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Diamanda Galás

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Festivaletteratura

Teatro Sociale - 08.09.2007 / Chiesa di S. Paola - 09.09.2007 - Mantova

Diamanda Galás a Mantova, la mia città. Evento alquanto improbabile, forse una svista?

Diamanda Galás a Festivaletteratura. Eh già, perché ci voleva pure un movente per portare un simile alieno tra le muffe di questa provincia. Perché poi dei tanti Festival della città che avrebbero potuto legittimamente invitare la Galás (quello della Musica ovviamente, quello certo più idoneo del Teatro, magari quello dedicato all’infanzia no, eh?) sia stato proprio quello più obliquo alla polisemica esperienza della cantante è questione in fondo poco rilevante. Fosse anche stata una svista, conta il fatto che abbia portato una scossa davvero memorabile alla sonnecchiante cittadina sempre intenta a mirarsi l’ombelico.

Colpisce duro la Galás, al mento con gli agghiaccianti prodigi della voce e allo stomaco con la sua disperante empatica presa emotiva.

La letteratura è una lente graduata. La parola solo un messaggero. Diamanda Galás insegna che talvolta abbiamo bisogno di un contatto più diretto con la vita. Per questo urla. Banalmente, per far(si) sentire meglio.

Che si trovi nella penombra del palco, l’oscurità che confonde ed espande il teatro col pianoforte e poi il tutto coi suoi capelli, i suoi abiti e la sua voce; che si metta allo scoperto, alla luce del sole, a fianco di Enzo Gentile e di fronte a una nutrita schiera di festivalieri accorsi allo zoo, Diamanda Galás pare nelle sue dinamiche espressive come posseduta.

Non è il solito facile cliché. Non si tratta della solita immagine di comodo, che vorrebbe la Galás insana sacerdotessa di un mondo infero che meglio appare quanto più si oscura. La performance e ancor più l’incontro col pubblico che Festivaletteratura ha saggiamente organizzato hanno portato alla luce un’altra prospettiva, ben più umana e, forse proprio per questo, realmente diabolica.

Dolore e indignazione. Ecco da cosa è posseduta la Galás. Dolore per la sofferenza universale e indignazione per tutto quanto è falso, corrotto e alienante.

Tutto l’apparato scenico che la Galás si è costruita attorno negli anni, e che la stampa ha rilanciato come unico suo tratto distintivo, appare in verità nient’altro che il naturale simpatetico riflesso del disagio contro cui avverte l’imperativo di scagliarsi.

L’esperienza al Festivaletteratura prova come l’estetica dell’eccesso su cui insistono le performance della Galás risulti governata da una profonda carica empatica che scorre a doppio senso tra il mondo e la cantante e tra questa e il suo pubblico.

Lungi dall’essere quella meschina portatrice di tetri messaggi ammantata per convenienza nella sua mirabolante estensione vocale che troppo spesso si vuole dipingere, la Galás appare cantora di speranza, promotrice di un movimento di liberazione. La voce e la presenza della Galás fungono da potente e abbagliante ripetitore, privo di filtri, che risputa fuori amplificandolo mostruosamente tutto lo sdegno, tutta la sofferenza, tutta l’urgenza di lottare contro l’ingiustizia e le restrizioni, l’oppressione e l’emarginazione.

Ecco cosa rimane della calata di Diamanda Galás a Mantova in occasione di Festivaletteratura. La sua natura (troppo) umana, la sua incredibile potenza espressiva a specchio di una profonda fragilità empatica.

Ecco cosa rimane.

Ancor più degli autori che la sua voce avrebbe dovuto far rivivere: Michaux, Poe, Baudelaire, Vallejo, Celan, Pasolini, Adonis; le cui parole vengono dalla Galás svuotate del loro senso primario, utile solo come catalizzatore e scintilla emotiva, per ammantarle di puro suono e del proprio sentire, per farle proprie e solo così presentate al pubblico.

Ancor più del blues, musica dolorosa, musica dolente. Compagna da sempre, unico contatto con un padre per il resto avverso alla sua inclinazione al canto. Musica investita dalla Galás di una rabbia infuocata, raramente così scarna raramente così viva.

Ancor più di quell’espressività allucinata che trasfigura i brani in feroci assalti sonori o languidi sospiri. Su tutti, rimarrà la resa di You Don’t Know What Love Is, intrappolata in un alito estremo, come fosse l’ultimo fiato usato per rivelare la verità più urgente e amara.

Ancor più delle parole scagliate come schiaffi, rabbiose e orgogliose. Contro il solito Stanley Crouch. Contro chi come Wynton Marsalis pretende di rinchiudere il jazz in una riserva asettica. Contro chi come Cecil Taylor pretende di rinchiudere il jazz in una discendenza di sangue e colore della pelle.

Diamanda contro tutti, Diamanda per tutti noi.

Foto di Austin Young e Paula Court, rispettivamente


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