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Enzo Favata, artista e agitatore culturale

...perché nel jazz il criterio delle altre arti non viene applicato, perché basta rifare la frase di Davis o di Coltrane per essere definiti "grandi artisti"?
Sassofonista e clarinettista, compositore, autore di progetti originali tra jazz e musica tradizionale della sua terra, la Sardegna, Enzo Favata è, da quasi dieci anni, anche direttore artistico di un fortunato festival, Musica sulle Bocche, che si svolge a Santa Teresa di Gallura, nel nord della sua isola. Lo avevamo sentito nell'ormai lontano 2002, ma nel frattempo Enzo ha proposto con successo una moltitudine di progetti diversi. Avevamo quindi voglia di farci aggiornare sulle sue prospettive artistiche e sul suo sguardo sul panorama musicale odierno.

All About Jazz - Ci eravamo incontrati per un'intervista nel 2002, era appena uscito Boghes and Voices... Da allora di cose ne hai fatte molte, anche in direzioni molto diverse. Anzi, l'impressione - che ti chiedo di confermare o demolire - è che in qualche modo tu abbia recentemente "chiuso un cerchio" che s'era aperto nel 1997 con Ajò, il disco che registrasti con Dino Saluzzi, e che poi ti aveva condotto anche relativamente lontano da quelle atmosfere. Con il tuo ultimo disco, The Night of the Storytellers, rimandi un po' a quella tua musica di allora, una musica da "Oregon del Mediterraneo"...

Enzo Favata - Non ho mai abbandonato quella musica, anche se non mi piace ripetermi e per questo cerco di proporre qualcosa di nuovo in ogni lavoro discografico. Sia chiaro anche che ripetersi, in sé, non è sbagliato, perché significa dedicarsi di nuovo a un linguaggio e con ciò perfezionarlo. Tuttavia, non sono uno di quei musicisti che, una volta trovato il progetto "buono" - che funziona, che è apprezzato, che vende - seguita a rifarlo uguale. La musica in Italia - e non solo quella commerciale, ma anche quella jazz, anzi, quest'ultima ultimamente forse ancor di più - sta diventando sempre più "di consumo," la sua estetica sta implodendo. Io vorrei andare in una direzione diversa.

Detto questo e riprendendo la tua domanda, sì, sono tornato alla poesia del "realismo magico," alla visione reale e surreale che caratterizzava i lavori di allora. Qualcosa che era latente anche nelle cose che ho fatto in seguito, ma qui torna in primo piano.

A dirla tutta, erano anni che volevo fare un disco così, in trio, nel quale mettere in risalto una delle mie forti radici: quella delle sonorità e degli artisti ECM, che io ho incontrato dopo la giovanile infatuazione per Coltrane e un successivo incontro con Wayne Shorter. The Night of the Storytellers poteva essere il mio primo disco ECM, ma sarà un altro... infatti, il prossimo uscirà per l'etichetta di Manfred Eicher, con Anja Lechner al violoncello, U.T. Gandhi alla batteria e Marcello Peghin alla chitarra, curiosamente la stessa formazione (con diversi musicisti) del mio primo disco, Jana. Invece, The Night of the Storytellers ho preferito farlo per la mia neonata etichetta Isola dei Suoni.

Era da molto tempo che volevo registrarlo, dicevo, solo che non trovavo un contrabbassista come lo desideravo. Uno, cioè, che sapesse interpretare con personalità il senso ritmico e armonico, ma che poi fosse anche capace di assumersi dei ruoli melodici. Yuri Goloubev l'ho trovato per caso su Internet, su MySpace, e ne sono rimasto sorpreso. Sapevo che doveva venire in Sardegna, così gli ho mandato un po' della mia musica. E anche lui è rimasto sorpreso. Essendo un musicista abituato a suonare in piano-contrabbasso-batteria, una musica come quella che gli proponevo - in trio con la chitarra di Peghin, ma anche nel ricostituito quintetto Atlantico - era una esperienza insolita: perché è jazz, ma diverso da quello che conosceva. Con Peghin invece suoniamo assieme da vent'anni. Abbiamo cominciato a lavorarci sopra e le cose hanno funzionato subito molto bene.

Ma, ovviamente, il disco è anche basato su un concept, com'è mia abitudine. Io sono solo un musicista, ma - con misura e con modestia - cerco di fare dell'arte con sincerità ed innovazione. Credo che tutti i musicisti dovrebbero avere la consapevolezza di andare in questa direzione. Poi, se uno riesce o meno a realizzare un'opera d'arte o non importa: quel che conta è che cerchi consapevolmente di farlo. E questo, però, oggi non è così diffuso nella musica.

Nel mondo della pittura, se uno copia un quadro di Leonardo o di Matisse, lo faccia bene o lo faccia male, lo faccia con grande capacità tecnica o meno, il giudizio non cambia: è comunque un copista, o - come si dice a Roma - un "crostaro". Beh, nella musica jazz un giudizio analogo non vale! E allora io vorrei porre una domanda a tanti giornalisti, critici, direttori artistici: com'è possibile che sia considerato "grande" un musicista che in buona sostanza si limita a copiare? È possibile che in questa forma d'arte non valgano gli stessi criteri che vigono nella pittura, nella letteratura, nella poesia, ovunque?

Ma, tornando al concept, quello di The Night of the Storytellers è di base piuttosto semplice: si tratta in fondo una raccolta di storie.

AAJ - Dicevi però di averci messo molto tempo prima di arrivare a realizzare questo lavoro. A parte la difficoltà di trovare un contrabbassista adatto, ci sono altre ragioni per la dilatazione dei tempi?

E.F. - Innanzitutto dovevo concludere il discorso che stavo portando avanti, che doveva idealmente scandirsi su una trilogia e trovare il suo compimento in un progetto sinfonico - infatti poi realizzato con l'orchestra della radiotelevisione olandese, nel 2006 - che doveva ridisegnare il progetto di fusione e contaminazione tra jazz e musica sarda avviatosi con Vojage en Sardaigne. Che continua ad essere un disco vendutissimo, siamo vicini alle 50.000 copie.

AAJ - Un disco senz'altro importante, non foss'altro che per la varietà con la quale metteva in mostra tanto la musica sarda, quanto i modi di inserirla in cornici moderne.

E.F. - Sì, allora - era il 1997 - credo che io e Daniele Sepe fossimo degli autentici apripista per questo genere di musica "di frontiera": Daniele lavorava su materiali del sud, io su nostri materiali isolani. Approfittammo della libertà che ci era concessa dall'etichetta del Manifesto (un'esperienza che purtroppo sembra essersi un po' ridimensionata), cosa che forse ci penalizzava agli occhi del perbenismo musicale, un po' perché ci poneva davanti un "filtro" politico, ma che al tempo stesso ci offriva opportunità che con altre etichette non erano neppure immaginabili. Il Manifesto ha infatti offerto a molti artisti non solo libertà, ma anche le possibilità economiche per poter esprimere quel che volevano; una cosa, questa, che se non hai vendite da capogiro o etichette come la ECM alle spalle, nessuno può offrirti.

Ti racconto un aneddoto di circa 20 anni fa. Un giornalista di un quotidiano del sud, dopo un concerto che era chiaro non gli fosse piaciuto, non riusciva a capire la matrice e le influenze della mia musica e - da critico jazz - ritenne opportuno indignarsi e scrivere: "la sua musica è un imprecisato connubbio tra vari stili musicali non catalogabili e pertanto non riconducibili ad uno stile preciso. Enzo Favata non è collocabile in nessuno scaffale della vostra discoteca jazz. Io, per esempio, non sapendo dove mettere un suo disco sarei costretto a buttarlo". Pensava di dare un giudizio negativo della mia musica, invece inconsapevolmente aveva precorso la definizione di world music, world jazz, crossover music, etichette di stili musicali che allora non esistevano ancora.

Dopo di allora i concerti in tutto il mondo hanno permesso di far conoscere la mia musica e a me di conoscere altri artisti che suonavano in quella direzione, che praticavano la contaminazione, come per esempio Dino Saluzzi, Miroslav Vitous, Lester Bowie, Django Bates, Dave Liebman, Omar Sosa e tanti altri con i quali nel corso degli anni ho suonato.

AAJ - Il secondo capitolo della trilogia sulla Sardegna qual era?

E.F. - Boghes and Voices, che - dopo quello generale de l'isola - metteva a fuoco il tema della spiritualità e del misticismo mediterraneo. Il tema conclusivo doveva essere quello de l'emigrazione. Un tema su cui io avevo in realtà già lavorato in Ajò, ma anche con il quintetto Atlantico; però lì il tema era collegato all'America Latina, un luogo che mi attrae moltissimo e che ho frequentato a lungo (ci ho fatto tournée per otto anni). Il modo in cui volevo trattarlo, invece, era un altro, ovvero quello in cui lo affronto con The New Village: il delirio del contatto tra la cultura della periferia con quella metropolitana.

AAJ - Come sei arrivato a questo modo di guardare l'emigrazione?

E.F. - Dopo Boghes and Voices, per varie ragioni - alcune artistiche, altre legate alle contingenze del periodo - ho sentito il desiderio e l'urgenza di fare qualcosa di "cattivo" inteso come musica più aggressiva. Infatti, prima ho registrato No Man's Land, un lavoro del 2005 che apparentemente non ha niente a che fare con tanta parte della mia produzione artistica.

AAJ - Qual'è stata la genesi di No Man's Land?

E.F. - Nasce dal fatto che mi piace il gioco dei contrasti. Un contesto impegnativo, ma che soprattutto richiede conoscenza e studio. Non sto parlando solo di studio e conoscenza della tecnica: per confrontarsi con la contaminazione è infatti importantissimo avere una profonda conoscenza dei materiali sonori, ma anche conoscere i contesti - culturali, sociali, economici, ecc. - in cui essi nascono. E qui gioca un ruolo essenziale la curiosità: se non si è curiosi, non si ha voglia di conoscere ed approfondire, non si ha la voglia e l'interesse di dipanare la ricerca in molteplici ambiti e piani di apprendimento, com'è necessario per affrontare i contrasti.

Un altro elemento fondamentale nel confrontarsi con la contaminazione è il talento - altro tema da considerare da molteplici punti di vista. La mia idea e che il talento sia una summa di conoscenza delle culture, capacità strumentali, idee innovative, creatività e - soprattutto -apertura mentale. In generale, nella musica oggi si devono conoscere a fondo ed apprezzare i diversi linguaggi musicali, si deve amare la musica nella sua globalità ed imparare a "sfruttarne" le diversità per creare un linguaggio proprio. Solo così è possibile uscire dall'omologazione che, purtroppo, vedo anche nell'ambito delle contaminazioni, spesso di livello molto superficiale da un punto di vista sia compositivo, sia esecutivo. Non basta metter su un suono etnico o una melodia dentro un brano per fare della contaminazione.

Sono un buon sassofonista e compositore che ha idee molto originali, è vero; ma il mondo è pieno di bravi colleghi. Diciamo che il mio concetto di suono, che si discosta dalla strada maestra, è originale , ma nello stesso tempo la melodia è una caratteristica che mi contraddistingue. È grazie a questo che, pian piano, ho incominciato ad essere interessante e il pubblico ha iniziato ad apprezzare quelle strane composizioni che sanno di tante influenze.

Da tutto questo, in effetti, viene fuori la figura di un agitatore culturale, quale credo di essere. Non credo basti mettere l'orecchino o farsi la barbetta eccentrica per essere artista: suonare, creare, pensare, porsi dei problemi legati al senso delle cose che si producono, alla società in cui si vive, cercare con la musica di poter far pensare gli altri - questo è importante per un artista. Se uno fa girare il proprio lavoro attorno a questa consapevolezza di artista, sente l'esigenza di andare oltre, proporre cose diverse. Ed è con questo spirito che, a un certo punto, ho aperto una finestra sul mio percorso e ho realizzato No Man's Land, con il quale pago un debito nei confronti di una delle mie prime radici musicali, quella davisiana e shorteriana: dopo Boghes and Voices, una cosa "cattiva" come No Man's Land. E poi, qualcosa che - parlando del tema dell'emigrazione - andasse oltre entrambi, conservandone degli elementi: la aggressività delle sonorità metropolitane del secondo e la tradizione del canto sardo del primo, per un incontro surreale, quasi conflittuale. Tutto questo è The New Village, con il quale concludevo la trilogia, prima della futura registrazione di Vojage en Sardaigne con l'orchestra sinfonica.

AAJ - Il progetto, però, ha subito anche delle evoluzioni.

E.F. - Sì, perché si sono aggiunti musicisti come Danilo Gallo e Alfonso Santimone, che hanno ulteriormente arricchito la tavolozza di suoni metropolitani. Ma quel che contava era aver concluso il discorso. A quel punto potevo aprire un nuovo ciclo, o riaprire in forme nuove un discorso precedente - se è vero che, come dicevi inizialmente, The Night of the Storytellers prosegue il cammino cerchio aperto con Ajò. Adesso c'è, finalmente, questo trio, e lo sviluppo futuro della mia musica - o di una parte di essa - passa attraverso questa formazione. Infatti, ho già in progetto di registrare un disco per trio e quintetto una musica di grande spessore per quanto riguarda gli arrangiamenti degli archi curati da Yuri Goloubev che con la sua esperienza di scuola russa e dodici anni con i Solisti di Mosca ha elaborato un bell'incontro tra la mia musica e la sua sensibilità musicale. Debutteremo con una prima a giugno.

AAJ - E le altre parti?

E.F. - Beh, anzitutto c'è il disco con Anja Lechner, Gandhi e Peghin, già registrato e in uscita per la ECM. Poi, voglio fare un disco di standard, ma suonati "a modo mio". E poi, ancora, stiamo lavorando a un duo con Maurizio Brunod, sul rock progressive degli anni settanta, a un altro in duo con Mario Crispi, il fiatista degli Agricantus, nel quale usiamo quasi esclusivamente fiati, e infine ancora un duo con Alfonso Santimone - come puoi immaginare, molto libero.

AAJ - La Sardegna non ha più spazio esplicito nei tuoi progetti?

E.F. - Ce l'ha, eccome! In programma c'è anche un'antologia di Boghes and Voices. Sono sempre stato affezionato a questo lavoro, che la stampa tedesca definì la risposta mistica mediterranea ad Officium di Jan Garbarek; per questo, e per far riascoltare al pubblico la sua evoluzione, ho recuperato importanti materiali d'archivio dei concerti fatti dal 1999 a pochi anni fa. Tra l'altro, una registrazione splendida di uno dei primi concerti del progetto, quando cioè vi suonava Dino Saluzzi, tenutosi alla Basilica Nostra Signora di Bonaria, a Cagliari, che per la Sardegna ha un valore simbolico enorme. Pensa che, nonostante sia una chiesa imponente che contiene quasi mille persone, quella sera dovettero chiudere le porte e lasciare la gente fuori! E poi, materiali che erano serviti per la colonna sonora del film di Salvatore Mereu Sonetàula, passato al Festival di Berlino due anni fa, e concerti registrati tra i molti che abbiamo fatto nella versione con Daniele Di Bonaventura, che dopo un paio d'anni sostituì Zanchini. Ne faremo un doppio album, o forse un dual disc, con la seconda facciata in DVD. Come vedi, per seguire la mia attività artistica uno sguardo a 360 gradi non basta!

AAJ - Questa tua attività creativa è sostenuta anche dalla nascita della tua etichetta indipendente Isola dei Suoni?

E.F. - No, no, perché non ho mai avuto troppi problemi a trovare con chi pubblicare i miei lavori. Questo grazie anche al fatto che non mi sono mai mancati i riconoscimenti: sia Boghes and Voices (che in Europa era distribuito da Harmonia Mundi), sia Made in Sardinia - l'episodio intermedio, del 2003, tra Vojage e Boghes - ricevettero la nomination come miglior disco dell'anno in Germania. E, secondo me, non vinsero solo perché - proprio un po' come gli Oregon! - non si sapeva bene dove collocarli: troppo jazz per essere world, troppo world per essere jazz...

L'etichetta Isola dei Suoni - e anche questa, è una cosa che volevo fare da tempo - nasce per valorizzare musicisti che si sono formati per andare in una direzione, diciamo così, inusuale, e che perciò faticano a trovare spazi. Per intenderci, qualcosa come El Gallo Rojo, anche se la direzione è un'altra. Così, le prossime uscite di Isola dei Suoni saranno la trascrizione del Clavicembalo ben temperato di Bach per chitarra dieci corde, di Marcello Peghin, e un lavoro di Daniele Di Bonaventura, non abbiamo ancora deciso se per bandoneon solo o con quartetto d'archi. Poi pubblicheremo straordinari materiali d'archivio della musica sarda, da alcune registrazioni di tenores degli anni Cinquanta, trovate in un archivio dimenticato, a quelle di cori delle confraternite locali, che sono ancor oggi una realtà incredibile: persone che fanno ciascuna il proprio lavoro, ma che si incontrano periodicamente per provare e riprovare, per raggiungere la perfezione. Persone che spesso si frequentano solo per questo, che danno vita a relazioni sociali fortissime, talvolta anche fortemente competitive, solo per cantare una o due volte l'anno. Ma con quali risultati! Una disciplina d'altri tempi...

Insomma, anche Isola dei Suoni è un "divertimento serio," una cosa fatta per il piacere di farla, ma con una ragione profonda. Quelle cose che si fanno perché nella vita non ci si può a passare "leggeri," senza lasciare qualcosa.

AAJ - Certo, specie se queste cose altri non le fanno e rischiano di andare perdute. Qualcosa del genere diceva di recente in un'intervista Zlatko Kaucic, che - accanto alla sua attività artistica liberamente sperimentale - si dedica al recupero delle produzioni artistiche della sua terra, la Slovenia. Cose che esistevano nelle culture popolari, che davano senso alle esistenze e permettevano di creare rapporti, di "fare società". Cose che la nostra cultura superficiale, tutta basata sull'immagine, non contempla più e rischia di far scomparire definitivamente.

E.F. - Recupero della tradizione e promozione di musicisti trascurati sono lati della stessa medaglia: si ritorna a quel che dicevo prima, la tendenza generale è a una musica sempre più omologata, quella dei "bravi crostari"...

AAJ - ...con il paradosso che, talvolta, c'è il rischio di rendere museale anche l'avanguardia, idolatrando i suoi protagonisti anche quando non fanno più nulla di originale o, comunque, di realmente all'altezza della loro fama.

E.F. - Sono d'accordo, si finisce per ricadere sullo stesso cliché. Se il criterio dell'arte è la ricerca, allora anche l'innovatore deve costantemente rinnovarsi! Ma questo è contrario alla cultura musicale che passa ormai anche dai conservatori, dove si è sì iniziato a insegnare jazz, ma lo si insegna come la musica classica! Il risultato sono un sacco di musicisti tecnicamente ineccepibili, ma privi di creatività, di integrità artistica, come dicevo prima dei "costari"... Ma, di nuovo, questo rimanda alla domanda che mi piacerebbe si ponesse pubblicamente a critici, giornalisti e direttori artistici: perché nel jazz il criterio delle altre arti non viene applicato, perché basta rifare la frase di Davis o di Coltrane per essere definiti "grandi artisti"?

AAJ - Si tratta di un interrogativo che i musicisti che intervisto si pongono sempre più spesso, e che io stesso mi pongo quando vedo sacralizzare musicisti che invece mi annoiano, quando - come mi diceva Daniele Sepe, forse non a caso proprio lui - il musicista sul palco si trasforma in un "sacerdote" che officia un rito...

E.F. - Una cosa che, da direttore artistico, a Musica sulle Bocche cerco di evitare, sia - come dicevo prima - invitando musicisti che, a prescindere dalla loro notorietà, abbiano un'integrità artistica, sia creando situazioni diverse: ad esempio, cambiando il concetto di "palco" e facendo andare i musicisti per le strade all'imbrunire, oppure facendo i concerti sulla spiaggia all'alba... Mi ricordo che, quando decisi di farlo, il Sindaco mi disse: "ma tu sei pazzo, all'alba chi vuoi che venga? Magari ti mandano la polizia!" Infatti la polizia è venuta, ma a dirigere il traffico... E anche volentieri, perché ormai il concerto all'alba è un appuntamento importante dell'annata! Quest'anno ci sarà Egberto Gismonti (all'alba del 30 agosto), ma anche musicisti meno noti che meritano di suonare e riescono a farlo troppo, troppo di rado, almeno in Italia. Il sito www.musicasullebocche.it vi potrà raccontare meglio questo festival.

In generale, i risultati di questo cambiamento di prospettiva si vedono, perché - nonostante il festival costi circa un decimo di quello che si stima porti al territorio - l'anno scorso abbiamo staccato ventimila biglietti (a un euro l'uno, giusto per contare il pubblico).

AAJ - In conclusione?

E.F. - Beh, posso dire di essere felice del fatto che, in questo momento della vita, la mia musica, le mie idee musicali, il festival Musica sulle Bocche stimolano la curiosità delle persone. Questo è molto importante per una artista e per un agitatore culturale.

Foto di Pablo Volta (la seconda), Danilo Codazzi (la terza, quarta e nona), Luca D'Agostino (la quinta, sesta e settima), Ziga Koritnik (l'ottava).

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