AAJ: Nell'anno appena trascorso è emerso, specialmente da parte di musicisti giovani che appartengono a collettivi che puntano a modalità nuove di promozione, un particolare scontento sul fatto che la scena dei festival e delle rassegne sia in un certo senso "monopolizzata" da pochi nomi, quelli dei soliti noti Rava, Fresu, Bollani etc.
Cosa ne pensi e come ti sembra che stia evolvendo questa situazione, anche in rapporto con la scena europea e con le difficoltà economiche che stanno travolgendo il mondo della cultura e dello spettacolo?
F.B.: Ne abbiamo parlato anche all'ultimo meeting di collettivi tenutosi a Massa Lombarda. Se apriamo un'agenda degli eventi culturali, pare che in Italia, soprattutto nel periodo estivo, abbiamo un festival jazz o una rassegna ogni dieci chilometri di territorio. Ed e' vero che, molto spesso, i nomi che ricorrono sono gli stessi. Come si colloca tutto questo nel contesto dei tagli alla spesa per la cultura a livello nazionale e negli enti locali? Evidentemente si tratta di investimenti a rischio zero. I festival che possono ancora vantare una direzione artistica indipendente e consapevole sono davvero pochi: si contano sulle dita di una mano. Ed e' ovvio che non possano dare spazio a tutto ciò che lo meriterebbe. Gli altri non hanno una vera direzione artistica, e pescano tra le offerte del mercato senza un criterio che non sia quello del ritorno d'immagine e dell'affluenza di pubblico. Se i "soliti noti" fanno sempre il teatro pieno, e' ovvio che in questi festival ci suonano sempre loro. Eppure, i gruppi del Gallo Rojo - ma anche quelli afferenti ad altri collettivi italiani - trovano spazio in certi festival e in certe rassegne, in qualche piccola nicchia del mercato. Spero sia il segno che l'organizzazione collettiva possa, sul lungo periodo, dare il suo contributo alla battaglia per scardinare il vuoto culturale di cui sopra, aumentando la qualità e la quantità della direzione artistica - anche nell'interesse dei "soliti noti"!
Noi musicisti abbiamo il dovere, oltre che di portare la bandiera di questa battaglia, di far crescere la qualità e la pregnanza dei contenuti delle nostre proposte. Se questo e' difficile, è perchè la crisi economica e la temperie culturale sopra citata investono i piccoli spazi e le medie rassegne - che dovrebbero essere laboratorio di costruzione di nuovi progetti e crescita di quelli esistenti - molto più dei festival.
AAJ: Cosa ascolta Francesco Bigoni in questo periodo?
F.B.: Good Old Boys di Randy Newman, a ripetizione, da quasi un anno a questa parte. E poi un paio di lavori di Steve Lehman, un altosassofonista e musicista elettronico statunitense tra i più interessanti della sua generazione. Il suo Manifold, uscito per la Clean Feed, contiene una versione di "Dusk" - uno dei miei pezzi preferiti di Andrew Hill - davvero ispirata. E poi, a proposito di Andrew Hill: Compulsion e Black Fire. Grazie a Danilo Gallo e Simone Massaron ho scoperto Les Paul, che conoscevo soltanto per l'invenzione della omonima chitarra: la prima solid body. Non solo e' un pioniere, ma anche un chitarrista visionario: memorabile una sua versione di "Besame Mucho" in duo con la partner Mary Ford. Infine, ascolto R.E.A.L., il nuovo lavoro discografico della band tedesca Schmittmenge Meier, una delle uscite più recenti de El Gallo Rojo. Sono un fan di Jan Johansson: un Paul Bley svedese che scrive musica per bambini, come lo definisce Stefano Zenni. Quest'album contiene un bell'arrangiamento della sua "Pippi Calzelunghe"!
AAJ: Quali sono i progetti cui stai lavorando e a cui tieni di più?
F.B.: Oltre a Houdini's Cage, sono molto affezionato al trio Osmiza, che condivido con Danilo Gallo e il batterista sloveno Aljoša Jeric. E' un gruppo che esiste da diversi anni ed e' in costante attività. Due delle nostre sedute di registrazione sono confluite nel disco Pop Gossip, edito da Jazz Engine. Per Osmiza ho scritto "Seattle Punk Ratzi," una sorta di inno grunge a cui sono molto affezionato [per ascoltarne un breve estratto clicca qui]. Poi c'e' un altro trio, molto diverso da Osmiza, che si chiama Headless Cat; e' anch'esso un gruppo collettivo, con Antonio Borghini al contrabbasso e Federico Scettri alla batteria. Laddove il primo ha un repertorio di canzoni affrontate con spirito libero, il secondo lavora su materiali tematici variamente ricombinati secondo percorsi di improvvisazione totale. Ne abbiamo registrata una serie in sala d'incisione, e speriamo di dare alla luce il disco entro l'anno. Sempre entro l'anno vorrei entrare in studio con il mio primo progetto da leader: sto scrivendo un po' di musica nuova, e riflettendo sulla formazione. Sono lento, ma determinato!
Mi piace citare almeno due delle mie collaborazioni: una e' la Cosmic Band di Gianluca Petrella, che ha goduto di una discretamente intensa attività concertistica nell'arco della scorsa stagione, e ora ha un disco in uscita imminente per la Blue Note. Si tratta di un gruppo affiatato, ricco di personalità diverse ed interessanti in costante crescita. Gianluca e' un musicista straordinario, ma anche un leader sempre più consapevole; e' innamorato del groove, e in questa ensemble ha a disposizione un'elevata "potenza di fuoco"!
L'altra e' Outvestigation di Stefano Battaglia, che nasce come emanazione del suo laboratorio permanente di ricerca musicale, a Siena. E' un esperienza particolare per me, come per gli altri membri del quartetto, Giulio Corini ed Emanuele Maniscalco: si tratta del nostro mentore. Con lui c'e' un rapporto privilegiato. Stefano si e' allontanato dal pianoforte per scrivere una serie di composizioni "a tavolino" - un'arte ormai dimenticata - , influenzate solo inconsciamente dalle consapevolezze tecnico-strumentali. Ne risulta un percorso che tocca i territori dell'improvvisazione totale e di varie tradizioni, giungendo ad un risultato formale che si assesta naturalmente ora nel bozzetto, ora nella lunga narrazione. Prova ne sia il disco omonimo, di recente uscita per l'etichetta Jazz Engine Records, in abbinamento editoriale a Jazzit.
Foto di Claudio Casanova, ad eccezione delle foto con Enrico Rava [per gentile concessione di "TAM - tutta un'altra musica"]
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