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David Sylvian - The World Is Everything Tour

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Auditorium della Conciliazione - Roma - 27.09.2007

Sembra che il tempo dalle parti di David Sylvian non sia mai passato [per leggere una retrospettiva sulla sua carriera clicca qui]. Il dandy inglese ha stretto un patto con un’entità trascendentale in cambio della longevità artistica e spirituale. Quasi cinquantenne, Sylvian va avanti nel suo percorso artistico senza stare lì a soffermarsi sulle leggi del music business. La sua espressività artistica sta sempre più assumendo i colori della proverbiale flemma, del suo essere schivo, nascosto, impaurito dalla sua stessa ombra.

Eppure il nutrito pubblico che lo segue dai tempi dei Japan lo stima all’ennesima potenza, proprio per questo suo essere imperturbabile e ascetico (Sylvian non si è scomposto minimamente quando una strana spettatrice, durante il concerto romano, gli si è avvicinata con fare minaccioso).

Il concerto di Roma, non diversamente da quanto sta accadendo in giro per l’Europa, è stato un vero e proprio trionfo. Dopo circa trenta anni di carriera, chi si aspetterebbe di trovare un Auditorium gremito e applaudente? Lui non è un dinosauro del rock, definizione questa che gli sta davvero molto stretta, perché porta le sue ambizioni artistiche sempre più avanti, spiazzando un po’ tutti. E anche quando le major gli girano le spalle, che fa? Crea una label e va avanti. Se negli anni ’80, Sakamoto era l’ombra amica - in realtà lo è ancora tuttora - agli inizi dei novanta, Robert Fripp era il suo angelo custode in nome di rigurgiti prog-rock e sterzate musicali durissime.

Adesso ritorna all’elettronica e Christian Fennesz, per il Sylvian a venire, semina glitch e nuovi confini timbrici nella creatività dell’ex Japan. Il concerto di Roma ha raccontato un po’ di tutto questo e non solo. Sospeso tra passato e presente, l’artista inglese ha dimostrato, ancora una volta, quanto siano labili i confini dei generi. Ha portato per mano gli spettatori nel giardino della sua storia musicale fatto di alberi che sono come querce secolari nella memoria dei suoi affezionati estimatori (“Brilliant Trees”, “Before the Bullfight”, “Ghosts”, “Ride”), e di germogli che stanno rapidamente affiorando a nuova vita (“World Citizen”, “Snow Borne Sorrow”, “Sugar Fuel”).

Non ha fatto passare inosservata la complessità ritmica di “Wonderful World” (tempo in 9/4), i contrasti del senso fusi con cupe atmosfere jazzate e oscuri presagi (“Atom & Cell”, “The Librarian”), cosi come le dissonanze pianistiche di “Mother and Child” (essenziali gli interventi al piano di Takuma Watanabe). Ma la parte migliore Sylvian la riserva all’immediato futuro.

Quello che disegna per il fratello batterista Steve Jansen (altra ombra amica) in “Playground” - gli interventi al contrabbasso elettrico di Keith Lowe sono delizia per le orecchie - e quello condiviso e condivisibile col genio di Fennesz (“Forest Fire”, “Transit”). Due acclamatissimi bis (“Every Colour You Are” e “Wanderlust”) chiudono l’applauditissima esibizione.

Nel silenzio, fuori dai clamori e dai fastidi della ribalta, il mago Sylvian sta lavorando ad un altro futuro. Questo è il concerto che saluta definitivamente il suo passato.

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